Del tot vey remaner valor,
Qu'om no-s n'entremet sai ni lai,
Ni non penson de nulh ben sai,
Ni an lur cor mas en laor.
E meron mal clerc e prezicador,
Quar devedon so qu'az els no-s cove,
Que hom per pretz non do ni fassa be.
E hom que pretz ni do met en soan,
Ges de bon loc no-l mou, al mieu semblan.
Quar Dieus vol pretz e vol lauzor,
E Dieus fo vers hom, qu'ieu o sai,
E hom que vas Dieu res desfai,
E Dieus l'a fait aitan d'onor
Qu'al sieu semblan l'a fag ric e maior
E pres de si mais de neguna re,
Doncx ben es fols totz hom que car no-s te:
E que fassa en aquest segle tan
Que sai e lai n'aya grat, on que-s n'an.
Ar se son fait enqueredor
E jutjon aissi com lur plai.
Pero l'enquerre no-m desplai,
Anz me plai que casson error
E qu'ab bels digz plazentiers ses yror,
Torno-ls erratz desviatz en la fe,
E qui-s penet que truep bona merce,
E enaissi menon dreg lo gazan
Que tort ni dreg no perdan so que y an.
Enquer dizon mais de folor
Qu'aurfres a dompnas non s'eschai.
Pero si dompna piegz no fai,
No-n leva erguelh ni ricor,
Per gent tener no pert Dieu ni s'amor.
Ni ja nulhs hom, s'elh estiers be-s capte,
Per gen tener ab Dieu no-s dezave!
Ni ja per draps negres ni per floc blan
No conquerran ilh Dieu, s'alre no y fan.
Tug laisson per Nostre Senhor
Nostre clerc lo segle savai,
E no pessan mas quan de lai.
Aissi-ls guart Dieus de dezonor
Cum elhs non an ni erguelh ni ricor,
Ni cobeytatz no-ls enguana ni-ls te,
Ni no volon re de so qu'hom bel ve!
Res no volon, pero ab tot s'en van,
Pueys prezon pauc qui ques i aya dan.
Sirventes, vay al pro comte dese
De Toloza! membre-l que fag li an
E guart se d'elhs d'esta ora enan.
Qu'om no-s n'entremet sai ni lai,
Ni non penson de nulh ben sai,
Ni an lur cor mas en laor.
E meron mal clerc e prezicador,
Quar devedon so qu'az els no-s cove,
Que hom per pretz non do ni fassa be.
E hom que pretz ni do met en soan,
Ges de bon loc no-l mou, al mieu semblan.
Quar Dieus vol pretz e vol lauzor,
E Dieus fo vers hom, qu'ieu o sai,
E hom que vas Dieu res desfai,
E Dieus l'a fait aitan d'onor
Qu'al sieu semblan l'a fag ric e maior
E pres de si mais de neguna re,
Doncx ben es fols totz hom que car no-s te:
E que fassa en aquest segle tan
Que sai e lai n'aya grat, on que-s n'an.
Ar se son fait enqueredor
E jutjon aissi com lur plai.
Pero l'enquerre no-m desplai,
Anz me plai que casson error
E qu'ab bels digz plazentiers ses yror,
Torno-ls erratz desviatz en la fe,
E qui-s penet que truep bona merce,
E enaissi menon dreg lo gazan
Que tort ni dreg no perdan so que y an.
Enquer dizon mais de folor
Qu'aurfres a dompnas non s'eschai.
Pero si dompna piegz no fai,
No-n leva erguelh ni ricor,
Per gent tener no pert Dieu ni s'amor.
Ni ja nulhs hom, s'elh estiers be-s capte,
Per gen tener ab Dieu no-s dezave!
Ni ja per draps negres ni per floc blan
No conquerran ilh Dieu, s'alre no y fan.
Tug laisson per Nostre Senhor
Nostre clerc lo segle savai,
E no pessan mas quan de lai.
