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Markos Vamvakaris / Μάρκος Βαμβακάρης


Markos Vamvakaris  / Μάρκος Βαμβακάρης

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"Zeimbekiko" composto da Markos Vamvakaris," Frangos", nel 1935. Sembra che la fonte originale del testo risalga al periodo della monarchia bavarese, e che il testo primitivo di Vamvakaris sia stato modificato in ossequio alla censura di Metaxas. Anapli è il nome popolare di Nafplion (la Napoli di Morea dei Veneziani), in uso prima che il classicismo patriottardo (...e di importazione bavarese, come l'architettura pubblica) facesse recuperare i toponimi dell'antichità: es. Sounion per Kabo Kolones. In seguito in Greci continuarono senza l'aiuto dei Bavaresi: Monte Ida per Psiloritis, Iraklion per Hanià, e mille altri. Il mio amico Barba Yannis, contadino argolico (o argivo ?) nato nel 1901, quando voleva andare a Nafplion diceva: "Pame st' Anapli", mentre io dicevo "Pame sto Napflio". "Ghendikoulé" (dal turco: le sette torri) è la fortificazione-prigione di Saloniki, ora Thessaloniki.
Riproposto in disco nel 1960 con la voce di Bithikotsis e poi interpretato da Sotirìa Bellou e più recentemente da Yorgos Dalaras.

Στίχοι: Μάρκος Βαμβακάρης, Φράγκος
Μουσική: Μάρκος Βαμβακάρης, Φράγκος
Πρώτη εκτέλεση: Μάρκος Βαμβακάρης, Φράγκος
Άλλες ερμηνείες: Γρηγόρης Μπιθικώτσης || Γιώργος Νταλάρας
Αντιλαλούνε οι φυλακές
τ' Ανάπλι και Γεντί Κουλές

Αντιλαλούνε τα σήμαντρα
Συγγρού και παραπήγματα

Αν είσαι μάνα και πονείς
έλα μια μέρα να με δεις

Έλα πριν με δικάσουνε
κλάψε να μ' απαλλάξουνε

inviata da Gian Piero Testa - 1/4/2010 - 22:49



Lingua: Italiano

Versione italiana di Gian Piero Testa

Testo, musica e prima esecuzione di Markos Vamvakaris, "Frangos", 1935
Altra interpretazione: Grigoris Bithikotsis, 1960.
Il simandro è una sbarra di ferro o di legno che nelle chiese greche e in diversi culti dell'Asia viene percossa per richiamo, e vale come la campana in occidente. Penso che, in questo caso, ad essere percosse come simandri siano le sbarre delle prigioni. Il viale (leofòros) Singroù è la lunga arteria, oggi un po' meglio edificata, che collega Atene, dall' Arco di Adriano, al Pireo.
RIMBOMBANO LE PRIGIONI

Rimbombano le prigioni
Di Anapli e del Ghedì-Koulès

Risuonano i simadri
e le baracche del Singroù

Se sei madre e se soffri
vieni un giorno a trovarmi

Vieni prima del giudizio
Piangi, che mi credano innocente

inviata da Gian Piero Testa - 2/4/2010 - 14:57


Potrebbe interessare a qualcuno conoscere qualcosa sul personaggio di Andreas Singròs, cui è intitolato il grande viale che collega Atene al Pireo.
Fu uno dei più ricchi Greci del XIX sec., originario di Costantinopoli, e visse dal 1828 o 1830 al 1899. Di lui si ricorda la fondazione di diversi importanti istituti di credito e soprattutto l'incessante azione di filantropo e di pubblico benefattore. Gli si devono i Musei di Delfi e di Olimpia, diversi ospedali, il Teatro di Atene, il collegamento stradale tra Atene e il porto, e anche la costruzione delle carceri che gli furono intitolate. Di lui sono meno ricordati, oggi, il coinvolgimento in un grande scandalo finanziario e i condizionamenti che riuscì a esercitare sulla politica nazionale. Fu a lungo deputato dell'isola di Siro.

