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Canzone della Rabata

Rocco Scotellaro
Lingua: Italiano (Lucano)


Lista delle versioni e commenti


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[immediato secondo Dopoguerra]
Si tratta di alcune strofe - qui non complete - scritte da Rocco Scotellaro insieme ad alcuni contadini (fra i quali tali Rocco Tammone, Giuseppe Cetani e Giuseppe Paradiso) della Ràbata, antico quartiere di origine araba di Tricarico, provincia di Matera, Basilicata.

Tricarico, 1952. In una casa del rione Ràbata. Da notare il manifesto sullo sfondo, con la stella del Fronte Popolare.
Tricarico, 1952. In una casa del rione Ràbata. Da notare il manifesto sullo sfondo, con la stella del Fronte Popolare.


Una canzone “di dolore e di ribellione, di rampogna e di minaccia”, un testo fluido che “ha continuato a nascere e crescere, ribelle a qualsiasi lavoro di fissazione definitiva”, come ebbe a dire Ernesto De Martino nel suo “Furore, simbolo, valore” (Il Saggiatore, 1962), saggio nato frequentando i quartieri poveri dei paesi poverissimi della Lucania, da cui traggo le strofe che vado a contribuire.

“La strofa esige alcune delucidazioni per la comprensione. La Rabata, dice, è tutta una rovina e in essa, come in una specie di bolgia, gli uomini si vanno tendendo le mani l'uno verso l'altro, chiedendosi a vicenda aiuto. Le promesse di strade e di latrine sono rimaste lettera morta, in realtà è stata rimessa a nuovo soltanto la piazzetta dell’arcivescovado (le chiazzette a l'assassine!). Ma la cuccagna deve finire, annunzia il ritornello, le differenze di classe debbono essere abolite e se qualcuno resisterà saranno botte. Le condizioni semibestiali di vita a cui i contadini sono condannati, l’irrisione di cui sono oggetto da parte dei ‘signori’, la consapevolezza della irriducibile opposizione tra mondo contadino e mondo padronale e insieme l’orgogliosa coscienza che i contadini della Rabata, considerati dei selvaggi, quasi bestie che mangiano e dormono insieme alle bestie, sono in realtà ‘la giovinezza del mondo’.” (Ernesto De Martino, nella sua opera sopra citata)
La Rabata è tutta ruvinata
andiamo facendo sempre frate o frate.
Promettono le strade e le latrine
poi fanno le chiazzette a l'assassine.

[Ritornello]
Adda fernesce sta cuccagna
cà aimmo essere tutti cumpagne
e se nun ce vulite stà
le mazzate hann'a camminà

[…]

Ce chiammeno Zulù e beduine
ca nuie mangiamme assieme a le galline.
Int'a' Rabata nun ce sò signure
nun c'è né Turati né Santoro.

Nuie simme a’ mamma d'a' bellezza
nuie simme nè trifugghie e neanche avezza.
[…]

Voi che fate l'intelligente
non capite proprio niente.
Se nun fosse pe' li cafoni
ve mangiassive li cuglioni.

inviata da Bernart Bartleby - 30/5/2014 - 13:05



Lingua: Italiano

Traduzione italiana di Sergio D’Amaro dalla rivista Il Ponte (anno LXX, n. 3, marzo 2014), mensile di politica e letteratura fondata a Firenze nel 1945 da Piero Calamandrei.
CANZONE DELLA RÀBATA

La Ràbata è tutta rovinata
andiamo facendo sempre frate o frate.
Promettono le strade e le latrine
poi fanno le piazzette agli assassini.

Deve finire questa cuccagna
ché dobbiamo essere tutti compagni
e se non ci volete stare
le mazzate devono correre

[…]

Ci chiamano zulù e beduini
ché mangiamo assieme alle galline.
Nella Ràbata non ci sono signori
non c’è né Turati né Santoro

Noi siamo la mamma della bellezza
Noi non siamo né trifoglio e nemmeno avanzi (*)
[…]

Voi che fate gli intelligenti
non capite proprio niente.
Se non fosse per i cafoni
vi mangereste i coglioni
(*) La traduzione di questo frammento di strofa è mia, e non è detto per nulla che sia corretta…

inviata da Bernart Bartleby - 30/5/2014 - 13:28


infatti l'avezza dovrebbe essere un cereale

2/7/2019 - 23:10




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