Album: Credere ai ricordi
Sopra la gotica uomini in nero
Regalano sudditi o morte..
Chiedono aiuto con i fucili
Non lasciano libertà
Neve saldato perfido amico
Bacia la nebbia compagna
Là sopra i monti in mezzo ai boschi
Nasce un’ armata essenziale
Partigiani..
Partigiani..
Dan luce alla notte premendo un grilletto
Dai carruggi fino alle langhe
Risalgono i colli, corron tra i vicoli
Ed un grido diventa canzone
Partigiani..
Partigiani..
Lo sento nel vento che stanno arrivando
Aspetta il mio comando
“...tenente Rosso, sei solo un sergente
ma comandi splendidamente”
Berretti ed elmetti si danno battagli,
comincia a cantar la mitraglia
Affonda nel fango lo stivale imperiale
E quello del fascio sociale
Non c’è più respiro dopo l lotta
E’ questa la libertà?
Uomini in nero confusi nel rosso
Sprofondano nell’antenora
No mio compagno non darti per vinto
Togliere la vita a chi
A chi ha sempre ammazzato a coscienza pulita
Non e’ un delitto perché….noi siam
Partigiani…
Partigiani…
Si spengono gli echi delle canzoni,
la rivolta è già storia di ieri.
Cade la neve sui nei cimiteri
A coprire lapidi e nomi.
Ma germoglia un’armata come erba nei campi
Che no, non scorderà:
ancora la senti gridare: “Compagni,
La lotta non finisce qua!”
Regalano sudditi o morte..
Chiedono aiuto con i fucili
Non lasciano libertà
Neve saldato perfido amico
Bacia la nebbia compagna
Là sopra i monti in mezzo ai boschi
Nasce un’ armata essenziale
Partigiani..
Partigiani..
Dan luce alla notte premendo un grilletto
Dai carruggi fino alle langhe
Risalgono i colli, corron tra i vicoli
Ed un grido diventa canzone
Partigiani..
Partigiani..
Lo sento nel vento che stanno arrivando
Aspetta il mio comando
“...tenente Rosso, sei solo un sergente
ma comandi splendidamente”
Berretti ed elmetti si danno battagli,
comincia a cantar la mitraglia
Affonda nel fango lo stivale imperiale
E quello del fascio sociale
Non c’è più respiro dopo l lotta
E’ questa la libertà?
Uomini in nero confusi nel rosso
Sprofondano nell’antenora
No mio compagno non darti per vinto
Togliere la vita a chi
A chi ha sempre ammazzato a coscienza pulita
Non e’ un delitto perché….noi siam
Partigiani…
Partigiani…
Si spengono gli echi delle canzoni,
la rivolta è già storia di ieri.
Cade la neve sui nei cimiteri
A coprire lapidi e nomi.
Ma germoglia un’armata come erba nei campi
Che no, non scorderà:
ancora la senti gridare: “Compagni,
La lotta non finisce qua!”
inviata da adriana - 24/4/2010 - 14:17
Oggi, 25 Aprile, non sono andato a nessun corteo. Non lo faccio da tanti anni. Non mi interessa se la Letizia si sia o no presa i suoi vaffanculo e cose del genere. Un tempo, non ne perdevo uno di 25 Aprile. Dalla mia camera, dalla mia casa che dominava tutta la città, dispiegavo una bandiera tricolore, che si vedeva da tutta Como e forse era l'unica non ufficiale, perché Como, dopo che nel 1922 gli squadristi le "dimisero" un sindaco socialista di nome Angelo Noseda, si trovò sempre (salvo due misere volte, quando per un po' di tempo fu sindaco il Renzino Pigni, socialista unitario, e quando fu sindaco il buon Sergio Simone, socialista anche lui, ma craxiano) dalla parte sbagliata: Como votò per il Savoia, Como votò contro il divorzio e contro l'aborto terapeutico, Como da democristiana che era passò quasi in massa a Malagodi quando cominciò il centro-sinistra, Como solo pochi giorni fa ha votato per lo stesso Pdl contro cui due mesi prima era insorta per il famoso "muro di belino" con il quale il suo sindaco, a pubbliche spese, ha oscurato il lago e l'ha resa zimbello mondiale... E mi fermo qui, se no dovrei dire anche del vescovo Maggiolini: ma i vescovi non li eleggono i cittadini perché, democraticamente, li designano i Papi.
Andavo già al corteo quando ci andavano quattro gatti, tre dei quali erano comunisti e un altro mezzo gatto era la banda di Rebbio che suonava il Piave. Ascoltavo paziente il sindaco, senza tessere ma cattolicissimo, l' Aquilino Gelpi detto Lino, il quale dal palco dimostrava come indubitabilmente il fascismo fosse deprecabile, essendo finito con il suo capo ucciso tra le braccia dell'amante e non della legittima moglie (per quanto anche la sua uccisione non fosse tanto da approvare...). E non si levava la benché minima pernacchia, perché "la Resistenza era di tutti", purché non fossero dichiaratamente fascisti. (Quelli dichiarati cercavano di andare, il 28 Aprile, al fatale cancello di Giulino di Mezzegra, ma trovavano gli ex partigiani della Garibaldi di Dongo, il Tom, il Camotta ecc., e le loro manone ipetrofizzatesi alla ferriera Falck, e i loro scarponi di montanari e contrabbandieri: i padri putativi di tutte le Marte di Ivan Graziani).