Aissi-ls guart Dieus de dezonor
Cum elhs non an ni erguelh ni ricor,
Ni cobeytatz no-ls enguana ni-ls te,
Ni no volon re de so qu'hom bel ve!
Res no volon, pero ab tot s'en van,
Pueys prezon pauc qui ques i aya dan.
Sirventes, vay al pro comte dese
De Toloza! membre-l que fag li an
E guart se d'elhs d'esta ora enan.
inviata da Bartleby - 18/4/2012 - 10:45
Lingua: Italiano
Traduzione italiana del prof. Francesco Zambon, ordinario di filologia romanza all’Università di Trento, dal suo “I trovatori e la Crociata contro gli Albigesi” (Carocci editore).
IN TUTTO VEDO IL VALORE DECLINARE
In tutto vedo il valore declinare,
nessuno, in nessun posto, se ne cura:
non si pensa tra noi a nulla di buono,
e non si ha in mente altro che il lavoro.
Chierici e predicatori hanno la colpa
di vietare cio che a loro non conviene:
donare e agire bene per buon animo.
Disprezzare merito e liberalità,
non è affatto, io credo, un buon principio.
Dio vuole da noi valore e lustro;
egli che, io lo so, fu veramente uomo.
E l’uomo che si oppone a Dio,
a Dio che gli ha fatto così grande onore,
creandolo, a sua immagine, degno e grande,
più prossimo a lui di ogni altra creatura,
è pazzo, dunque, se non ne fa buon uso,
e non agisce quaggiù nel mondo in modo
da essere il benvenuto ovunque vada.
Essi dicono - ma è una grande sciocchezza -
che le bordure non s’addicono alle dame,
ma una dama che non fa nulla di peggio,
che non trae né orgoglio né superbia
dal suo ornarsi, non perde né Dio né amante.
Nessuno, infatti, se per il resto e saggio,
si aliena Dio perché cura il vestire:
né vesti nere, né saio bianco,
sono sufficienti per arrivare a Dio!
Sirventese, va’ veloce dal prode Conte
di Tolosa; ricordagli ciò che gli fecero,
e digli che sempre si guardi da loro.
In tutto vedo il valore declinare,
nessuno, in nessun posto, se ne cura:
non si pensa tra noi a nulla di buono,
e non si ha in mente altro che il lavoro.
Chierici e predicatori hanno la colpa
di vietare cio che a loro non conviene:
donare e agire bene per buon animo.
Disprezzare merito e liberalità,
non è affatto, io credo, un buon principio.
Dio vuole da noi valore e lustro;
egli che, io lo so, fu veramente uomo.
E l’uomo che si oppone a Dio,
a Dio che gli ha fatto così grande onore,
creandolo, a sua immagine, degno e grande,
più prossimo a lui di ogni altra creatura,
è pazzo, dunque, se non ne fa buon uso,
e non agisce quaggiù nel mondo in modo
da essere il benvenuto ovunque vada.
Essi dicono - ma è una grande sciocchezza -
che le bordure non s’addicono alle dame,
ma una dama che non fa nulla di peggio,
che non trae né orgoglio né superbia
dal suo ornarsi, non perde né Dio né amante.
Nessuno, infatti, se per il resto e saggio,
si aliena Dio perché cura il vestire:
né vesti nere, né saio bianco,
sono sufficienti per arrivare a Dio!
Sirventese, va’ veloce dal prode Conte
di Tolosa; ricordagli ciò che gli fecero,
e digli che sempre si guardi da loro.
inviata da Bartleby - 18/4/2012 - 10:50
La traduzione italiana l’ho trovata qui come attribuita a Zambon, ma è sicuramente parziale perché il testo originale (trovato invece qui) ha due strofe in più.
Bartleby - 18/4/2012 - 10:56
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Nell’opera di Jordi Savall “Le royaume oublié – La croisade contre les Albigeois - La tragédie Cathare” con gli ensemble di musica antica Hespèrion XXI e Capella Reial de Catalunya.