Gian Piero Testa - 2/4/2010 - 15:26


Ho trovato, tempo fa, questa breve trattazione del genere musicale greco detto "laikò tragoùdi". Penso che potrebbe essere utile per chi non si orienti troppo ancora nel complesso mondo della canzone greca. L'ho tradotto (un po' alla buona) e lo colloco qui, sotto un autore fondamentale della corrente rebetica, in modo da potervi indirizzare i visitatori, ogni volta che sembrerà necessario alla comprensione di un autore o di un pezzo: una cosa che a scuola viene chiamata "testo di riferimento". Se poi gli amministratori sanno escogitare una collocazione più idonea, facciano pure, che io li benedico. (gpt)


BREVE STORIA DELLA CANZONE POPOLARE GRECA (LAIKO' TRAGOUDI)
(Traduzione da:
Kostas Balahoutis: Istorìa tou laikoù tragoudioù, Atene, ed. Victory 2009.
Excerptum pubblicato nel sito web della stazione radiofonica greca derti 98,6)

Agli inizi del XIX sec. si sviluppano vistosamente i trasferimenti di popolazione dalla periferia e dai villaggi verso i grandi centri urbani e portuali del territorio ellenico: Atene, Pireo, Ermoupolis, Volo, Patrasso, Salonicco, ecc. I migranti interni di solito si concentrano nella periferia delle città mentre molti di loro trovano difficoltà di inserimento nella nuova condizione poiché il famoso decollo industriale si realizza in modo non lineare e con ritmi più lenti rispetto all'Occidente, dai capitali del quale sostanzialmente è sostenuto. Gli strati poveri e inferiori, conservando e sviluppando la loro cultura orale (abitudini, usi, costumi, regole di comportamento), creano i loro propri modi d'espressione, di ideologia, e di sopravvivenza nei centri metropolitani, dove si dispiega e prende forma la canzone detta rebetica poiché la musica popolaresca e i modi di cantare europei non riescono a funzionare come un prodotto di largo consumo di musica popolare.
Il rebetico nasce nelle prigioni dello stato greco di recente formazione.
Nel 1891 Andreas Karkavitsas sulla rivista Hestía , descrivendo le proprie impressioni di un suo recente soggiorno nella Morea (il Peloponneso NdT), riporta una serie di canzoni rebetiche della quotidianità carceraria che i prigionieri cantavano nel Palamidi (Fortezza di Nauplia. NdT). Nei suoi primi passi il rebetico funziona come canzone popolaresca, dalla quale mutuò molti elementi. Gli autori sono anonimi e empirici. La sua originaria melodia anatolica lievitò con il temperamento greco, incorporando tonalità sonore tradizionali, bizantine, dell'Arcipelago e delle Sette Isole. Si potrebbe dire che il cammino della canzone popolare - in senso lato - si accompagna al decollo tecnologico e alla invenzione della riproduzione discografica e dell'incisione, poiché grazie a questa abbiamo testimonianze che indirizzano la relativa ricerca musicologica e le conclusioni che ne risultano. Già dal 1904 a Salonicco si realizzano le prime incisioni di dischi la cui elaborazione avviene all'estero. Situazioni analoghe riscontriamo a Smirne, a Costantinopoli - dove vivono grandi settori di popolazione ellenofona - così come negli USA, dove l'ampiezza del flusso migratorio contribuisce alla fondazione di compagnie discografiche di base greca (Panhellenion Record, Grecophon, ecc.) cui segue l'importazione nel mercato greco dei dischi da loro prodotti.
L'origine del termine rebetico si riconduce al periodo del dominio turco, e allude al disordinato, all'indisciplinato, al disadattato e "fuori regola". Nelle prigioni i condannati accompagnavano le loro canzoni con baglamàs costruiti da loro stessi - la loro minuscola dimensione ne agevolava la confezione e l'occultamento - che allestivano in loco utilizzando frammenti di legno, fili di ferro, interiora di animali. La presenza del buzuki e del baglamàs nel Mediterraneo orientale ha le sue radici nei tempi più antichi. Per questo l'accordatura e le scale musicali combaciano con l'armonia bizantina, araba e indiana e con i fraseggi arcaici e non si basano su scale occidentali.
Nei primi due decenni del XIX sec. il rebetico esprime la canzone popolare marginale delle periferie delle città e caratterizza compagnie come i manghes e i koutsavàkides (1) che, rifiutando ogni costrizione del potere ufficiale dello stato, vivono in armonia con loro proprie leggi e valori non scritti. Frequentano le fumerie, baracche e piccole stanze dove con narghilé di loro fattura fumano hashish ascoltando canzoni e musiche eseguite da suonatori ambulanti o avventori che si dilettano in queste abitudini, poiché spesso i significati di mangas e di rebetis coincidono.