Oggi, il pomeriggio del 25 Aprile l'ho passato a Milano, a chiacchierare con Mario, un vecchio partigiano amico di un altro partigiano - Spartaco - morto vecchissimo pochi mesi fa, alla figlia del quale voleva raccontare tante cose che lei non aveva mai sentito dire da suo padre. Non erano stati partigiani di spicco: erano "solo" stati partigiani, di quelli che avevano fatto quello che c'era da fare e poi, senza mettersi a scriversi dei libri, erano tornati alle loro attività, in fabbrica o in bottega, senza mai più dimenticare chi aveva combattuto al loro fianco ma non aveva visto l'alba della liberazione. Esattamente come diceva la canzone dei maquis: "Le vent souffle sur les tombes, la liberté reviendra, nous rentrerons dans l'ombre". Così ho sentito parlare per la prima volta di Topolino, un partigianino brianzolo di quindici anni, caduto sotto le raffiche impugnando solo una baionetta; ho sentito di come impedirono armi in pugno il processo sommario al padrone della loro ditta, perché rifiutavano che non si considerasse che era un galantuomo e non solo un padrone; ho sentito della loro fame e delle loro pulci; delle pallottole che loro non avevano preso perché le avevano prese i loro compagni. E ogni tanto mi balenava il nome di Pansa; ogni tanto mi riecheggiava il ritornello oggi di gran moda: combattevano un dittatura per instaurane un'altra... O l'altro, che forse è anche peggio: ma a cosa serviva, se gli Americani ci stavano già liberando...Non so di Pansa, che oggi la liberazione la celebra dalle colonne di Libero senza vomitare...: ma gli altri, gli altri se avessero avuto l'età per far qualcosa, in quei giorni avrebbero fatto la borsa nera. Sono quelli che oggi ci governano. E se non sono loro, sono i loro figli.
Andavo già al corteo quando ci andavano quattro gatti, tre dei quali erano comunisti e un altro mezzo gatto era la banda di Rebbio che suonava il Piave. Ascoltavo paziente il sindaco, senza tessere ma cattolicissimo, l' Aquilino Gelpi detto Lino, il quale dal palco dimostrava come indubitabilmente il fascismo fosse deprecabile, essendo finito con il suo capo ucciso tra le braccia dell'amante e non della legittima moglie (per quanto anche la sua uccisione non fosse tanto da approvare...). E non si levava la benché minima pernacchia, perché "la Resistenza era di tutti", purché non fossero dichiaratamente fascisti. (Quelli dichiarati cercavano di andare, il 28 Aprile, al fatale cancello di Giulino di Mezzegra, ma trovavano gli ex partigiani della Garibaldi di Dongo, il Tom, il Camotta ecc., e le loro manone ipetrofizzatesi alla ferriera Falck, e i loro scarponi di montanari e contrabbandieri: i padri putativi di tutte le Marte di Ivan Graziani).
Oggi, il pomeriggio del 25 Aprile l'ho passato a Milano, a chiacchierare con Mario, un vecchio partigiano amico di un altro partigiano - Spartaco - morto vecchissimo pochi mesi fa, alla figlia del quale voleva raccontare tante cose che lei non aveva mai sentito dire da suo padre. Non erano stati partigiani di spicco: erano "solo" stati partigiani, di quelli che avevano fatto quello che c'era da fare e poi, senza mettersi a scriversi dei libri, erano tornati alle loro attività, in fabbrica o in bottega, senza mai più dimenticare chi aveva combattuto al loro fianco ma non aveva visto l'alba della liberazione. Esattamente come diceva la canzone dei maquis: "Le vent souffle sur les tombes, la liberté reviendra, nous rentrerons dans l'ombre". Così ho sentito parlare per la prima volta di Topolino, un partigianino brianzolo di quindici anni, caduto sotto le raffiche impugnando solo una baionetta; ho sentito di come impedirono armi in pugno il processo sommario al padrone della loro ditta, perché rifiutavano che non si considerasse che era un galantuomo e non solo un padrone; ho sentito della loro fame e delle loro pulci; delle pallottole che loro non avevano preso perché le avevano prese i loro compagni. E ogni tanto mi balenava il nome di Pansa; ogni tanto mi riecheggiava il ritornello oggi di gran moda: combattevano un dittatura per instaurane un'altra... O l'altro, che forse è anche peggio: ma a cosa serviva, se gli Americani ci stavano già liberando...Non so di Pansa, che oggi la liberazione la celebra dalle colonne di Libero senza vomitare...: ma gli altri, gli altri se avessero avuto l'età per far qualcosa, in quei giorni avrebbero fatto la borsa nera. Sono quelli che oggi ci governano. E se non sono loro, sono i loro figli.
Gian Piero Testa - 26/4/2010 - 00:48
A trent’anni dalla scomparsa, un ricordo del medico partigiano Sergio Caneva, di cui due fratelli perirono nei campi di sterminio.
Morto durante una conferenza, come il prigioniero politico sudafricano Duma Kumalo
A TRENTANNI DALLA MORTE, UN RICORDO DEL PARTIGIANO SERGIO CANEVA
Gianni Sartori
Quando mi era giunta la notizia della morte dell’amico Duma Joshua Kumalo (uno dei sei di Sharpeville), scomparso il 3 febbraio 2006 a CapeTown, durante una conferenza, la memoria mi era andata immediatamente alla vicenda analoga di Sergio Caneva.
Due storie diverse, geograficamente lontane, ma forse complementari.
Prigioniero politico nel Sudafrica dell’apartheid (anni ottanta) Duma raccontava di aver “passato sette anni in prigione e tre nella cella della morte, ho ottenuto la grazia dodici ore prima di essere impiccato. Soltanto oggi comprendo come questa esperienza abbia segnato la mia identità e sia alla base delle ferite e dei ricordi frammentari che compongono la mia storia personale”.
Scampato alle forche dell’apartheid, Duma aveva letto molto sulle esperienze dei sopravvissuti all’Olocausto, cercando di trovare un senso, una spiegazione per le sofferenze inflitte da un sistema di sfruttamento, oppressione e razzismo istituzionalizzato. Voleva, come Primo Levi che talora citava, ricordare e testimoniare affinché l’orrore di quanto era accaduto non potesse ripetersi.
Da molti anni lavorava senza sosta per il Khulumani survivor support group, un’associazione di aiuto per i sopravvissuti dell’apartheid, per coloro che avevano subito la brutalità del regime, aiutandoli a raccontare le loro esperienze.
