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Il sogno di Piero

Riccardo Venturi
Lingua: Italiano


Riccardo Venturi

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Fabrizio de André, Il sogno di Maria (originale)


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[2001]
"Contaminazione" di R.V.
A partire da La guerra di Piero
e da Il sogno di Maria
di Fabrizio De André
Da cantarsi sull'aria de "Il sogno di Maria"

dali

Per alcuni anni, il newsgroup e la mailing list dedicati a Fabrizio de André sono stati dei luoghi irripetibili: Beautiful things are for few moments*. Meglio così, forse. Il 20 marzo 2001, due anni esatti prima che anche da quei due luoghi avesse origine questo sito, alle ore 21.33, nella mia fumosissima stanza di Livorno dove abitavo allora, mi scattò una specie di molla. Era una cosa frequente, allora, e non soltanto per me. Presi due canzoni di Fabrizio De André, "La guerra di Piero" e "Il sogno di Maria" (da "La buona Novella") e ne mescolai i versi. Ne venne fuori la cosa che vedete qua sotto. Attribuirmene la paternità è dunque cosa assai ardita: nessuna delle parole che compongono questo testo è stata scritta da me. Al tempo stesso, però, ne sono il mestatore, il frullatore, il contaminatore. Non so esattamente perché proprio stasera, più di nove anni dopo, mi sia tornata a mente questa cosa; ma una ragione ci dovrà pur essere. E mi fermo qui perché altro proprio non saprei dire, e altro probabilmente non c'è da dire. Nei video metto il "Sogno di Maria" originale cantato da De André, se qualcuno volesse immaginarsi di cantarvi sopra questo guazzabuglio. [RV]

*Per GPT: Questa frase, in inglese, me la disse nell'estate del 1990 a Porto Heli un ragazzo greco con il quale avevo fatto grande amicizia. Ripartito, ci sentimmo un paio di volte per telefono e poi mi spedì per posta un Συντακτικό της Νέας Ελληνικής, una sintassi greca per le scuole medie. Poi non ci siamo mai più sentiti. Non mi ricordo nemmeno come si chiamava.
Nel grembo umido del campo di grano
L'ombra era fredda come un tulipano.
Ninetta scese, come ogni sera
Ad insegnarmi una nuova preghiera:
Poi d'improvviso, dall'ombra dei fossi
Braccia come dei papaveri rossi,
Quando mi chiese: Conosci l'estate?
Io, fra i cadaveri di quei soldati
Corsi a vedere i lucci argentati.

Volammo alle sponde del mio torrente,
Portati in braccio dalla corrente,
Poi scivolammo, ed era d'inverno
E come gli altri verso l'inferno.
Scendemmo là, proprio come chi deve
A cercarci da soli, in faccia la neve
E lui parlò, disse: Fermati Piero!
Ed alla fine di ogni sua voce,
Chi diede la vita ebbe in cambio una croce.

Le ombre lunghe, ed il tempo passava
Coi sacerdoti a passo di giava;
Con le ali di prima, d'identico umore,
Con il braccio nudo e d'un altro colore.
Poi vidi un uomo là in fondo alla valle,
Il volto severo, con l'anima in spalle,
Nel gesto immobile, sparagli ora,
E dopo un colpo, sparagli in cuore,
Ninetta, gli occhi di un uomo che muore.

Voci di strada e senza un lamento,
Mi rubarono al sogno in un solo momento,
Sbiadì l'immagine, crepare di maggio,
E l'eco lontana di troppo coraggio.
Ripeteva d'andare diritto all'inferno
Dove forse era un sogno, un sogno d'inverno;
Svegliati Piero, su, stringi il fucile!
E confuse in bocca stringevi parole,
Gelate nel sogno per sciogliersi al sole.

inviata da The Lone Yoghi - 13/5/2010 - 00:22


Qualche mese dopo, esattamente il 9 ottobre 2001, ripetièdi il giochino allargandolo addirittura: sull'aria di Via della Povertà mescolai praticamente l'opera omnia di De André. La cosa non ebbe poi (fortunatamente) più alcun seguito.

