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Senis Long 1969

Alex Hanueby


Lista delle versioni e commenti


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God, Yu Tekem Laef Blong Mi
(Choir of All Saints)
Communist aulabi (Communist Is Coming)
(anonimo)


[197?]

Kopassus
Kopassus


Una canzone in in Tok Pisin, il creolo anglo-melanesiano parlato in Papua Nuova Guinea.
Vi si parla di come nel 1969 il regime di Giakarta riuscì a formalizzare agli occhi della comunità internazionale l’occupazione militare di West Papua (che gli indonesiani chiamano West Irian) facendo celebrare un referendum, supervisionato dall’ONU, (il cosiddetto “Penentuan Pendapat Rakyat (PEPERA)”, o “Act of Free Choice”) che decretò l’incorporazione della provincia all’Indonesia. In realtà furono solo un migliaio di rappresentanti dei distretti dell’area ad esprimersi favorevolmente all’annessione e molti di loro subirono violenze, intimidazioni e minacce di morte da parte del Kopassus, le feroci forze speciali dell’esercito di Giakarta. E anche in seguito i militari non smisero la repressione dei nativi, molti dei quali fuggirono ad est diventando rifugiati sotto la protezione del Commonwealth britannico, ed anzi ingaggiarono contro l’Organisasi Papua Merdeka (OPM), il movimento indipendentista di Papua, una guerra sporca durata per quasi 40 anni e ancora oggi non spenta, nonostante l’autonomia speciale accordata alla provincia nel 2000.
Sul tema si veda anche Yaso Yayun.
Taim bifo long hap bilong san igo damt
Yu wanpela naispela pies oltaim kolwin i blow
Planti kumul ol i mekim song
Kain-kainflawer bilasim bush blongyu
Olgeta people i amamas, ram long laik bilong ol
Bnai, sak-sak na abus pidap i stap
Gold na süver ol i gat
Laif bilong people em ino hard tumas
Tasol long 1969, ol samting i senis nou
Birua ol i kam na stilim graten bilong people bilong yu
Bagarapim right bilong ol... ol i stap rabis naai
Long country bilong ol

inviata da Bartleby - 31/3/2011 - 15:46



Lingua: Inglese

CHANGES IN 1969

In the past, in the land where the sun goes down
You were a pleasant place where the cool breeze always blew
Many birds of paradise made their song
All kinds of flowers decorated your forest
All the people were happy, moved around freely
Betel nuts, sago and game were plentiful
They had gold and silver
People’s lives were not too hard
But in 1969 things changed
Enemies came and stole your people’s land
Destroyed their rights … now they are poor
In your country.

inviata da Bartleby - 31/3/2011 - 15:47


WEST PAPUA COME TIMOR EST?
Gianni Sartori

Il 16 marzo due manifestanti (o almeno quelli accertati, ma si sospetta siano di più) venivano uccisi dalla polizia nel distretto di Yahukimo (nella parte occidentale dell’isola di Nuova Guinea, quella occupata dall’Indonesia). Si contavano inoltre decine di feriti.
La popolazione stava protestando contro la recente riforma amministrativa che entrerà in vigore senza che le comunità indigene vengano nemmeno consultate. Si tratta della costituzione di nuove province nella regione ed esiste il fondato sospetto che in realtà lo scopo principale sia di inasprire ulteriormente il controllo esercitato dal governo centrale. Oltre che in Papua le proteste hanno raggiunto anche Giakarta, la capitale indonesiana.

Ormai da decenni in questa parte della Papuasia è attiva una vera e propria “insurrezione permanente” a carattere indipendentista. Una ribellione avviata ancora negli anni sessanta quando Giakarta prese arbitrariamente il controllo della regione, ex colonia olandese. Si calcola che solo nel 2019 siano decedute almeno una ventina di persone nel corso di manifestazioni represse dalla polizia indonesiana. All'epoca le proteste erano scoppiate soprattutto per l’aperto razzismo nei confronti degli studenti papuani nella città di Surabaya.