Nel 1922 dopo lo sfortunato risultato della spedizione anatolica e il forzato scambio di popolazioni che ne seguì, un milione e mezzo di profughi raggiungono la Grecia aumentando di circa un quarto la popolazione del paese e provocando una profonda crisi economica e sociale, poiché il loro regolare inserimento va incontro a tremende difficoltà. I profughi portano con sé il soffio cosmopolitico di Smirne e dell'Anatolia Occidentale e un idioma musicale più sviluppato e ancor più ricercato. Si aprono nuovi locali , i famosi Café Chantant (già ce n'erano ad Atene, ma in numero minore e in forma differente), dove gli abilissimi cantanti di aman (2) mandano in visibilio l'appassionata clientela e i lieviti del rebetico e del linguaggio microasiatico interagiscono in modo decisivo in entrambi i generi. La severa struttura del secondo diventa più sciolta e ritmica.
Nel decennio 1922-1932 dominano gli stili di Smirne e di Costantinopoli. Loro rappresentanti come il violinista Dimitris Semsis (ovvero il Salonikiòs) e il polistrumentista Spiros Peristeris vengono assunti in ruoli dirigenti rispettivamente nelle compagnie Columbia e Odeon. I nomi principali dell'epoca sono Adonis Diamandidis (ovvero Dalgàs), Roza Eskenazi, Rita Ambatzì, Kostas Marselos (ovvero Nouros), Stellakis Perpiniadis , Yorgos Kàvouras, Kostas Roùkounas (ovvero il Samiotakis), Evànghelos Sofronìou e altri. I compositori anatolici: Kostas Skarvellis (ovvero il Pastourmàs), Kostas Karipis, Grigoris Assikis, Yannis Dragatsis (ovvero l' Ogdondakis), Yovàn Tsaoùs (Yannis Eitziridis), Vanghelis Papàzoglou, Panayotis Toudas e altri costituiscono esempi luminosi di talento, di sensibilità raffinata e di sapienza musicale: mentre dagli inizi degli anni Trenta si installa e funziona a Perissò, come ramo della Grammophone britannica, una unità di produzione di dischi che incrementa il mercato discografico greco in quanto precedentemente le incisioni avvenivano nelle camere d'albergo e la produzione all'estero.
Fattore decisivo per il brusco e forzato "silenzio" degli autori della scuola smirneica negli anni del dopoguerra sarà la scomparsa di molti tra quelli più celebri negli anni dell'occupazione e indubbiamente l'inedita marcia del rebetico pireotico, per tappe manifestamente crescenti a partire dai primi anni del decennio 1930.

Patriarca del rebetico e colonna della canzone popolare (questa costituisce uno sviluppo del primo) fu Markos Vamvakaris. Nato il 10 maggio del 1905 ad Ano Hora di Siro, arriva nel 1917 al Pireo, dove lavora dapprima come scaricatore di porto e successivamente come scorticatore ai macelli. Cominciò a suonare il buzuki nel 1925 durante il servizio militare. Frequenta le ouzerie e le fumerie del Pireo, che in quegli anni è considerato il centro della povertà, dell'illegalità, delle droghe e della prostituzione, dove fa la conoscenza con i suoi compagni di strada Yorgos Batis, Stratos Payoumtzìs (ovvero il Tembelis), Dimitris Gogos (ovvero il Bayadera), Stelios Keromitis, Anestis Deliàs (ovvero Artemis), Stelios Kridàkias, Mihalis Yenitsaris.
Nel novembre del 1932 incide la sua prima canzone dal titolo «Εφουμέραμε ένα βράδυ» (Fumavamo una sera) presso la Columbia. Seguiranno altre incisioni: «Ο μαστούρης» (Il drogato)», «Μόρτισσα χασικλού» (Guappa strafatta), ecc. che tuttavia non vengono spinte dai responsabili della compagnia, probabilmente per il loro contenuto "pesante" ed anche per le orchestrazioni nelle quali dominano i buzuki e baglamàs, considerati strumenti dei bassifondi, delle prigioni e delle fumerie. Passa alle compagnie concorrenti Odeon-Parlophone di Minoas Matsas dove registra: «Καραντουζένη, «Χαρμάνης», «Δερβίσης» ecc. le quali realizzano significative vendite e aprono la strada all'inserimento del buzuki e del rebetico nella produzione di dischi. E' caratteristico che la Columbia e la sua collegata La Voce del Padrone, vedendo il successo di Markos lo invitino a rispettare il contratto iniziale che aveva con loro per un determinato numero di canzoni. Così incide per loro circa 24 canzoni- tra le quali anche «Φραγκοσυριανή»e ritorna a Odeon-Parlophone cui è legato il corpo principale della sua opera.
Nell'estate del 1934, con Batis, Payoumtzìs e Deliàs dà vita al primo complesso rebetico, il celebre Quartetto del Pireo e per circa sei mesi si esibisce al Mandra di Sarandopoulos, a Drapetsona, dando esca alla formazione di altri complessi, con i buzuki e i baglamas come principali strumenti, che avrebbero rapidamente inondato anche gli altri centri urbani del paese.
Alla fine degli anni Trenta Markos è il più significativo e commerciale autore e interprete della discografia greca. In molte sue canzoni utilizzò motivi e temi musicali che si riconducono alla canzone popolaresca. Ma il modo in cui organizzò e riprese gli elementi della tradizione conferì alla sua opera un carattere singolare e un sigillo incancellabile. A lui principalmente si deve che il buzuki e la quotidianità della gente del popolo del suo tempo passassero nella discografia.