Il giardino di bellezza in fondo al vicolo
È affollatissimo di marinai
Gli occhi grandi, color di foglia
Un giorno qualunque li ritroverai;
Le cartoline per l'impiccagione
Sono in vendita a cento lire l'una
Sui viali, dietro alla stazione
Cadra' altra neve a coprir la dolce luna;
E le forze dell'ordine, irrequiete,
Fan tutte quante marcondiro 'ndà,
C'è Renato Curcio il carbonaro
In via della Povertà.

Le Passanti sembran così facili,
È una storia da dimenticare;
E hanno detto pure che Franziska
Il suo bandito è stanca di pregare;
E se vai all' Hotel Supramonte
Guardi il cielo, piccole tette da succhiare,
Orsù, cantami di questo tempo
Il settimo dice "non ammazzare";
Se ci tagliassero a pezzetti
Il falegname ci assottiglierà
Con la pialla, ma di morte lenta
In via della Povertà.

E il Re fa rullare i tamburi
Arbitro in terra del bene e del male,
Giudice, finalmente
Lo chiede al potere se può giudicare;
Vuoi davvero lasciare ai tuoi occhi
Il Guttuso ancora da autenticare,
L'Angelo scese come ogni sera
Occhi turchini e giacca uguale;
E il Dio di misericordia
Sta affilando la sua pietà;
Venne alla spiaggia un assassino
In via della Poverta'.

I tre Re Magi sono disperati,
Carlo Martello è diventato vecchio,
E dove mandi i tuoi pensieri adesso
Cose da béive, cose da mangiä;
Quello ti guarda, ti vede e ha paura
È un diciottenne alcolizzato
Non puzzava più di serpente,
Ma stanotte a un chiodo s'è impiccato.
E poi trovai Pilar del mare
Senza rimpiangere la mia credulità;
È una donna piuttosto distratta
In via della Povertà.

Don Raffae' travestito da ubriacone
S'è nascosto in un bàule da mainä,
E dal suo posto in riva al fiume
Suzanne ci parlò all'Università;
Madre, ha imparato l'amore
Poi t'ha venduta per tremila lire
Ad un nano che al lume del rancore
Ha paura d'arrugginire:
"O Signore, se non foste il Sire....",
L'amore vero rimanderà
E cominciò a sognare insieme a loro
In via della Povertà.

E bravo il Gorilla mattacchione,
La London Valour sta affondando nell'aurora,
E Michè balla con tutti gli impiccati
E il capitano grida: "Ce ne stanno ancora! "
E un Ottico, Tito e Thomas Eliot
Fanno a pugni alla Baggina
E il suonatore Jones ride di loro
Mentre sta volando assieme a Nina.
Son affacciate nude a-a seu riva
Sventolando fazzoletti e lillà,
Dolcenera e la moglie di Anselmo
In via della Povertà.

A mezzanotte in punto i poliziotti
Stan controllando il sogno di Maria,
E c'è Gesù con le mani occupate
Una valigia di ciondoli e un foglio di via;
I prigionieri vengon trascinati
A un Bolzaneto improvvisato in collina
E il caporale Piero li ha avvisati:
"Nella retata abbiam preso anche Jamin-a".
E il vento ride forte,
Trasformandosi in oro se ne andrà
Con una smisurata preghiera
In via della Povertà.

La tua lettera l'ho avuta proprio ieri;
Dio del cielo, se mi cercherai,
Vallo a chiedere al cane Libero
O a Susan dei Marinai;
È bruciata a New York con l'Inquisizione
Con Giovanna una mattina di settembre,
Con quegli occhi come fiori regalati
In maggio e restituiti in novembre.
E non mandarmi ancora tue notizie,
Ho la mia ora di libertà;
Siamo tutti, siamo tutti coinvolti
In via della Povertà.

The Asocial Bubu - 13/5/2010 - 01:15


Ciao Riccardo, mi "becchi" in un momento di insonnia e di amnesie. Quella frase del tuo amico di Porto Anguilla, Argolide, me la sentivo dire in greco tutti gli anni e da tutti al momento dei commiati, ma per quanto adesso mi arrovelli non riesco a ricostruirla con le parole esatte. Mi ricordo invece che le tue operazioni coi versi di de André si chiamano "centoni", ed erano pezzi di bravura e di erudizione con fini per lo più canzonatori: ma tu mostri che possono trasformarsi in un percorso attraverso i "luoghi" d'elezione di un poeta e magari rivelarcelo meglio. Non ricordo invece più il nome di quella cantante - milanese mi pare- che interpretava una canzone su Cesare Pavese composta, a centone, con i versi di Pavese stesso:"un paese vuol dire non essere soli..." Tu la ricordi ? Mi piacerebbe recuperarla.