Nei recenti rapporti dei relatori onusiani Francisco Cali Tzay (Diritti delle popolazioni indigene), Morris Tidball-Binz (Esecuzioni extragiudiziali, sommarie o arbitrarie) e Cecilia Jimenez-Damary (Diritti umani degli sfollati interni) si denunciava il “deterioramento della situazione dei diritti umani nelle province indonesiane di Papua e West Papua”.

Con “abusi scioccanti contro gli indigeni papuani, tra cui uccisioni di bambini, sparizioni, torture e sfollamenti di massa di persone”.

In particolare riferivano di aver ricevuto tra aprile e maggio 2021 denunce su “diversi casi di uccisioni extragiudiziali, inclusi bambini piccoli, sparizioni forzate, torture e trattamenti disumani e lo sfollamento forzato di almeno 5.000 indigeni papuani da parte delle forze di sicurezza”. Nella quasi totale indifferenza, va detto, dell’opinione pubblica internazionale.

Dal dicembre 2018 il clima di violenza (e conseguentemente anche il numero complessivo degli sfollati interni: si calcola tra le 60.000 e le 100.000 persone) è andato amplificandosi.
A tuttora gran parte degli sfollati nella Papua occidentale non sono rientrati nelle proprie case a causa della costante presenza delle forze di sicurezza e dei ricorrenti scontri armati. Migliaia di abitanti dei villaggi si sono rifugiati nelle foreste. Comunque esposti al clima rigido degli altopiani e con grandi difficoltà nel reperimento di cibo (con conseguente malnutrizione generalizzata). Per non parlare della quasi inesistente assistenza sanitaria e dell’impossibilità di attività educative per i bambini.
Gli aiuti umanitari, già scarsi, vengono ulteriormente ostacolati dalle autorità indonesiane. Compresi quelli della Croce Rossa e delle associazioni  di ispirazione religiosa.
La situazione è ulteriormente precipitata con  l’uccisione di un militare di alto rango (il generale di brigata Gusti Putu Danny Karma Nugraba, responsabile dell’intelligence indonesiana nella regione occupata), da parte del West Papua National Liberation Army (Tentara Pembebasan Nasional Papua Barat – TPN-PB) il 25 aprile 2021. Qualche giorno prima il movimento indipendentista aveva giustiziato tre presunti collaborazionisti (definiti “spie indonesiane”).

Da quel momento il presidente indonesiano Joko Jokowi Widoto ha esplicitamente ordinato di “inseguire e arrestare (eufemismo: in realtà la maggior parte viene giustiziata sul posto nda) tutti i militanti armati”. Contemporaneamente il presidente dell’Assemblea consultiva del popolo indonesiano, Bambang Soesatyo (nomina sunt omina!) invitava a “schiacciare i ribelli”.
Per poi aggiungere “prima distruggili. Parleremo in seguito della questione dei diritti umani”.

Come da manuale, i militari hanno preso alla lettera la direttiva arrestando, uccidendo e torturando decine di persone che in genere non avevano nulla a che vedere con la resistenza armata del TPN-PB, ritenuto il braccio armato del Free Papua Movement (Organisasi Papua Merdeka – OPM). Tra i casi documentati più gravi, l’uccisione il 26 ottobre 2021 di due bambini, di 2 e 6 anni, durante l’attacco a un villaggio sospettato di ospitare i guerriglieri. Attualmente nella Papua occidentale agiscono varie forze d’élite indonesiane, tra cui il noto e famigerato Kopassus, già resosi responsabile di ripetuti massacri nella valle del Baliem (1977-78) e nell’isola di Biak (1998). Inoltre l’Indonesia ha schierato nella regione altri 400 soldati d’élite conosciuti come pasukan setan (Forze di satana, nientemeno). Già operativi contro la popolazione a Timor Est (ma, nonostante i massacri, senza poterne impedire l’indipendenza) e contro quella di Aceh (in questo caso riuscendo a imporre la resa al movimento di liberazione).

Eventi ampiamente documentati e denunciati, per quanto tardivamente, l’anno scorso su The Conversation da Jim Elmslie e Camellia Webb-Gannon (Università australiana di Wollongong) e dall’attivista per i diritti indigeni Ronny Kareni.

