inviata da Bernart Bartleby - 29/5/2014 - 14:57
E' morto l'ex segretario generale Onu, l'egiziano Boutros Ghali. Aveva 93 anni.
Lo chiamavano "Il Faraone", per via della sua alterigia e suscettibilità. Lui e la sua ONU furono tra i responsabili, diretti ed indiretti, delle tragedie di Bosnia e Ruanda.
Non che quelli che lo hanno preceduto (vedi Kofi Annan, la cui famiglia speculava sul già scandaloso embargo all'Iraq e sul programma americano "Oil For Food") e seguito (vedi l'attuale Ban Ki-moon, figura totalmente inutile) abbiano fatto molto meglio...
A parziale discolpa di tutti costoro, c'è da dire che non esiste un'organizzazione internazionale che possa anche solo minimamente determinare in meglio i destini dell'umanità, mai come ora soggetta soltanto ad un manipolo di ricchi potenti psicopatici assassini, tra i quali quelli dello Stato Islamico sono solo gli ultimi arrivati e nemmeno i più letali...
Lo chiamavano "Il Faraone", per via della sua alterigia e suscettibilità. Lui e la sua ONU furono tra i responsabili, diretti ed indiretti, delle tragedie di Bosnia e Ruanda.
Non che quelli che lo hanno preceduto (vedi Kofi Annan, la cui famiglia speculava sul già scandaloso embargo all'Iraq e sul programma americano "Oil For Food") e seguito (vedi l'attuale Ban Ki-moon, figura totalmente inutile) abbiano fatto molto meglio...
A parziale discolpa di tutti costoro, c'è da dire che non esiste un'organizzazione internazionale che possa anche solo minimamente determinare in meglio i destini dell'umanità, mai come ora soggetta soltanto ad un manipolo di ricchi potenti psicopatici assassini, tra i quali quelli dello Stato Islamico sono solo gli ultimi arrivati e nemmeno i più letali...
Bernart Bartleby - 17/2/2016 - 08:31
ANCHE WASHINGTON TIRA LE ORECCHIE A KIGALI, MENTRE IL COMMERCIO DEL COLTAN NON CONOSCE CRISI
Gianni Sartori
Soltanto venti giorni fa, in occasione del 18° vertice della francofonia (Oif, in rappresentanza di una novantina di Stati) nell’isola tunisina di Djerba, Louise Mushikiwabo (ministro degli esteri Ruandese dal 2009 al 2018 e segretaria generale dell’Oil, appena rieletta per i prossimi quattro anni) lanciava accuse (se non proprio del tutto infondate, perlomeno non documentate) secondo cui ci sarebbero “elementi nella Repubblica democratica del Congo, proprio alla frontiera con il Rwanda, che sono una minaccia per la sicurezza del mio paese”.
Quando in realtà - stando ai rapporti onusiani - quello che sta avvenendo sarebbe esattamente il contrario. Basti pensare al sostegno anche di natura militare dato dal governodi Kigali (e dal presidente Kagame di etnia tutsi,quella che subì il genocidio del 1994) al movimento M23 che imperversa nel Nord Kiwu, una regione nell’est della Repubblica democratica del Congo (RdCongo) da dove sono fuggiti centinaia di migliaia di sfollati (e dove, ricordo, sono stati assassinati l’ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vito Iacovacci).
Erano passati soltanto alcuni giorni quando, il 29 novembre, veniva attaccata la città di Kishishe (circa 70 km da Goma, la capitale del Nord Kiwu).
Se inizialmente si parlava di una cinquantina di vittime, via via che le indagini proseguivano si arrivava alla cifra terribile di oltre 270 civili (tra cui diversi bambini) rimasti uccisi.
Stando alle fonti ufficiali, il governo e le forze armate congolesi, la responsabilità dell’attacco cruento sarebbe del Movimento 23 marzo (che però, da parte sua, smentisce). Nella generale costernazione del Paese, il presidente della RdCongo, Felix Tshisekedi, aveva indetto tre giorni di lutto nazionale.
Significativo che tale strage sia avvenuta (come una provocazione per sabotare gli accordi se non di pace, almeno di non belligeranza attiva) a soli cinque giorni dall’ultima dichiarazione di cessate il fuoco. Anche se, forse inopportunamente, M23 (inattivo dal 2013 al 2021) era rimasto escluso dalle trattative del vertice dei Grandi Laghi (fine di novembre) che si erano svolte a Luanda.
Invitato invece (ma aveva preferito farsi sostituire dal suo ministro degli Esteri, Biruta) Paul Kagame, il presidente del Rwanda.