E spiegava: “Sono stato privato del diritto di essere felice il giorno in cui ho compreso cosa fosse l’apartheid. Mi sono messo alla ricerca e da quel momento ho dovuto scavare sempre più profondamente nel passato e provare ancora più amarezza. Quello che ho compreso non riguarda il dolore della morte, ma il dolore della mia vita. Confrontarsi con la morte è difficile, ma confrontarsi con la vita dopo aver visto in faccia la morte è ancora più difficile”.
Era riuscito a farlo con grande dignità, come stanno a dimostrare la sua vita familiare, l’intensa attività culturale, le rappresentazioni teatrali con cui ha dato testimonianza delle ingiustizie subite dal suo popolo.
Quel giorno, il 3 febbraio 2006, l’apartheid fece un’altra vittima. Il suo cuore generoso, infaticabile, segnato dalle sofferenze e dai ricordi, aveva ceduto durante una delle tante conferenze a cui veniva chiamato. Qualche settimana prima, al telefono, si era parlato del materiale (manifesti, fotografie di manifestazioni antiapartheid nell’Europa degli anni ottanta) spedito a Sharpeville e inserito nel museo appena inaugurato.
In circostanze simili se n’era andato il 23 aprile del 1993 - a 73 anni - un altro amico, Sergio Caneva, medico e partigiano vicentino. Due giorni prima del 25 aprile durante una conferenza sulla Resistenza (nell’aula magna della scuola media di Cavazzale) in preparazione appunto della festa della Liberazione. Iniziativa organizzata dal prof Perini.
Due tragedie avvenute senza preavviso. Una momentanea amnesia per Caneva che poi si era accasciato e - presumibilmente - un attacco cardiaco per Duma(con quel cuore generoso, martoriato dalle torture, dalle minaccia incombente della forca…).
Sergio Caneva, nato nel 1919 ad Arzignano, oltre che dirigente provinciale, era stato per anni consigliere nazionale dell’ANPI. Dopo l’8 settembre 1943, studente di medicina ed esponente del Partito d’Azione, prese “la strada dei monti” svolgendo una pericolosa attività clandestina come ispettore delle formazioni partigiane della Divisione “Pasubio”. Venne condannato dal regime di Salò a 30 anni (in contumacia) mentre due suoi fratelli venivano deportati nei campi di sterminio. Macabra coincidenza. I loro resti erano stati riportati in Italia soltanto un mese prima della sua scomparsa e non si può certo escludere che proprio quel rinnovato dolore lo abbia alla fine stroncato.
Laureatosi nel dopoguerra, aveva inizialmente operato come chirurgo all’Ospedale Civile di Arzignano. in seguito, come psichiatra, aveva curato centinaia di persone (molte donne, spesso vittime di una mentalità retriva e maschilista diffusa nel Veneto “bianco”) all’ospedale psichiatrico di Vicenza, prodigandosi anche - nel tempo libero -per curare gratuitamente i diseredati.
Autore, oltre che di molte pubblicazioni scientifiche,del libro “Resistenza civile e armata nel Vicentino” (scritto con Remo Prenovi), si era dedicato alla testimonianza assidua di quel che avevano rappresentato i lunghi mesi della Resistenza antifascista attraverso un gran numero di conferenze (soprattutto nelle scuole).
Ma, come aveva ricordato nell’orazione funebre, davanti a centinaia di persone, l’avvocato Lino Bettin (all’epoca presidente dell’ANPI vicentina) “quello che non potremo mai dimenticare di Sergio è la sua umanità nella comprensione degli altri. Il senso e il gusto quasi francescano della vita. Il disprezzo per la società consumistica, il sogno irrealizzabile della “città del sole”. E, ricordava a tal proposito Bettin che ne condivise l’esperienza, l’immenso “impegno umano, civile e politico” mostrato da Sergio in numerosi incontri internazionali (in particolare negli anni cinquanta e sessanta) in difesa della pace, della solidarietà tra i popoli. Oltre che della “giustizia sociale, della libertà reale”.
Avevo avuto l’onore di conoscerlo nei primissimi anni settanta quando, se pur saltuariamente, partecipavo ai volantinaggi davanti al suo “posto di lavoro”, insieme ad un eterogeneo gruppo di libertari variamente assortiti. Dal fricchettone all’aspirante situazionista, dall’anarchico vecchio stampo al giovane operaista incerto…(anche se con un tratto comune, quasi tutti lavoratori - operai, facchini... - al massimo studenti-lavoratori). Almeno un trentina di volantini di denuncia vennero distribuiti nel corso di un paio d’anni (1971-1972, regolarmente, mediamente uno ogni 15 giorni) ai familiari dei reclusi nel locale manicomio (così era chiamato, senza eufemismi, in epoca pre-Basaglia). Quasi una lotta d’avanguardia per chi aveva letto, se non La maggioranza deviante, almeno Morire di classe. Denunciando le violenze, i ricoveri coatti (una sorta di TSO di massa) nei confronti di soggetti scomodi (“disadattati” secondo l’ideologia dominante) improduttivi, sostanzialmente non addomesticati. Dall’interno c’era chi ci sosteneva, informava, guidava: appunto il compianto Sergio Caneva, fedele e coerente con la sua giovinezza partigiana.