Ancora nel 1971, i papuani costituivano oltre il 96% della popolazione nelle due province di Papua e West Papua (parte occidentale dell’Isola, mentre quella orientale costituisce la Papua Nuova Guinea indipendente). Attualmente invece, soprattutto nei centri urbani e nelle regioni costiere, le popolazioni indigene (emarginate, espropriate delle loro terre ancestrali) sono ridotte a meno della metà della popolazione a causa dell’ampia migrazione di coloni indonesiani.
Fenomeno che è stato definito un “genocidio al rallentatore”. Le terre espropriate militarmente vengono poi disboscate per realizzare miniere o piantagioni monoculturali di palma da olio. Tra le ulteriori devastazioni previste (al solito spacciate per “sviluppo e progresso” come antidoto all’indipendentismo), la costruzione di un’autostrada dalla regione degli altopiani alla costa. Un ulteriore colpo infero alla relativa autonomia delle popolazioni, oltre che all’ambiente naturale e alla preziosa biodiversità. Con ulteriore militarizzazione del territorio, disboscamento, sfruttamento e colonizzazione.
La guerriglia negli ultimi due tre anni ha colpito duramente uccidendo anche una ventina di lavoratori indonesiani addetti alla costruzione dell’autostrada. Arrivando a minacciare di colpire non solo i militari, ma anche i coloni (come invece finora era stato intenzionalmente evitato) in quanto tali qualora proseguissero le operazioni contro i civili papuani.
In una esecrabile escalation del conflitto.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 19/3/2022 - 11:42


Con quei pantaloncini corti, il cappello ben calcato in testa, tenuto per mano - quasi amichevolmente - da due guerriglieri, Phillip Mark Mehrtens ha l’aria di un ragazzino intimidito che si sta chiedendo “Ma cosa ci faccio qui?”.Finito, si presume inconsapevolmente, in una di quelle guerriglie a bassa intensità che travagliano, in genere senza far più notizia, aree del pianeta solitamente fuori dai riflettori.

WEST PAPUA: UNA NUOVA TIMOR EST PER JAKARTA?

Gianni Sartori

Ovviamente auspichiamo la sua rapida  liberazione, ma per il momento il pilota neozelandese della compagnia aerea Susi Air rimane ostaggio del West Papua National Liberation Army (TPNPB, considerato il braccio armato del movimento indipendentista Free Papua Movement, Fpm). Era stato catturato l’8 febbraio con il suo aereo atterrato a Paro, nel distretto di Nduga, per prelevare una quindicina di addetti alla costruzione di un centro sanitario. O almeno ufficialmente, ma per gli indipendentisti si tratterebbe di una “intrusione coloniale sotto copertura umanitaria” per controllare il territorio. Altri componenti dell’equipaggio (o passeggeri, non è chiaro) erano stati  immediatamente liberati in quanto “nativi”, mentre il velivolo veniva dato alle fiamme.

Il gruppo di indigeni papuasi responsabili dell’azione sarebbero guidati da un giovane militante, Egianus Kogoya (stando alle dichiarazioni del portavoce del TPNPB Sebby Sambom).Da parte delle forze dell’ordine di Jayapura (capoluogo della provincia ribelle), in una conferenza stampa, è stata espressa la volontà di giungere alla liberazione di Phillip Mark Mehrtens “coinvolgendo nelle trattative i leader comunitari, in particolare i capi tribali e alcuni religiosi”. Senza per questo “escludere altre opzioni” (ossia, si presume, un atto di forza.

Mentre la parte orientale della Nuova Guinea è occupata dalla Papua Nuova Guinea (indipendente), il centro e la parte occidentale (rispettivamente provincia di Papua e della Papua occidentale) appartengono all’Indonesia.
Grazie a un discusso (sia per legittimità che per correttezza) referendum risalente agli anni sessanta.

Va ricordato che anche le proteste pacifiche dei nativi vengono regolarmente represse da Jakarta. Non per niente, quando nel novembre dell’anno scorso Amnesty International rivolgeva un appello ai capi di Stato (G20) riuniti a Bali per il rispetto dei diritti umani in Indonesia, aveva esplicitamente fatto riferimento alla Papua.
Quasi contemporaneamente (sempre novembre 2022) a Jayapura (Papua) venivano arrestati una ventina di manifestanti che chiedevano un intervento del Consiglio dei diritti umani dell’Onu. E alcuni studenti solo per aver sventolato la bandiera indipendentista del Fmp.