Gian Piero Testa - 13/5/2010 - 03:38


Un paese vuol dire non essere soli





Parole e musica di Mario Pogliotti
scritta nell’agosto 1960 nel decimo anniversario della morte di Cesare Pavese


Un paese vuol dire non essere soli,
avere gli amici, del vino, un caffè.
Io sono della città;
riconosco le strade
dalle buche rimaste,
dalle case sparite,
dalle cose sepolte
che appartengono a me.

Al di là delle gialle colline c’è il mare,
un mare di stoppie, non cessano mai:
il mare non voglio più,
ne ho visto abbastanza;
preferisco una tampa
e bere in silenzio,
quel grande silenzio
che è la vostra virtù

E in silenzio girare per quelle colline,
le rocce scoperte, la sterilita
lavoro non serve più,
non serve schiantarsi
e le mani tenerle
dietro la schiena
non fare più nulla
pensando al futuro.

La sola freschezza è rimasta il respiro
la grande fatica è salire quassù.
Ci venni una volta quassù
e quassù son rimasto
a rifarmi le forze,
a cercarmi i compagni,
a trovarmi una terra,
a trovarmi un paese.

Un paese vuol dire non essere soli.

adriana - 13/5/2010 - 08:34


Grazie a tutti. Il mio 1960: la Maturità, Genova e Reggio Emilia, l'Algeria, il cane Zul, una 1100/103, Milano, l'Oca d'Oro, le canzoni di Ludovici e Straniero. Con il mondo da rifare, e sempre uno strano struggimento in cuore. Presentimento di come poi sarebbe andata ? A Lettere, una tesi su tre c'entrava con Pavese...E' possibile che nell'orecchio mi sia rimasta, per questa canzone, una voce femminile, ma non della Cinquetti: Edmonda Aldini ? Milly ? Margot Galante Garrone ? E dove sono finiti i miei 45 giri ?

Gian Piero Testa - 13/5/2010 - 11:26


Un ringraziamento un po' in ritardo a Gian Piero per quel che mi ha scritto, ed anche per avermi ricordato che la cosa che ho fatto qui ha un nome ben preciso. È vero, è un "centone" in piena regola, anche se, ripensando al periodo in cui mi è venuta in testa, la chiamerei più opportunamente un "briacone". Era un periodo particolare, strano, ricchissimo di cose "dentro" e di autodistruzione quotidiana. Periodo per fortuna terminato, e da tempo; ma, ogni tanto, mi capita di riandarci col pensiero e, pur nella razionalità dello scampatissimo pericolo, affiora un'assai bizzarra punta di nostalgia. Stranezze dell'essere umano.

Riccardo Venturi - 15/5/2010 - 19:20


Caro Gian Piero Testa, sono capitato da queste parti con anni di ritardo e quindi forse, anzi sicuramente, il mio intervento è inutile, comunque la voce femminile che ti ronzava in testa dev'essere proprio quella di Milly, io ho quel 45 giri (solo nel formato perchè in realtà funziona a 33 giri) dei Dischi del Sole, uscito nel febbraio 1965. E' riportato nell'interno della copertina che la canzone di Mario Pogliotti è del 1963 e consiste in un collage di frasi originali dello scrittore piemontese unite a versi inventati dallo stesso Pogliatti. I capoversi sono tolti da pagine de La Luna e i Falò e La Bella Estate. Vorrei aggiungere che è davvero canzone indimenticabile che rende perfettamente onore a quell'immenso, struggente autore che fu Cesare Pavese.

Flavio Poltronieri

P.S. Riccardo è sempre geniale!

Flavio Poltronieri - 6/7/2014 - 11:56


Grazie, Flavio. Non sei assolutamente in ritardo, Era Milly, vero? E il collage (o, più pomposamente, il centone) era quello che iniziava così: "un paese vuol dire non essere soli" ? Amarcord...

Gian Piero Testa - 6/7/2014 - 22:17


Canzone meravigliosa!!!

Roberto Deiana - 21/3/2017 - 21:59




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