Alla fine degli anni Trenta - con il passaggio nodale della censura e della proibizione dell'incisione di canzoni dal contenuto riguardante l'hashish e la vita dei manghes - Vassilis Tsitsanis, Yannis Papaioannou, Apostolos Hatzihristos creano con i loro magici plettri - tutti e tre furono importanti suonatori di buzuki - forme musicali prevalentemente melodiche, artistiche e studiate. Le loro canzoni hanno profonde radici rebetiche che si collegano a una propensione al canto e a una dimensione polifonica mentre racchiudono una tematica sociale differente, e gettano le fondamenta per la creazione della classica canzone popolare. Il primo, specialmente, sino al termine della sua vita (18/1/1984) avrebbe rivestito il ruolo principale nella sua formazione e nel suo sviluppo con le canzoni consacrate da Marika Ninou, Sotirìa Bellou, Stella Haskìl, Ioanna Gheorgakopoùlou, Prodromos Tsaousakis, Takis Binis ecc.

Dopo la fine dell'occupazione tedesca e la ripresa degli studios a Rizoupolis, una nuova generazione arriva sulla scena. Compositori come Stelios Hrissinis, Apostolos Kaldaras, Manolis Hiotis, Yorgos Mitsakis, Theòdoros Derveniotis, Babis Bakalis, Yerassimos Klouvatos, Yorgos Lavkas, Kostas Kaplanis, Vassilis Karapatakis ecc. e ispirati parolieri, la maggior parte dotati di educazione e di cultura in rapporto all'epoca, come Haràlambos Vassiliadis (ovvero il Tsandas), Eftihìa Papayannakopoùlou, Hristos Kolokotronis, Kostas Manèssis, Kostas Virvos, Dimitris Goutis, Nikos Mourkakos, ecc. tratteggiano la buia atmosfera del periodo successivo alla guerra civile ma anche la dura realtà quotidiana sopra le rovine della guerra. Si distingue la stella, la fluente gamma interpretativa di Stelios Kazantzidis. Primo tra pari costituisce la punta di lancia di una pleiade di cantanti carismatici che saranno consacrati come interpreti del punto di vista, della percezione e della condizione di vita popolare: Grigoris Bithikotsis, Manolis Anghelopoulos, Vanghelis Perpiniadis, Panos Gavalàs, Spiros Zagoreos, Stratos Dionisiou, insieme alle signore Keti Grei, Yota Lidia, Poli Panou, ecc.