Per dovere di cronaca riporto quanto mi ha “rivelato” in seguito un militante operaio degli anni sessanta, passato dal PCI ai marxisti-leninisti e in seguito anche per Lotta comunista, Franco Pianalto). Ossia del ruolo fondamentale svolto sotto traccia nella controinformazione da suo cugino, un altro CANEVA, Sante (quasi omonimo del medico Sergio, ma non parente). Provenivano anche da lui, oltre che da Sergio, parte delle informazioni sulla vergognosa situazione in cui versavano i reclusi. Per il suo impegno era destinato a subire angherie di vario genere (mobbing ante litteram ?) che contribuirono, nel corso degli anni successivi, ad avvelenargli non poco la vita. Ancora negli anni sessanta, Sante Caneva in collaborazione con un altro sindacalista e socialista (un Sartori di cui si son perse le tracce) aveva denunciato l’assurda situazione per cui i reclusi vennero in pratica costretti per quasi due anni a “mangiare con le mani”. In quanto i dirigenti non trovavano un accordo sui cucchiai (se dovevano essere di legno oppure di stagno, non è una barzelletta). D’altra parte questa era la realtà delle istituzioni totali prima del tanto vituperato 68! A entrambi i due Caneva (Sante e Sergio) va reso quindi il dovuto onore.
Animato evidentemente da spirito ecumenico, oltre che dalle migliori intenzioni, Sergio organizzò qualche incontro (nella vecchia sede della CGIL) tra alcuni sindacalisti di area sia comunista che socialista e noi giovani esuberanti.
Tra l’altro ricordo di aver incontrato per strada, mentre mi recavo alla prima riunione, alcuni militanti di Servire il popolo invitandoli senza problemi ad aggregarsi.Se i nostri interventi a favore di emarginati, lumpen etc (individuati, forse a torto,come le principali vittime del Sistema) avevano lasciato perplessi i sindacalisti, l’intervento di un maoista che raccontava di un loro compagno afflitto da problemi psichici, risolti (giuro!) grazie alla lettura quotidiana del Libretto Rosso, rischiò di stroncare sul nascere ogni possibile collaborazione.
Un altro ricordo più personale. Visto che entrambi navigavamo in quella “terra di nessuno” che sta (meglio, stava) tra l’ortodossia leninista e le svariate eresie e derive di sinistra (tra situazionismo e bordighismo, tra Rosa Luxemburg, Victor Serge, Berneri… e i fratelli Rosselli) mi prestò un raro esemplare del libro di Azzaroni su “Blasco” (Pietro Tresso, comunista antistalinista) di cui allora, nonostante fosse nato a Magré di Schio, nel vicentino quasi non si parlava. Evidente rimozione di un soggetto scomodo. Se non ricordo male era quello originale, edito da Azione Comune, nella versione in lingua francese.
Negli anni ottanta poi (mi pare nel 1987), casualmente, ci ritrovammo entrambi in lista con Democrazia Proletaria come “indipendenti”. Ovviamente brucia il rammarico di non averlo frequentato di più, ma anche la consapevolezza che averlo conosciuto (così come per Duma) è stato un onore.
Gianni Sartori
Morto durante una conferenza, come il prigioniero politico sudafricano Duma Kumalo
A TRENTANNI DALLA MORTE, UN RICORDO DEL PARTIGIANO SERGIO CANEVA
Gianni Sartori
Quando mi era giunta la notizia della morte dell’amico Duma Joshua Kumalo (uno dei sei di Sharpeville), scomparso il 3 febbraio 2006 a CapeTown, durante una conferenza, la memoria mi era andata immediatamente alla vicenda analoga di Sergio Caneva.
Due storie diverse, geograficamente lontane, ma forse complementari.
Prigioniero politico nel Sudafrica dell’apartheid (anni ottanta) Duma raccontava di aver “passato sette anni in prigione e tre nella cella della morte, ho ottenuto la grazia dodici ore prima di essere impiccato. Soltanto oggi comprendo come questa esperienza abbia segnato la mia identità e sia alla base delle ferite e dei ricordi frammentari che compongono la mia storia personale”.
Scampato alle forche dell’apartheid, Duma aveva letto molto sulle esperienze dei sopravvissuti all’Olocausto, cercando di trovare un senso, una spiegazione per le sofferenze inflitte da un sistema di sfruttamento, oppressione e razzismo istituzionalizzato. Voleva, come Primo Levi che talora citava, ricordare e testimoniare affinché l’orrore di quanto era accaduto non potesse ripetersi.
Da molti anni lavorava senza sosta per il Khulumani survivor support group, un’associazione di aiuto per i sopravvissuti dell’apartheid, per coloro che avevano subito la brutalità del regime, aiutandoli a raccontare le loro esperienze.
E spiegava: “Sono stato privato del diritto di essere felice il giorno in cui ho compreso cosa fosse l’apartheid. Mi sono messo alla ricerca e da quel momento ho dovuto scavare sempre più profondamente nel passato e provare ancora più amarezza. Quello che ho compreso non riguarda il dolore della morte, ma il dolore della mia vita. Confrontarsi con la morte è difficile, ma confrontarsi con la vita dopo aver visto in faccia la morte è ancora più difficile”.
Era riuscito a farlo con grande dignità, come stanno a dimostrare la sua vita familiare, l’intensa attività culturale, le rappresentazioni teatrali con cui ha dato testimonianza delle ingiustizie subite dal suo popolo.
Quel giorno, il 3 febbraio 2006, l’apartheid fece un’altra vittima. Il suo cuore generoso, infaticabile, segnato dalle sofferenze e dai ricordi, aveva ceduto durante una delle tante conferenze a cui veniva chiamato. Qualche settimana prima, al telefono, si era parlato del materiale (manifesti, fotografie di manifestazioni antiapartheid nell’Europa degli anni ottanta) spedito a Sharpeville e inserito nel museo appena inaugurato.
In circostanze simili se n’era andato il 23 aprile del 1993 - a 73 anni - un altro amico, Sergio Caneva, medico e partigiano vicentino. Due giorni prima del 25 aprile durante una conferenza sulla Resistenza (nell’aula magna della scuola media di Cavazzale) in preparazione appunto della festa della Liberazione. Iniziativa organizzata dal prof Perini.
Due tragedie avvenute senza preavviso. Una momentanea amnesia per Caneva che poi si era accasciato e - presumibilmente - un attacco cardiaco per Duma(con quel cuore generoso, martoriato dalle torture, dalle minaccia incombente della forca…).
