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Elegia giudeo-italiana [La ienti de Sïòn]

anonimo
Lingua: Italiano (Italkiano / Italkian (Giudeo-Italiano))


Lista delle versioni e commenti


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[XIII secolo]
Kinah sul motivo di Tissather le-allem
Fonti: Codice Ferrarese F (XIV secolo)
Codice Parmense P (XIV secolo)
Trascrizione T (XVIII secolo)
Edizione originale (in caratteri ebraici e trascrizione):
Elia S. Artom (1915)

Il Tempio Maggiore Israelitico di Ferrara.
Il Tempio Maggiore Israelitico di Ferrara.


Tra pochi giorni, dice, sarà la Giornata della Memoria. La memoria che vorrei proporre questa notte è però remota nel tempo; remota e, al tempo stesso, vicinissima. Si tratta dell'Elegia giudeo-italiana.

Nel 1915, giusto cent'anni fa, Elia S. Artom, grande studioso e storico di cose ebraiche, trovò in un codice trecentesco contenente un Machzor (libro di preghiere), conservato presso il Tempio Maggiore di Ferrara, un testo, scritto in caratteri ebraici ma redatto in realtà in italkiano, la koiné giudeo-italiana che aveva Roma come centro di irradiamento: si tratta del cosiddetto Codice Ferrarese F. In seguito ritrovò il medesimo testo, sempre in un Machzor trecentesco, a Parma (il Codice Parmense P; la terza attestazione (T) è invece una trascrizione settecentesca meridionale, forse addirittura di origine calabrese. Artom decise di pubblicarlo, proprio in tale trascrizione leggermente emendata, rendendosi conto sia della sua antichità, sia della sua enorme importanza. I due codici trecenteschi erano stati con tutta probabilità redatti a Roma; la notazione in caratteri ebraici, a differenza delle altre lingue giudeo-europee (come ad esempio lo Yiddish), è totalmente priva di segni con valore vocalico e, quindi, è solo grazie alla trascrizione settecentesca che è possibile leggerla.

Si tratta, dal punto di vista rituale, di una Kinah, vale a dire di un'elegia cantata durante il digiuno del nono giorno del mese di Av; i codici dei Machzorim F e P precisano fedelmente che dev'essere cantata sul motivo di Tissather le-allem, altra Kinah rituale in ebraico. La sua datazione plausibile va dalla I metà del XIII secolo alla I metà del XIV; ma i più propendono attualmente per la prima delle due ipotesi (Cassuto riteneva che risalissero ai primissimi anni del '200, se non addirittura alla fine del secolo precedente). Non essendone indicato un titolo specifico (a parte quello generico di Kinah presente nei codici più antichi), va generalmente sotto il semplice nome generico di Elegia giudeo-italiana, oppure sotto quello de La ienti de Sïòn, dalle sue prime parole

I centoventi versi dell'Elegia giudeo-italiana sono un autentico unicum per più d'un motivo. E', al tempo stesso: Il più antico testo in giudeo-italiano pervenutoci, uno dei più antichi testi poetici italiani tout court e un tentativo, più unico che raro, di piegare una lingua romanza ad un modello poetico tipicamente ebraico, del tutto abnorme da ogni uso italiano: terzine monorime di versi con assonanze e numero di sillabe variabile (da nove a quindici), ma con la presenza costante di quattro accenti (e il quarto può anche essere l'accento secondario d'un polisillabo, ovvero cadere su una proclitica).

L'elegia è, come detto, redatta nella koiné giudeo-italiana dell'Italia centrale, o Italkiano (tuttora, in ebraico moderno, la lingua italiana è detta italkit). Tale koiné aveva sì come centro di irradiamento Roma, per ovvi motivi; ma non è specificamente basata sul dialetto romanesco dell'epoca (che aveva comunque ancora caratteri spiccatamente centromeridionali, non ancora influenzati pesantemente dal toscano come il romanesco moderno; un esempio è la coeva Cronica de Cola de Rienzo, che un romano di oggi non sarebbe capace di intendere). In tale koiné sono redatte particolarmente delle traduzioni, ancora pochissimo note, della Bibbia, che sembrano risalire ad una tradizione duecentesca.