Con le loro proteste gli indigeni intendevano metter in discussione le rassicuranti dichiarazioni del ministro indonesiano della Giustizia, Yasonna Laoly. Dichiarazioni definite da A.I.  "contrarie alla situazione reale, segnalata anche dalla società civile indonesiana attraverso un rapporto alternativo”. Aggiungendo che “il governo ha riferito solo la situazione dal punto di vista dello sviluppo delle infrastrutture e del welfare, anche se la violenza continua”.
Sempre nel 2022 (in marzo) anche l’Onu aveva condannato gli abusi commessi dal governo contro la popolazione indigena (comprese esecuzioni extragiudiziali, casi di desaparecidos, anche di ragazzi minorenni).
L’ultima operazione eclatante, sia da parte indipendentista che governativa, risaliva al 17 novembre 2017 quando le forze speciali indonesiano liberarono oltre 300 ostaggi in mano agli indipendentisti del Free Papua Movement (Opm) nel villaggio di Tembagapura. Due le vittime, appartenenti al gruppo guerrigliero.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 16/2/2023 - 11:35


OCEANIA: PICCOLE INDIPENDENZE CRESCONO?
O FORSE SIAMO ALLE SOLITE: INDIPENDENTISMO A GEOMETRIA VARIABILE…
OLTRE AL CASO DI TIMOR EST, VIEN DA PENSARE A “QUEIMADA”…

Gianni Sartori


Questa risale al mese scorso, ma “me l’ero persa”. Cerco quindi di rimediare.

L’annuncio veniva dalle isole Fiji il cui primo ministro Sitiveni Rabuka in febbraio aveva incontrato l’indipendentista Benny Wenda. Confermando poi di voler sostenere
l’ingresso nel Melanesian Spearhead Group (MSG, organizzazione intergovernativa a favore della crescita economica tra i Paesi dell’area) della Papua occidentale (provincia dell’Indonesia che del MSG è membro associato).
Anche se West Papua non è - almeno per ora - un Stato indipendente (risale al 1969 l’annessione all’Indonesia con un referendum-farsa ironicamente chiamato Act of Free Choice*), avrà comunque “in quanto melanesiani” il ruolo di osservatore all’interno dell’organizzazione (come avviene per Timor Est), ma non di membro associato.
Un processo che gode anche del sostegno della Conferenza delle Chiese del Pacifico (PCC) che appoggia l’ULMWP nella “sua richiesta di autodeterminazione del popolo della Papua occidentale e nel suo desiderio di porre fine agli abusi dei diritti umani perpetrati dalle forze di sicurezza indonesiane".
Inoltre la PCC ritiene che l'United Liberation Movement for West Papua (ULMWP, Movimento di liberazione unito per la Papua occidentale, fondato a Vanuatu nel 2014 dalla riunificazione di tre dei principali movimenti indipendentisti) dovrebbe essere consultato dalle Nazioni Unite e dall'Unione europea sulle questioni relative alla Papua occidentale in quanto “rappresentante riconosciuto del popolo papuasi”. Spingendosi a chiedere il boicottaggio dei prodotti indonesiani venduti nel Pacifico.
In futuro potrebbe aprirsi uno scenario simile a quello già sperimentato con il Fronte di liberazione nazionale socialista Kanak (movimento indipendentista della Nuova Caledonia).
Grande soddisfazione da parte di Benny Wenda in quanto “finalmente qualcuno si è schierato dalla parte della Papua occidentale e ha sventolato insieme al presidente del Movimento di liberazione unito la Morning star (la bandiera adottata dagli indipendentisti nda)”.
Paradossalmente proprio il primo ministro della Papua Nuova Guinea (la parte orientale dell’isola che nel 1975 aveva ottenuto lo statuto indipendente di Reame del Commonwealth sottraendosi, almeno formalmente, all'amministrazione diretta dell'Australia e del Regno Unito) aveva manifestato minor entusiasmo. Dichiarando in conferenza stampa che comunque “la sovranità dell'Indonesia sulla Papua andava rispettata” (pur esprimendo “simpatia” per i fratelli della Papua occidentale).