Sergio Caneva, nato nel 1919 ad Arzignano, oltre che dirigente provinciale, era stato per anni consigliere nazionale dell’ANPI. Dopo l’8 settembre 1943, studente di medicina ed esponente del Partito d’Azione, prese “la strada dei monti” svolgendo una pericolosa attività clandestina come ispettore delle formazioni partigiane della Divisione “Pasubio”. Venne condannato dal regime di Salò a 30 anni (in contumacia) mentre due suoi fratelli venivano deportati nei campi di sterminio. Macabra coincidenza. I loro resti erano stati riportati in Italia soltanto un mese prima della sua scomparsa e non si può certo escludere che proprio quel rinnovato dolore lo abbia alla fine stroncato.
Laureatosi nel dopoguerra, aveva inizialmente operato come chirurgo all’Ospedale Civile di Arzignano. in seguito, come psichiatra, aveva curato centinaia di persone (molte donne, spesso vittime di una mentalità retriva e maschilista diffusa nel Veneto “bianco”) all’ospedale psichiatrico di Vicenza, prodigandosi anche - nel tempo libero -per curare gratuitamente i diseredati.
Autore, oltre che di molte pubblicazioni scientifiche,del libro “Resistenza civile e armata nel Vicentino” (scritto con Remo Prenovi), si era dedicato alla testimonianza assidua di quel che avevano rappresentato i lunghi mesi della Resistenza antifascista attraverso un gran numero di conferenze (soprattutto nelle scuole).
Ma, come aveva ricordato nell’orazione funebre, davanti a centinaia di persone, l’avvocato Lino Bettin (all’epoca presidente dell’ANPI vicentina) “quello che non potremo mai dimenticare di Sergio è la sua umanità nella comprensione degli altri. Il senso e il gusto quasi francescano della vita. Il disprezzo per la società consumistica, il sogno irrealizzabile della “città del sole”. E, ricordava a tal proposito Bettin che ne condivise l’esperienza, l’immenso “impegno umano, civile e politico” mostrato da Sergio in numerosi incontri internazionali (in particolare negli anni cinquanta e sessanta) in difesa della pace, della solidarietà tra i popoli. Oltre che della “giustizia sociale, della libertà reale”.
Avevo avuto l’onore di conoscerlo nei primissimi anni settanta quando, se pur saltuariamente, partecipavo ai volantinaggi davanti al suo “posto di lavoro”, insieme ad un eterogeneo gruppo di libertari variamente assortiti. Dal fricchettone all’aspirante situazionista, dall’anarchico vecchio stampo al giovane operaista incerto…(anche se con un tratto comune, quasi tutti lavoratori - operai, facchini... - al massimo studenti-lavoratori). Almeno un trentina di volantini di denuncia vennero distribuiti nel corso di un paio d’anni (1971-1972, regolarmente, mediamente uno ogni 15 giorni) ai familiari dei reclusi nel locale manicomio (così era chiamato, senza eufemismi, in epoca pre-Basaglia). Quasi una lotta d’avanguardia per chi aveva letto, se non La maggioranza deviante, almeno Morire di classe. Denunciando le violenze, i ricoveri coatti (una sorta di TSO di massa) nei confronti di soggetti scomodi (“disadattati” secondo l’ideologia dominante) improduttivi, sostanzialmente non addomesticati. Dall’interno c’era chi ci sosteneva, informava, guidava: appunto il compianto Sergio Caneva, fedele e coerente con la sua giovinezza partigiana.
Per dovere di cronaca riporto quanto mi ha “rivelato” in seguito un militante operaio degli anni sessanta, passato dal PCI ai marxisti-leninisti e in seguito anche per Lotta comunista, Franco Pianalto). Ossia del ruolo fondamentale svolto sotto traccia nella controinformazione da suo cugino, un altro CANEVA, Sante (quasi omonimo del medico Sergio, ma non parente). Provenivano anche da lui, oltre che da Sergio, parte delle informazioni sulla vergognosa situazione in cui versavano i reclusi. Per il suo impegno era destinato a subire angherie di vario genere (mobbing ante litteram ?) che contribuirono, nel corso degli anni successivi, ad avvelenargli non poco la vita. Ancora negli anni sessanta, Sante Caneva in collaborazione con un altro sindacalista e socialista (un Sartori di cui si son perse le tracce) aveva denunciato l’assurda situazione per cui i reclusi vennero in pratica costretti per quasi due anni a “mangiare con le mani”. In quanto i dirigenti non trovavano un accordo sui cucchiai (se dovevano essere di legno oppure di stagno, non è una barzelletta). D’altra parte questa era la realtà delle istituzioni totali prima del tanto vituperato 68! A entrambi i due Caneva (Sante e Sergio) va reso quindi il dovuto onore.
Animato evidentemente da spirito ecumenico, oltre che dalle migliori intenzioni, Sergio organizzò qualche incontro (nella vecchia sede della CGIL) tra alcuni sindacalisti di area sia comunista che socialista e noi giovani esuberanti.
Tra l’altro ricordo di aver incontrato per strada, mentre mi recavo alla prima riunione, alcuni militanti di Servire il popolo invitandoli senza problemi ad aggregarsi.Se i nostri interventi a favore di emarginati, lumpen etc (individuati, forse a torto,come le principali vittime del Sistema) avevano lasciato perplessi i sindacalisti, l’intervento di un maoista che raccontava di un loro compagno afflitto da problemi psichici, risolti (giuro!) grazie alla lettura quotidiana del Libretto Rosso, rischiò di stroncare sul nascere ogni possibile collaborazione.
Un altro ricordo più personale. Visto che entrambi navigavamo in quella “terra di nessuno” che sta (meglio, stava) tra l’ortodossia leninista e le svariate eresie e derive di sinistra (tra situazionismo e bordighismo, tra Rosa Luxemburg, Victor Serge, Berneri… e i fratelli Rosselli) mi prestò un raro esemplare del libro di Azzaroni su “Blasco” (Pietro Tresso, comunista antistalinista) di cui allora, nonostante fosse nato a Magré di Schio, nel vicentino quasi non si parlava. Evidente rimozione di un soggetto scomodo. Se non ricordo male era quello originale, edito da Azione Comune, nella versione in lingua francese.