Raymond VII comte de Toulouse
“Ricordati, prode conte di Tolosa, quel che ti fecero [il papa ed il re di Francia] e guardati sempre da costoro”, canta nell’ultima strofa Guilhem Montanhagol.
E infatti a Raimondo VII la capitolazione bruciava a tal punto che, dopo essersi fatto parzialmente reintegrare nei possedimenti perduti dall’imperatore Federico II, pensò di riprendersi tutto il maltolto approfittando di una scaramuccia tra Francia ed Inghilterra quando, nel 1242, Enrico III sbarcò a Royan intenzionato a mostrare a Luigi IX di non essere più un suo vassallo in terra di Francia e di aspirare a qualcosa di più dell’Aquitania e della Guascogna di cui era duca. Le cose non andarono bene per gli inglesi ed i loro frettolosi alleati locali, tra cui Raimondo VII… Al conte di Tolosa non restò che implorare perdono al re di Francia, che glielo accordò ma ad una condizione: che gli promettesse di aiutarlo ad estirpare definitivamente l’eresia catara.
Povero Montanhagol! Povero Cardenal! Povero Novella! Povero Figueira! Poveri trovatori occitani che tanto avevano celebrato i conti di Tolosa come fieri oppositori dei crociati e protettori dei veri credenti!
Proprio poco dopo la fine di Montsegur, ultimo baluardo cataro in Linguadoca, quasi in punto di morte, Raimondo VII fece quello che, a differenza del padre, lo consegnò alla storia non più come un nobile che aveva resistito all’usurpazione e al sopruso ma come un potente fra i tanti che si erano accaniti sugli indifesi: nel 1249 ad Agen, in Aquitania, il conte di Tolosa, trasformatosi in uno zelante persecutore dell’eresia, mandò al rogo 80 catari che pure avevano abiurato la loro fede…
In questo “sirventès” Guilhem Montanhagol non si scaglia, come i suoi predecessori, contro la chiesa tout court ma contro il nuovo metodo di asservimento ed annientamento di nemici ed oppositori interni che il papato aveva messo a punto dopo l’estenuante crociata albigese: l’Inquisizione, un nome che ancora oggi evoca tortura e morte e che troviamo per la prima volta nei documenti – guarda il caso – del Concilio di Tolosa del 1229, anno in cui si decise che 20 e oltre anni di crociata contro gli eretici potevano bastare e che era ora di varare un sistema fondato sulla “prevenzione” degli “errori dottrinari” ed eventualmente su di una più capillare ed efficace (ed assai meno costosa di una crociata) loro “estirpazione”.
E così domenicani e francescani cominciarono ad infestare il mondo, come canta Montanhagol, vietando ciò che a loro non conveniva, mai benvenuti ovunque si recassero, infidi e pruriginosi, più attenti alla pagliuzza nell’occhio dell’altro che al trave nel proprio, sempre attenti a condannare una dama per il suo vestire ma senza rendersi conto che non è portando una tonaca o un saio che si è più vicini a Dio…
Non è un caso che dopo la sistematizzazione dell’Inquisizione operata da papa Gregorio IX nel 1233 con le prescrizioni contenute nell’ “Inquisitio heretice pravitatis” (la persecuzione della depravazione ereticale), proprio in Linguadoca, e precisamente ad Avignonet-en-Lauragais, tra Tolosa e Carcassonne, esplodesse qualche anno più tardi la rabbia verso l’invadenza e la brutalità degli inquisitori: nel 1242 due di essi, Arnaud Guilhem de Montpellier ed Étienne de Narbonne, furono massacrati con tutto il loro seguito. Come già avvenuto nel 1208, quando l’assassinio del delegato pontificio Pierre de Castelnau aveva decretato l’avvio della crociata contro gli albigesi, anche questo episodio ebbe conseguenze nefaste, ossia il truculento atto finale dello sterminio dei catari in Linguadoca, l’assedio di Montsegur e l’immane rogo in cui vennero uccisi oltre 200 “perfetti” che si erano rifiutati di abiurare.