Umberto (Moyshe David) Cassuto.
Umberto (Moyshe David) Cassuto.
Dopo la prima pubblicazione in frett'e furia dell'Elegia da parte di Elia S. Artom, dovettero passare parecchi anni prima che ne venisse fatta un'edizione critica: avvenne nel 1929, nel volume Silloge linguistica dedicata alla memoria di Graziadio Isaia Ascoli (uno dei più grandi glottologi italiani e europei, goriziano e pure di religione israelita). Il curatore dell'edizione critica fu Umberto Cassuto, rabbino, esegeta e drammaturgo proveniente da un'antica famiglia ebraica fiorentina che fu, pochi anni dopo, sterminata nella Shoah (suo figlio era il famoso rabbino, medico e mistico Nathan Cassuto, perito nel lager di Grossrosen nel febbraio 1945) . Otto anni dopo, nel 1937, alla vigilia delle leggi razziali fasciste, Umberto Cassuto ritornò sul testo dell'Elegia; riteneva, a ragione, che pochissimi si fossero occupati di quel testo fondamentale e del tutto unico. Quasi contemporaneamente, e alla vigilia dell'Anschluss nazista dell'Austria, cominciò ad occuparsene il grande critico e romanista viennese Leo Spitzer: quel che ne risultò fu una delle maggiori testimonianze del suo famoso metodo critico.

Già Umberto Cassuto, comunque, si era accorto della stretta parentela che esisteva tra l'Elegia e ritmi italiani coevi, ritrovando stilemi comuni particolarmente col Ritmo di Sant'Alessio. Trovando particolari linguistici e stilistici in comune anche col marchigiano Pianto delle Marie, formulò l'ipotesi che la koiné giudeo-italiana avesse prevalentemente caratteri umbro-marchigiani (si ricordi che Ancona era un altro importante centro di irradiazione ebraico in Italia). Credette di poter affermare con buon margine di sicurezza che la parlata giudeo-italiana avesse caratteri marchigiani meridionali, ma che, al contempo, la lingua in quanto tale sfuggiva ad una precisa localizzazione.

La resa grafico-fonetica settecentesca in caratteri latini dell'Elegia, ripresa originalmente da Artom e Cassuto, fu rivista da Gianfranco Contini su criteri filologici nel 1960, al momento del suo inserimento nei Poeti italiani del Duecento. In Rete il testo originale in caratteri ebraici è disponibile solo in un'immagine .gif che qui comunque accludiamo nonostante la sua pessima qualità; come testo principale viene qui inserita la versione definitiva della trascrizione.

All'inizio del suo saggio, intitolato La bellezza artistica dell'antichissima Elegia giudeo-italiana, Leo Spitzer scrisse quanto segue: “Chiunque legga l’antica elegia giudeo-italiana, ricostruita dal Cassuto con la maestria di un conoscitore tanto dello spirito medievale quanto dello spirito ebraico, deve sentirsi commosso nel suo intimo cuore, non soltanto mosso a pietà per il destino singolare del popolo ebreo, tragico oggi, anzi più tragico oggi che mai, con una Sion senza pace, non meno che nel passato, ma per la condizione umana che consente un atteggiamento di lutto permanente. Ècosì immediato l’effetto straziante della poesia sul lettore che sembrerebbetrascendere tutte le possibilità di analisi critica.” Dopo la guerra, Leo Spitzer ebbe a scrivere ancora: «Non possiamo fare a meno di ricordare l’emozione che ci dette questa poesia quando la leggemmo per la prima volta nell’Antologia del Lazzeri in un momento in cui quella tragedia toccava il suo culmine, o il suo abisso». Per questo motivo, come detto all'inizio, questo componimento è, al tempo stesso, remoto e vicinissimo.

L'Elegia si apre con il lamento per il massacro e la diaspora del popolo di Sion; la parte centrale è invece occupata sul racconto dell'incontro tra un fratello e una sorella entrambi catturati e ridotti schiavi; il racconto pare essere ripreso quasi con fedeltà dalla midrash (esegesi della Torah) intitolata Ekha Rabba. Il componimento termina con un'invocazione a Dio e con la speranza di ritornare, un giorno, nella terra perduta.[RV]

Il testo in caratteri ebraici. Codice Ferrarese F [riproduzione]
Il testo in caratteri ebraici. Codice Ferrarese F [riproduzione]
La ienti de Sïòn plange e lutta;
dice: «Taupina, male so' condutta
em manu de lo nemicu ke m'ao strutta ».

La notti e la die sta plorando,
li soi grandezi remembrando,
e mo pe lo mundu vao gattivandu.

Sopre onni ienti foi 'nalzata
e d'onni emperio adornata,
da Deo santo k'era amata.

E li signori da onni canto
gìanu ad offeriri a lo templo santo,
de lo grandi onori k’avea tanto.

Li figlie de Israel erano adornati
de sicerdoti e liviti avantati,
e d'onni ienti foro 'mmedïati.

Li nostri patri male pinzaru,
ke contra Deo revillaru:
lu beni ke li fici no remembraro.

Pi quisto Deu li foi adirato,
e d'emperiu loro foi caczato,
ka lo Soo nome àbbero scordatu.