Negli anni ottanta poi (mi pare nel 1987), casualmente, ci ritrovammo entrambi in lista con Democrazia Proletaria come “indipendenti”. Ovviamente brucia il rammarico di non averlo frequentato di più, ma anche la consapevolezza che averlo conosciuto (così come per Duma) è stato un onore.
Gianni Sartori
Gianni Sartori - 31/1/2023 - 19:15
OMAGGIO AL COMPAGNO PARTIGIANO EUGENIO MAGRI
Gianni Sartori
NEL CORSO DELLA SUA LUNGA VITA MILITANTE, L’ANTIFASCISTA VICENTINO EUGENIO MAGRI (morto a 96 anni) HA CONTRIBUITO COME POCHI AL RECUPERO DELLA MEMORIA STORICA SIA DELLA RESISTENZA AL FASCISMO NOSTRANO, SIADELLA LOTTA ANTIFRANCHISTA
E così anche Eugenio se n’è andato. Era nato nel 1928 e quindi un po’ me l’aspettavo. L’ultima volta che ne avevo chiesto notizie al suo amico fraterno Moret, lui aveva scosso il capo.
Eugenio, operaio autodidatta e artista, negli ultimi tempi soffriva per seri problemi alla vista che gli impedivano di proseguire nelle sue inesauste ricerche storiche. Se non proprio l’ultimo superstite del movimento partigiano vicentino, con lui perdiamo una delle voci più autentiche e significative, in grado ancora di dare testimonianza.
Nell’estremo saluto (28 maggio), tra bandiere dell’ANPI, della CGIL, dell’USB…e anche un paio di quelle palestinesi, lo hanno ricordato il vicesindaco Isabella Sala, Danilo Andriolo e Gigi Poletto dell’ANPI vicentina, Germano Raniero dell’USB, Giampaolo Zanni della CGIL e altri suoi compagni di tante battaglie: dalle 150 ore alla solidarietà internazionale, dalle lotte sindacali alla preparazione di materiale divulgativo (famose in città le sue mostre, in particolare quella storica sulla Guerra di Spagna esposta anche a Barcellona).
E appunto dalla Rosa de Foc è pervenuto il comunicato dialcuni storici e attivisti catalani che hanno voluto “rendergli omaggio per tutto l’aiuto, la collaborazione e l’entusiasmo che sempre ha offerto nel recupero della memoria storica del nostro lungo transito attraverso il regime di Franco, la sua continua insistenza nel non vedere il recupero della memoria storica come qualcosa di esclusivamente nostalgico, ma piuttosto per proiettare la continuità della lotta nel futuro”.
Tra loro alcuni che avevo conosciuto nelle mie incursioni giornalistico-fotografiche nei Paisos Catalans. In particolare Joan Canet (con cui - in bicicletta - avevo cercato il muro del cimitero dove era stato fucilato il Txiki)* e Antonio Sanchezche mi aveva ospitato varie volte a casa sua (dandomi anche - in tempo reale, suo fratello era a Cuba - la brutta notizia della morte del padre del CHE che entrambi avevamo conosciuto, il padre, beninteso).
Anche se alcuni episodi della sua prima educazione politica (il gelataio friulano antifascista che nel ’39 gli parlò per primo di Matteotti, la scoperta a quindici anni del concetto di “Democrazia”, fino ad allora quasi un oggetto misterioso…) restano esemplari, emblematici, non è il momento, non per me almeno, di recuperare la cronologia della vita militante di Eugenio.**
Altri che lo conobbero più profondamente lo stanno facendo (Gigi Poletto mi pare stia scrivendo un libro, Alberto Galeotto conserva una decina di interviste registrate e sicuramente l’ANPI vicentina saprà recuperare e valorizzare il suo vasto archivio).
A me, come capita sempre più spesso in queste tristi circostanza, succede di riandare con la memoria a ricordi magari “minimalisti”, episodi frammentari, immagini di situazioni…in cui le figura del compagno Eugenio, bonaria ma determinata, si staglia quasi in controluce. Credo di averlo conosciuto esattamente 50 anni fa, alla manifestazione unitaria per la strage di Brescia quando c’eravamo veramente tutti, dagli anarchici alla CISL.
L’ultima volta che abbiamo conversato un po’ più a lungo eravamo di fronte alla libreria Galla, da dove si scorge nitidamente un’opera palladiana rimasta incompiuta. Proprio il luogo teatro di un rischioso trafugamento di armi. Quindicenne spavaldo, si era poi allontanato spingendo un carretto stracarico di mitra e fucili (ma dopo averli ben mimetizzati, mi pare con dei sacchi) sotto il naso dei soldati. Una storia che conoscevo, ma che raccontata praticamente “in loco” assumeva tutt’altra valenza (sia per quanto riguarda il “passaggio di testimone” tra generazioni, sia per la continuità storico-territoriale di una città medaglia d’oro alla Resistenza).
Senza dimenticare le molteplici occasioni in cui esponeva le sue mostre - accuratissime -sulla Guerra di Spagna, sulla storia del sindacato, sulla Resistenza…
Sia alle feste dell’Unità che a una di DP (negli anni ottanta al Parco Querini, visitata dal comandante TAR, Ferruccio Manea)***.
O un’altra, patrocinata dal Comune, nella prestigiosa Loggia del Capitaniato.
Fu lui a farmi conoscere Visentini Ferrer, volontario nella Brigate Internazionali che in seguito avrei anche intervistato.****
Di Eugenio, altrettanto fermo nelle sue idee che disposto al dialogo con chiunque, va sottolineata la grande capacità di ascoltare.