Fanno parte del Melanesian Spearhead Group i Paesi che si reputano parte della Melanesia: le Fiji, la Papua Nuova Guinea, il Fronte di liberazione nazionale socialista Kanak della Nuova Caledonia, Vanuatu, le isole Salomone. Nel 2003 West Papua si era staccata dall’altra provincia indonesiana di Papua e gode di una certa autonomia formale.

In questi anni, anche recentemente, non sono mancata azioni clamorose, anche violente, da parte di movimenti che di richiamano all’autodeterminazione. Anche qui avevamo parlato del pilota neozelandese della compagnia aerea Susi Air catturato in febbraio dal West Papua National Liberation Army (braccio armato del movimento indipendentista Free Papua Movement).
Ben più grave quanto era accaduto nel dicembre 2018 quando
un gruppo indipendentista (presumibilmente l'Esercito di liberazione nazionale di Papua occidentale, TPNPB) avrebbe ucciso (condizionale d’obbligo) stando alle dichiarazioni ufficiali dell’esercito di Jakarta, una quindicina di persone nel distretto di Nduga (a est di Timika). Ma le vittime sarebbero state addirittura oltre una trentina secondo altre fonti. In una rivendicazione del TPNPB si confermava l’attacco, ma sostenendo che era rivolto soltanto contro i soldati (mentre le autorità indonesiane e alcuni media parlavano anche di vittime civili). Sicuramente un fatto inaudito, gravissimo, su cui però aleggiava l’ombra di una possibile “strategia della tensione”.


All’epoca, dal suo esilio londinese, era intervenuto proprio Benny Wenda (leader dell’ULMWP) sostenendo di “diffidare delle ricostruzione delle autorità indonesiane dato che già in passato avevano “creato violenze per giustificare un aumento della presenza militare nella provincia”.

Forse suo malgrado, nel dicembre 2020 Benny Wenda si era reso responsabile di una ulteriore spaccatura all’interno del composito fronte per l’autodeterminazione. Proclamandosi arbitrariamente“presidente ad interim” di West Papua e sostenendo di non voler più rispettare la Costituzione e le leggi indonesiane.

Immediata - e piccata - la reazione di altri leader indipendentisti, in particolare degli esponenti del Tentara Pembebasan Nasional Papua Barat - Organisasi Papua Merdeka (Tpnpb-Opm che riuniva anche gruppi indipendentisti armati) che lo avevano accusato di essere “una pedina dei capitalisti europei, statunitensi e australiani”, di “tradire i principi rivoluzionari della nazione papuana” e di “distruggere l’unità del popolo papuano nel pieno della lotta contro il governo di Jakarta”.
Uno scenario che rifletteva quanto era accaduto in passato con Timor Est (nella realtà) o in “Queimada” (nella finzione, ma da manuale, cinematografica).

Purtroppo il popolo papuano (non solo della parte sottoposta all’Indonesia) paga il prezzo delle sostanziose ricchezze minerarie dell’isola. Per non parlare di quella che probabilmente è la terza più estesa foresta primaria al mondo. Quanto basta - e avanza - per alimentare contenziosi, scontri e conflitti (con l’inevitabile corollario di repressione e violazioni dei diritti umani e dei popoli) tra gli indigeni, i governi e le multinazionali affamate di risorse.

Gianni Sartori



nota1: la consultazione svoltasi fra il 14 luglio e il 2 agosto 1969 coinvolse appena un migliaio di abitanti dell'ex territorio olandese. Vennero preventivamente selezionati dall'esercito indonesiano qui stanziato a presidio. Da tempo i dissidenti papuani della Free West Papua Campaign, richiedono un nuovo referendum sotto la supervisione dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite. Anche con la consegna, il 25 gennaio 2019, di una petizione firmata da un milione e 800mila abitanti di West Papua e denunciando crimini contro l'umanità commessi dall’Indonesia. Tra cui l’uccisione da parte delle truppe di occupazione di oltre 500mila papuani.

Gianni Sartori - 19/3/2023 - 23:55




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