Intanto, dando prova di scarso tempismo, l’Unione Europea approvava il 1 dicembre un ulteriore stanziamento (circa 20 milioni di dollari) per l’esercito ruandese. Ufficialmente per rafforzare la lotta al terrorismo in Mozambico (regione di Cabo Delgado), ma alcuni osservatori non escludono che in parte tali finanziamenti vengano dirottati ad alimentare il conflitto nel nord Kiwu.
Recentemente la politica di Kagame nei confronti della RdCongo è stata messa in discussione proprio da uno dei principali sostenitori del governo di di Kigali.
Il segretario di stato statunitense Antony Blinken ha chiesto infatti a Kagame di non sostenere ancora M23 e di promuovere concretamente “pace e stabilità”.
Critiche che non sarebbero state ben accolte dal presidente del Ruanda.
Quanto a M23, sarebbe costituito soprattutto da miliziani ed ex insorti di etnia tutsi (ma spesso di nazionalità congolese) che in parte erano stati integrati nell’esercito congolese. Il tentativo di smantellare le unità formate appunto da tali ex ribelli (o di trasferirli in altre regioni della RdCongo) aveva provocato la loro ribellione.
Attualmente chiedono l’amnistia e la possibilità di rientrare dai campi profughi del Ruanda e dell’Uganda per i rifugiati tutsi di nazionalità congolese.
Senza escludere la possibilità di essere reintegrati nell’esercito congolese in modo da poter esercitare un maggiore controllo su traffici e commerci nel nord Kiwu.
Per esempio quello del cobalto, nella cui estrazione, su un totale di trecentomila minatori, sono coinvolti almeno 35mila bambini ridotti in schiavitù.
Oppure dell’altrettanto famigerato coltan che ugualmente si estrae a mani nude con danni irreparabili per la salute dei giovanissimi minatori. Per non parlare degli abusi sessuali di cui sono vittime.
Da qui il coltan, attraverso una catena commerciale gestita da bande, milizie e mercenari di varia etnia ed estrazione (a cui le compagnie subappaltano il lavoro sporco), arriva in Ruanda e Uganda. Per essere acquistato dalle compagnie che si occuperanno dell’export, eventualmentedella raffinazione. Destinazione finale: le multinazionali in Germania, USA, Cina…
Gianni Sartori
Gianni Sartori
Soltanto venti giorni fa, in occasione del 18° vertice della francofonia (Oif, in rappresentanza di una novantina di Stati) nell’isola tunisina di Djerba, Louise Mushikiwabo (ministro degli esteri Ruandese dal 2009 al 2018 e segretaria generale dell’Oil, appena rieletta per i prossimi quattro anni) lanciava accuse (se non proprio del tutto infondate, perlomeno non documentate) secondo cui ci sarebbero “elementi nella Repubblica democratica del Congo, proprio alla frontiera con il Rwanda, che sono una minaccia per la sicurezza del mio paese”.
Quando in realtà - stando ai rapporti onusiani - quello che sta avvenendo sarebbe esattamente il contrario. Basti pensare al sostegno anche di natura militare dato dal governodi Kigali (e dal presidente Kagame di etnia tutsi,quella che subì il genocidio del 1994) al movimento M23 che imperversa nel Nord Kiwu, una regione nell’est della Repubblica democratica del Congo (RdCongo) da dove sono fuggiti centinaia di migliaia di sfollati (e dove, ricordo, sono stati assassinati l’ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere Vito Iacovacci).
Erano passati soltanto alcuni giorni quando, il 29 novembre, veniva attaccata la città di Kishishe (circa 70 km da Goma, la capitale del Nord Kiwu).
Se inizialmente si parlava di una cinquantina di vittime, via via che le indagini proseguivano si arrivava alla cifra terribile di oltre 270 civili (tra cui diversi bambini) rimasti uccisi.
Stando alle fonti ufficiali, il governo e le forze armate congolesi, la responsabilità dell’attacco cruento sarebbe del Movimento 23 marzo (che però, da parte sua, smentisce). Nella generale costernazione del Paese, il presidente della RdCongo, Felix Tshisekedi, aveva indetto tre giorni di lutto nazionale.
Significativo che tale strage sia avvenuta (come una provocazione per sabotare gli accordi se non di pace, almeno di non belligeranza attiva) a soli cinque giorni dall’ultima dichiarazione di cessate il fuoco. Anche se, forse inopportunamente, M23 (inattivo dal 2013 al 2021) era rimasto escluso dalle trattative del vertice dei Grandi Laghi (fine di novembre) che si erano svolte a Luanda.
Invitato invece (ma aveva preferito farsi sostituire dal suo ministro degli Esteri, Biruta) Paul Kagame, il presidente del Rwanda.