Per esempio nel 1995 lo invitai a una iniziativa sui Paesi Baschi organizzata dalla Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli in Saletta Lampertico. Tra i relatori, il giornalista di Radio popolare e di Radio tandem Giovanni Giacopuzzi, Luciano Ardesi, lo storico basco Inaki Egana e l’esponente delle Gestoras Pro Amnistia(ed ex prigioniero politico ) Gari Arriaga.
Erano i giorni del ritrovamento in una fossa riempita di calce dei resti mortali, torturati e straziati, di due etarra, Laza e Zabala, sequestrati ancora nel 1983 dallo squadrone della morte paramilitare (o anche parastatale) denominato GAL.
Ma appunto eravamo negli anni novanta. E ormai la sinistra, quella stessa sinistra che all’epoca del processo di Burgos (1970) aveva parole di elogio per la lotta antifranchista del popolo basco, preferiva girare la testa dall’altra parte di fronte alle violazioni dei diritti umani (sparizioni, torture, repressione…) in Euskal Herria. Soprattutto da quando governavano i socialisti di Gonzalez.
Eugenio Magri ovviamente espresse la sua critica in merito alla lotta armata di ETA (ritenendola non solo moralmente sbagliata, ma anche controproducente dopo la morte di Franco), ma non si tirò indietro nel condannare i metodi usati da Madrid. La discussione, sostanzialmente amichevole, tra compagni, si protrasse talmente a lungo che alla fine gli ultimi sei o sette rimasti (oltre ai relatori e al sottoscritto, Magri e Moret) vennero letteralmente “cacciati” dal responsabile della saletta. E comunque continuammo discutere anche in strada, sotto i portici. A distanza di qualche anno Inaki e Gari mi chiedevano notizie del “compagno comunista vicentino”. Ne erano rimasti colpiti molto positivamente quando era intervenuto sulla Guerra Civile Spagnola (ben sapendo come i baschi versarono - sia durante che dopo - sangue, dolore e lacrime come pochi). Ecco direi che in questa capacità di Eugenio di empatizzare anche con chi si trovava su posizioni diverse politicamente, stava una sua caratteristica peculiare.
Lo sperimentai anche quando uscì il film di Ken Loach “Terra e Libertà”. Per lui, vecchio militate comunista, poteva apparire forse eccessiva la critica al PSUC per i fatti di Barcellona, ma anche qui non si tirava indietro. “L’importante- mi aveva detto - è che se ne parli, capire, confrontarsi”. Se necessario rimettere in discussionequanto fino allora veniva dato per scontato in gran parte della sinistra sia istituzionale che extraparlamentare. Come ho già ricordato, il mantra “con voi faremo come in Spagna” (in riferimento al maggio ’37) me lo sentivo ripetere tanto da quelli del PCI che da quelli di Potere Operaio (e anche da parecchi di Lotta Continua se è per questo, anche se adesso raccontano di essere stati “luxemburghiani”).
Diciamo che invece quello di Eugenio Magri era proprio “un altro stile” (e sto citando Camillo Berneri).
Gianni Sartori
nota 1: https://www.veliber.org/archivio/Arivi...
** nota 2: https://www.noipartigiani.it/eugenio-magri/
** *nota 3”: https://www.anpi-vicenza.it/ferruccio-...
**** nota 4: https://www.anpi-vicenza.it/ferrer-vis...
Gianni Sartori
NEL CORSO DELLA SUA LUNGA VITA MILITANTE, L’ANTIFASCISTA VICENTINO EUGENIO MAGRI (morto a 96 anni) HA CONTRIBUITO COME POCHI AL RECUPERO DELLA MEMORIA STORICA SIA DELLA RESISTENZA AL FASCISMO NOSTRANO, SIADELLA LOTTA ANTIFRANCHISTA
E così anche Eugenio se n’è andato. Era nato nel 1928 e quindi un po’ me l’aspettavo. L’ultima volta che ne avevo chiesto notizie al suo amico fraterno Moret, lui aveva scosso il capo.
Eugenio, operaio autodidatta e artista, negli ultimi tempi soffriva per seri problemi alla vista che gli impedivano di proseguire nelle sue inesauste ricerche storiche. Se non proprio l’ultimo superstite del movimento partigiano vicentino, con lui perdiamo una delle voci più autentiche e significative, in grado ancora di dare testimonianza.
Nell’estremo saluto (28 maggio), tra bandiere dell’ANPI, della CGIL, dell’USB…e anche un paio di quelle palestinesi, lo hanno ricordato il vicesindaco Isabella Sala, Danilo Andriolo e Gigi Poletto dell’ANPI vicentina, Germano Raniero dell’USB, Giampaolo Zanni della CGIL e altri suoi compagni di tante battaglie: dalle 150 ore alla solidarietà internazionale, dalle lotte sindacali alla preparazione di materiale divulgativo (famose in città le sue mostre, in particolare quella storica sulla Guerra di Spagna esposta anche a Barcellona).
E appunto dalla Rosa de Foc è pervenuto il comunicato dialcuni storici e attivisti catalani che hanno voluto “rendergli omaggio per tutto l’aiuto, la collaborazione e l’entusiasmo che sempre ha offerto nel recupero della memoria storica del nostro lungo transito attraverso il regime di Franco, la sua continua insistenza nel non vedere il recupero della memoria storica come qualcosa di esclusivamente nostalgico, ma piuttosto per proiettare la continuità della lotta nel futuro”.
Tra loro alcuni che avevo conosciuto nelle mie incursioni giornalistico-fotografiche nei Paisos Catalans. In particolare Joan Canet (con cui - in bicicletta - avevo cercato il muro del cimitero dove era stato fucilato il Txiki)* e Antonio Sanchezche mi aveva ospitato varie volte a casa sua (dandomi anche - in tempo reale, suo fratello era a Cuba - la brutta notizia della morte del padre del CHE che entrambi avevamo conosciuto, il padre, beninteso).