Ormai, dalla metà degli anni Cinquanta, Manolis Hiotis (1920 - 1970) compie la sua "rivoluzione" musicale trasformando il buzuki tricordo in tetracordo, estendendo e dilatando le capacità melodiche, l’armonia e le modalità sonore del tradizionale strumento. Con le sue influenze jazzistiche e latinoamericane tracciò percorsi melodici che furono ripresi da numerosissimi interpreti e compositori. Con la sua raffinatezza, il suo aspetto irreprensibile e la nobiltà della sua presenza della stampa ufficiale se non con il sostegno di determinate personalità illuminate, come Manos Hatzidakis.
Hiotis collaborò strettamente con il paroliere Hristos Kolokotronis lasciando per il repertorio bellissime canzoni: «Salonicco mia», «Stasera baciami», «Ragazzo ricco», «Te ne andasti e mi lasciasti», «Uccidimi», «Tu non sei un essere umano», «L’ho cacciata eppure l’amo» ecc., mentre diede un grande apporto all’orchestrazione delle prime canzoni popolari di Mikis Theodorakis («Epitaffio», «Città»). Si trovò maestro alla Columbia e insieme a Tsitsanis, sul principio degli Sessanta, il più attivo a riproporre l’esecuzione – e a salvarla per le nuove generazioni - di una grande parte del vecchio repertorio dei grandi interpreti popolari dell’epoca. Insieme a Meri Linda formò un duo tra i più popolari, una consuetudine che diede notorietà agli artisti e fece centro nel “pubblico”, mentre parallelamente giovava anche alla discografia per quanto concerne le seconde voci.
Altri storici duo, in ordine cronologico, dapprima negli anni Cinquanta e in seguito nei Sessanta: Tsitsanis-Ninou, Papayoanni-Dalia, Mitsakis-Hrissafi, Kazantzidis-Marinella, Gavalàs-Ria Kourti, Perpiniadis-Ria Norma, Anghelopoulos-Annoùla, Spiros e Zoì Zagoreou, ecc.
Sul lato della cosiddetta leggera, Nikos Gounaris, Fotis Polimeris, Tonis Maroudas, Sofia Vembo, Maya Melaya, Kàkia Mendri, ecc., conservano la loro popolarità ma il genere è in affanno e sposta il suo peso verso lo stile rebetico nobilitato e rivistaiolo grazie alla vena di Mihalis Souyioul, di Alekos Sakellarios, di Kostas Yannidis, di Yorgos Mouzakis, di Kostas Kofiniotis ecc.. Una nuova spinta verso la “leggera” avrebbero dato Yannis Voyatzìs e Tzeni Vanou, due interpreti veramente carismatici, che avrebbero deviato su se stessi le luci dell’attualità, prolungando la vita di una scuola la cui importanza, l’offerta e l’attività creativa dei suoi collaboratori probabilmente non è stata valutata con criteri corretti e obiettivi.

Verso la fine degli anni Cinquanta abbiamo l’estinzione dei disco a 78 giri e il passaggio ai 45 giri.

La dinamica apparizione di Manos Hatzidakis e di Mikis Theodorakis allarga gli orizzonti, le forme e le modalità artistiche della canzone, in senso lato, “popolare”.
Theodorakis dando veste musicale a “Epitaffio” di Yannis Ritsos traccerà un’epoca nuova nelle opere musicali greche. Introduce la poesia nella canzone popolare, ma anche la forma del ciclo di canzoni, con gli interpreti e i virtuosi come solisti che con la loro arte stanno al servizio dell’insieme dell’opera. Contemporaneamente, i concerti popolari diventano una mezzo di comunicazione con il pubblico, ma anche una modalità di divertimento, di educazione e di espressione.
Hatzidakis con il suo atteggiamento severo, eclettico e “aristocratico”, sta in disparte dalle masse e dai meccanismi di proiezione, e spesso dalle sue stesse testimonianze… Ma la dinamica delle sue canzoni è tanto grande che funzionano in modo distruttivo. Le sue influenze dalla musica europea vengono filtrate al crivello della sonorità tradizionale e sono transustanziate con sapienza, talento, chiarezza e audacia in suoni che grazie anche alla scrittura assolutamente aderente di Nikos Gatsos distruggono i recinti e la scrittura data delle canzoni popolari.
Ideale costruttore di ponti degli anomali segnali della scuola dei Theodorakis-Hatzidakis, Stavros Xarhàkos. Sulla parola di Lefteris Papadopoulos nella prima fase e di Nikos Gatsos nella prosecuzione, Xarhàkos firma importanti e durevoli canzoni con sorprendenti alternanze nella scrittura musicale e virtuosistiche orchestrazioni che lo erigono a degno compagno di strada dei due grandi.
Ma anche altri dotati compositori presero il testimone e diedero nuovo respiro alla musica d’arte nel vero senso della parola: Manos Loizos, Hristos Leondìs, Dimos Moutsis, Yannis Markopoulos, Yannis Spanòs – sul soffio del quale si sostenne un grande e importante pezzo del Neo Kima (Onda Nuova) -, Stavros Kouyoumtzìs, Loukianòs Kilaidonis.
Un cenno a parte è necessario per Mimis Plessas che a partire dagli anni Cinquanta ha una vigorosa presenza nella canzone leggera e moderna e una tappa dopo l’altra la portò con luminosi risultati nella canzone popolare e d’arte, firmando canzoni alle quali il tempo dà ogni giorno le risposte ricoprendole con il manto del classico e del diacronico. La maggior parte dei succitati musicisti ebbe la buona sorte di collaborare con il paroliere Lefteris Papadopoulos, un autore la cui spontaneità, la semplicità, e l’ininterrotta presenza produttiva combinata all’accoglienza delle canzoni da parte della gente, lo consacrano come la principale penna della canzone popolare dagli anni Sessanta sino ai nostri giorni, nei quali continua a restare ai vertici e produttivo.