Sopre isse mandao sì grandi osti,
ki foi sì dura e ·ssì forti
ke roppe mura e 'nfranzi porti.

Guai, quanta ienti foi mecïata,
ke tutta la terra gia ensanguinentata!
oi, Sïon, ke si' desfigliata!

Lo tempio santo àbbero desirtato,
ke 'n grandi onori foi 'deficato,
e foco da celo l'abbe afflambato.

Sprecaro torri e grandi palaza,
e lo bando gia pe onni plaza:
«Fi' a fonnamento si desfacza! ».

Vidisi donni là desfare
e ientili omeni de grandi affari,
ke 'n nulla guisa si no pòi recitare.

E·ttri navi misero pi mare
çença rimo (entenda ki s'aiutare!),
e tutti a mare se prisero iettare.

Altri ne vinnéro d'onne canto,
tutti çença non dere per quanto:
oi, ke farai, popolo santo?

E li leviti e li sacerdoti
como bestiaglia foro venduti
e 'nfra l'altra iente poi sperduti.

Tanto era dura loro signoria,
la notte prega ·dDio ke forsi dia,
la dia la notti, tanto scuria.

Ki bole aodire gran crudeletate
ke addevenni de sore e frate,
ki 'n quilla ora foro gattivati?

Ne la prisa foro devisati:
ki abbe la soro e·cki lo frate;
e 'n gattivanza foro menati.

Lo signore de la soro, mecïaro,
l'abbe venduta ad uno tavernaro,
ké de lo vino là l'embrïaro.

E lo frate fue tradato
ad una puttana pi peccato:
oi, popolo santo, male si' guidato!

Venni una ora ke s'adunaro
quilla puttana e lo tavernaro,
e l'una e l'altro lo recitaro.

«Una donna aiu, bella quanto rosa,
bene crido k'è ienti cosa,
de la ienti trista e dolorosa».

Quilla respundi k' «Io aio uno 'nfanti,
ked è sì ienti ed avenanti,
plo ki la stilla da livanti ».

In quisto pinzaro parenteze
a fari e li loro figli asserventari
e bennerelli pe guadagnare.

Foro coniunti ad una caminata:
la donna da canto è svïata;
dece: «Trista, male foi nata!

De secerdoti io foi figliola,
signuri de lie e·dde scola:
e ·mmo cu uno servo stao sola ».

Così lo 'nfanti stava da canto:
facia lamento e grandi planto,
ka «Foi figlio d'uno omo santo.

Mo so' adunato c'una sergente,
né ·dde mia lie né-dde mia iente:
como faraio, tristo dolente?»

En quillo planto s'àbbero aoduti,
e l'uno e l'altro conosciuti:
«Soro e frati, ovi simo venuti?».

E l'uno e l'altro se abbraczaro,
e con grandi planto lamentaro,
fi' ke moriro e pasmaro.

Quista crudeli ki aodisse,
ki grandi cordoglio no li prindisse
e grande lamento no ne facisse.

Ki pòi contare l'altri tormenti,
ke spisso spisso so' convenenti,
plo dori ke flambi ardenti?

Santo Dio nostro Signore,
retorn' a reto lo Too forore,
e no guardari a noi piccadori.

Pe lo Too nome santo e binditto,
lo nostro core aiusta a·dderitto,
ke Te sirvamo in fatto e 'n ditto.

E remembra la prima amanza,
e trai noi de quista gattivanza,
de quista tenebri e scuranza.

E lo nemico k'è tanto avantato,
ne lo Too furori sia deiettato,
da canto en canto desertato.

E cetto facza como ao fatto,
e sia strutto e·ddesfatto,
ka fao rumpere la lie e lo patto.

E deriza stradi 'n onni canto,
ad adunare en quillo santo
quillo popolo k'amasti tanto.

E lo santo templo k'è deguastato,
de la Toa mano sia 'defecato,
lo Too prufeta come ao profetïato.

Leviti e secerdoti e tutta ienti
entro Sïòn stare gaoiente,
lo santo Too nome bendicenti.

inviata da Gaspard De La Nuit - 25/1/2016 - 02:59



Lingua: Italiano

Traduzione in italiano moderno di Giuseppe Bonghi
Da Classici Italiani
[ELEGIA GIUDEO-ITALIANA]

La gente di Sion piange e geme;
dice: «Tapina, per mia sventura son caduta
nelle mani del nemico che mi ha distrutta».

La notte e il giorno sta piangendo,
ricordando le sue grandezze
ed ora per il mondo vive in schiavitù.

Sempre fu innalzata sopra ogni gente
e adornata di ogni impero,
da Dio Santo da cui era amata.

E i potenti da ogni luogo
andavano a portare offerte al tempio santo,
tanto grandi erano gli onori che aveva.