Intanto, dando prova di scarso tempismo, l’Unione Europea approvava il 1 dicembre un ulteriore stanziamento (circa 20 milioni di dollari) per l’esercito ruandese. Ufficialmente per rafforzare la lotta al terrorismo in Mozambico (regione di Cabo Delgado), ma alcuni osservatori non escludono che in parte tali finanziamenti vengano dirottati ad alimentare il conflitto nel nord Kiwu.
Recentemente la politica di Kagame nei confronti della RdCongo è stata messa in discussione proprio da uno dei principali sostenitori del governo di di Kigali.
Il segretario di stato statunitense Antony Blinken ha chiesto infatti a Kagame di non sostenere ancora M23 e di promuovere concretamente “pace e stabilità”.
Critiche che non sarebbero state ben accolte dal presidente del Ruanda.
Quanto a M23, sarebbe costituito soprattutto da miliziani ed ex insorti di etnia tutsi (ma spesso di nazionalità congolese) che in parte erano stati integrati nell’esercito congolese. Il tentativo di smantellare le unità formate appunto da tali ex ribelli (o di trasferirli in altre regioni della RdCongo) aveva provocato la loro ribellione.
Attualmente chiedono l’amnistia e la possibilità di rientrare dai campi profughi del Ruanda e dell’Uganda per i rifugiati tutsi di nazionalità congolese.
Senza escludere la possibilità di essere reintegrati nell’esercito congolese in modo da poter esercitare un maggiore controllo su traffici e commerci nel nord Kiwu.
Per esempio quello del cobalto, nella cui estrazione, su un totale di trecentomila minatori, sono coinvolti almeno 35mila bambini ridotti in schiavitù.
Oppure dell’altrettanto famigerato coltan che ugualmente si estrae a mani nude con danni irreparabili per la salute dei giovanissimi minatori. Per non parlare degli abusi sessuali di cui sono vittime.
Da qui il coltan, attraverso una catena commerciale gestita da bande, milizie e mercenari di varia etnia ed estrazione (a cui le compagnie subappaltano il lavoro sporco), arriva in Ruanda e Uganda. Per essere acquistato dalle compagnie che si occuperanno dell’export, eventualmentedella raffinazione. Destinazione finale: le multinazionali in Germania, USA, Cina…
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 9/12/2022 - 14:05
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Brano strumentale nell’album intitolato “Sanacore”
In Ruanda, dal 6 aprile alla metà di luglio del 1994, per circa 100 giorni, vennero massacrate sistematicamente - a colpi di armi da fuoco, machete pangas e bastoni chiodati - almeno 500.000 persone (secondo le stime di Human Rights Watch), in stragrande maggioranza appartenenti all’etnia minoritaria dei Tutsi (ma anche Hutu moderati). I carnefici, organizzati in milizie finanziate, armate ed equipaggiate dal Governo, erano di etnia Hutu. La stima delle vittime salì in seguito fino a raggiungere una cifra pari a circa 800.000 o 1.000.000 di persone.
Un’immagine emblema del genocidio ruandese:
Durante un notiziario del 2000 il quotidiano britannico The Guardian rivelò che l’allora Segretario Generale dell'ONU, l’egiziano Boutros Boutros-Ghali [in carica tra il 1992 ed il 1996 e quindi anche durante il genocidio ruandese], giocò un ruolo importante nella fornitura di armi al regime Hutu. Come ministro degli esteri dell’Egitto, nel 1990 Boutros-Ghali facilitò una vendita di armi per 26 milioni di dollari (18 milioni di sterline) al governo del Ruanda, fornitura costituita da bombe di mortaio, lanciarazzi, granate e munizioni, tutte armi che furono poi utilizzate dagli Hutu per massacrare i loro fratelli Tutsi.
Il governo ruandese, nelle settimane immediatamente precedenti l’inizio del genocidio, concluse anche un accordo con la Cina per la fornitura di oltre 500.000 machete, molto più economici delle armi da fuoco…
L’ONU di Boutros-Ghali rimase indifferente alle molteplici segnalazioni dell’imminente, immane strage che si stava preparando e, anzi, a massacro già iniziato ridusse e quasi azzerò il contingente di caschi blu presente nella regione… Gli USA, dal canto loro, posero il veto all’intervento internazionale perchè ancora scottati dalla sconfitta e precipitosa ritirata da Mogadiscio l’anno precedente… La Francia, i cui istruttori militari avevano addestrato i soldati Hutu, giocò pure lei un ruolo molto sporco nella vicenda, arrivando a proteggere la ritirata Hutu quando alla fine del conflitto prevalse il Fronte Patriottico del Ruanda guidato da Paul Kagame, costituito da rifugiati Tutsi.