Anche se alcuni episodi della sua prima educazione politica (il gelataio friulano antifascista che nel ’39 gli parlò per primo di Matteotti, la scoperta a quindici anni del concetto di “Democrazia”, fino ad allora quasi un oggetto misterioso…) restano esemplari, emblematici, non è il momento, non per me almeno, di recuperare la cronologia della vita militante di Eugenio.**
Altri che lo conobbero più profondamente lo stanno facendo (Gigi Poletto mi pare stia scrivendo un libro, Alberto Galeotto conserva una decina di interviste registrate e sicuramente l’ANPI vicentina saprà recuperare e valorizzare il suo vasto archivio).
A me, come capita sempre più spesso in queste tristi circostanza, succede di riandare con la memoria a ricordi magari “minimalisti”, episodi frammentari, immagini di situazioni…in cui le figura del compagno Eugenio, bonaria ma determinata, si staglia quasi in controluce. Credo di averlo conosciuto esattamente 50 anni fa, alla manifestazione unitaria per la strage di Brescia quando c’eravamo veramente tutti, dagli anarchici alla CISL.
L’ultima volta che abbiamo conversato un po’ più a lungo eravamo di fronte alla libreria Galla, da dove si scorge nitidamente un’opera palladiana rimasta incompiuta. Proprio il luogo teatro di un rischioso trafugamento di armi. Quindicenne spavaldo, si era poi allontanato spingendo un carretto stracarico di mitra e fucili (ma dopo averli ben mimetizzati, mi pare con dei sacchi) sotto il naso dei soldati. Una storia che conoscevo, ma che raccontata praticamente “in loco” assumeva tutt’altra valenza (sia per quanto riguarda il “passaggio di testimone” tra generazioni, sia per la continuità storico-territoriale di una città medaglia d’oro alla Resistenza).
Senza dimenticare le molteplici occasioni in cui esponeva le sue mostre - accuratissime -sulla Guerra di Spagna, sulla storia del sindacato, sulla Resistenza…
Sia alle feste dell’Unità che a una di DP (negli anni ottanta al Parco Querini, visitata dal comandante TAR, Ferruccio Manea)***.
O un’altra, patrocinata dal Comune, nella prestigiosa Loggia del Capitaniato.
Fu lui a farmi conoscere Visentini Ferrer, volontario nella Brigate Internazionali che in seguito avrei anche intervistato.****
Di Eugenio, altrettanto fermo nelle sue idee che disposto al dialogo con chiunque, va sottolineata la grande capacità di ascoltare.
Per esempio nel 1995 lo invitai a una iniziativa sui Paesi Baschi organizzata dalla Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei popoli in Saletta Lampertico. Tra i relatori, il giornalista di Radio popolare e di Radio tandem Giovanni Giacopuzzi, Luciano Ardesi, lo storico basco Inaki Egana e l’esponente delle Gestoras Pro Amnistia(ed ex prigioniero politico ) Gari Arriaga.
Erano i giorni del ritrovamento in una fossa riempita di calce dei resti mortali, torturati e straziati, di due etarra, Laza e Zabala, sequestrati ancora nel 1983 dallo squadrone della morte paramilitare (o anche parastatale) denominato GAL.
Ma appunto eravamo negli anni novanta. E ormai la sinistra, quella stessa sinistra che all’epoca del processo di Burgos (1970) aveva parole di elogio per la lotta antifranchista del popolo basco, preferiva girare la testa dall’altra parte di fronte alle violazioni dei diritti umani (sparizioni, torture, repressione…) in Euskal Herria. Soprattutto da quando governavano i socialisti di Gonzalez.
Eugenio Magri ovviamente espresse la sua critica in merito alla lotta armata di ETA (ritenendola non solo moralmente sbagliata, ma anche controproducente dopo la morte di Franco), ma non si tirò indietro nel condannare i metodi usati da Madrid. La discussione, sostanzialmente amichevole, tra compagni, si protrasse talmente a lungo che alla fine gli ultimi sei o sette rimasti (oltre ai relatori e al sottoscritto, Magri e Moret) vennero letteralmente “cacciati” dal responsabile della saletta. E comunque continuammo discutere anche in strada, sotto i portici. A distanza di qualche anno Inaki e Gari mi chiedevano notizie del “compagno comunista vicentino”. Ne erano rimasti colpiti molto positivamente quando era intervenuto sulla Guerra Civile Spagnola (ben sapendo come i baschi versarono - sia durante che dopo - sangue, dolore e lacrime come pochi). Ecco direi che in questa capacità di Eugenio di empatizzare anche con chi si trovava su posizioni diverse politicamente, stava una sua caratteristica peculiare.
Lo sperimentai anche quando uscì il film di Ken Loach “Terra e Libertà”. Per lui, vecchio militate comunista, poteva apparire forse eccessiva la critica al PSUC per i fatti di Barcellona, ma anche qui non si tirava indietro. “L’importante- mi aveva detto - è che se ne parli, capire, confrontarsi”. Se necessario rimettere in discussionequanto fino allora veniva dato per scontato in gran parte della sinistra sia istituzionale che extraparlamentare. Come ho già ricordato, il mantra “con voi faremo come in Spagna” (in riferimento al maggio ’37) me lo sentivo ripetere tanto da quelli del PCI che da quelli di Potere Operaio (e anche da parecchi di Lotta Continua se è per questo, anche se adesso raccontano di essere stati “luxemburghiani”).
Diciamo che invece quello di Eugenio Magri era proprio “un altro stile” (e sto citando Camillo Berneri).
Gianni Sartori
nota 1: https://www.veliber.org/archivio/Arivi...
** nota 2: https://www.noipartigiani.it/eugenio-magri/
** *nota 3”: https://www.anpi-vicenza.it/ferruccio-...
**** nota 4: https://www.anpi-vicenza.it/ferrer-vis...
Gianni Sartori - 30/5/2024 - 14:33
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