I figli di Israele erano adornati
lodati da sacerdoti e leviti,
e furono invidiati da tutti.

I nostri padri pensarono male,
perché contro Dio si ribellarono:
il bene che fece loro non ricordarono.

Per questo Dio si adirò contro di loro,
e Israel fu cacciato dal suo regno
perché aveva scordato il Suo nome.

Contro di lui mandò un così grande nemico
che fu così crudele e così forte
che abbattè le mura e scardinò le porte.

Ahimè, quanta gente fu uccisa,
come era insanguinata tutta la terra!
ahimè, Sion, di quanti figli ti hanno privata!

Hanno rovinato il santo tempio
che fu edificato con grandi onori
e un fuoco dal cielo l’ha incendiato.

Abbatterono torri e grandi palazzi
e il bando andava in ogni piazza:
«Si spiani fin dalle fondamenta!»

Là si videro uccidere donne
e gentiluomini di grande importanza,
che in nessun modo si può raccontare.

E tre navi misero in mare
senza remi (coi quali potersi aiutare)
e tutti cominciarono a gettarsi nel mare.

Altri giunsero da ogni dove,
tutti senza poter dire qualcosa:
ahimè, che farai, popolo santo?

E i leviti e i sacerdoti
come bestiame furono venduti
e poi sperduti fra gente straniera.

Tanto era dura la loro schiavitù
che prega Dio che la notte diventasse giorno
e il giorno la notte, tanto s’oscurava.

Chi vuole ascoltare la sorte crudele
che capitò a un fratello e a una sorella
che in quell’ora furono fatti prigionieri?

Nella cattura furono divisi:
chi ebbe la sorella e chi ebbe il fratello
e in schiavitù furono menati.

Il padrone della sorella, masnadiero,
la vendette a un taverniere,
in cambio di vino con cui si ubriacò.

Il fratello fu ceduto
a una puttana come pagamento:
o popolo santo, come sei sciagurato.

Arrivò un momento in cui si riunirono
la puttana e il taverniere
e l’uno e l’altro raccontarono il fatto.

«Ho una donna, bella come una rosa
che credo ben che sia di stirpe nobile,
appartenente alla gente triste e dolorosa».

Quella rispose «Io ho un fanciullo
che è molto gentile e avvenente
più della stella del mattino».

Intanto pensarono a legarli in matrimonio
e tenere schiavi i loro figli
e venderli per guadagnare.

furono messi insieme in una camera:
La donna s’è isolata in un angolo;
dice: «Povera me, son nata sventurata!

Io fui figlia di sacerdoti,
signori di legge e di scuola:
e adesso sto sola con un servo».

Anche il ragazzo stava in un canto:
si lamentava e piangeva molto,
e diceva «Fui figlio d’un sant’uomo.

Ora sto in compagnia d’una serva,
che non è della mia religione
né della mia gente, come farò, povero me?»

In quel pianto si udirono
e l’un l’altro si riconobbero:
«Sorella e fratello, dove siamo arrivati?».

E l’un l’altro si abbracciarono,
e si lamentarono con un lungo pianto,
finché morirono e persero i sensi.

Chi ascolta questo racconto
è preso da grande cordoglio
e prorompe in un lungo lamento.

Chi potrebbe raccontare gli altri tormenti,
che molto spesso accadono
più dolorosi di fiamme ardenti?

Santo Dio nostro Signore,
distogli da noi il tuo furore,
e non guardare noi peccatori.

Per il tuo nome santo e benedetto,
riporta il nostro cuore sulla retta via
perché ti serviremo coi fatti e le parole.

E ricorda Gerusalemme il tuo primo amore
e trai noi fuori da questa schiavitù,
da questa tenebra e oscurità.

E il nemico che è tanto lodato,
nel Tuo furore sia abbassato
dovunque sia distrutto.

E presto gli si faccia quel ch’ha fatto agli altri,
e sia distrutto e disfatto,
perché ha fatto rompere la legge e il patto.

e fai accorrere da ogni luogo
a radunarsi nel santo tempio
quel popolo che tanto hai amato.

E il santo tempio che è distrutto
sia edificato dalla Tua mano
come ha profetizzato il tuo profeta.

Leviti, sacerdoti e tutta la gente
possano stare felici in Sion
benedicendo il Tuo santo nome.

inviata da Gaspard De La Nuit - 25/1/2016 - 03:06


Per la bibliografia:
Domenica Minniti Gonias, La ienti de Sïòn. Un’ Elegia del XIII secolo in dialetto giudeo-italiano. Citta' del Sole, Reggio Calabria 2010.

Grazie

dmg - 13/10/2016 - 08:11




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