Agli inizi del decennio del Sessanta abbiamo le prime circolazioni di grandi dischi a 33 giri mentre nel 1964 si inaugurano nello stabilimento di Rizouli nuovi studios multicanale che forniscono agli interpreti e agli strumentisti la possibilità di già incidere separatamente, e non tutti insieme contemporaneamente, come fino allora era accaduto.
Parallelamente i locali popolari incominciano a perdere il loro carattere autentico, il loro tono e la loro filosofia e si allontanano dal modello originario e dalle esigenze che li avevano fatti nascere. I più significativi cantanti popolari continuano a produrre successi, ma di minore portata artistica e commerciale. Sopra ogni cosa c’è l’ansia del successo, mentre predomina un impaccio e una debolezza nell'esprimere il nuovo assetto sociale. Ma anche le stesse compagnie desiderano prendere le distanze dal classico suono popolare e si volgono verso un più moderna, molto leggera, “contraffatta” canzone popolare e verso direttrici di maggior valenza artistica.
La situazione nella notti, con la completa o prevalente dipendenza dei “centri” dalle “mafie” e dai guappi e le pericolose irrequietezze costringeranno Stelios Kazantzidis ad abbandonare il palcoscenico popolare nel 1966, a soli 34 anni d’età.
Le forme che si distinguono sono quelle di Yorgos Zambetas – la cui notorietà letteralmente vola anche grazie all’intensa partecipazione a produzioni cinematografiche dell’epoca dove i compositori e i cantanti sono utilizzati come polo d’attrazione si distinguerà per il tono – e del “filosofo” Akis Panou con principali interpreti gli Stelios Kazantzidis, Stratos Dionisiou, Viky Moskolioù, Mihalis Menidiatis, Manolis Mitsiàs. Panou si distingue per il suo tono introverso, tanto nella composizione ma soprattutto nella parola, dando profondo e coinvolgente respiro alla canzone popolare ortodossa – il cosiddetto buzukotràgudo (la canzone col buzuki) – sorprendendo pubblico e critica con il suo pensoso punto di vista. Vengono consacrati Yorgos Dalaras e Haris Alexìou con composizioni di Vassilis Vassiliadis, Yorgos Mitsakis, Apostolos Kaldaras ( insieme ripropongono l’Anatolia e il Vespro Bizantino dai principali LP del compositore e della discografia greca), Stavros Koyoumtzìs, Manos Loizos, Yannis Spanòs ecc. e una serie di canzoni rebetiche nel quadro della resurrezione di un determinato genere. Entrambi gli interpreti costituiscono la continuazione nella contemporaneità dei grandi bardi del passato. Il primo in particolare con la sua decisione di abbandonare le sale da ballo e di passare alla canzone popolare in ambienti di audizione concertistica, ma anche con le sue scelte nella discografia, e il sostegno che avrebbe dato generosamente a nuovi interpreti e autori, è proclamato nella sua cerchia modello e punto di riferimento. Yannis Markopoulos con il suo principale interprete Nikos Xylouris è alla testa del movimento musicale Επιστροφη στις ριζες (Ritorno alle radici) con meravigliosi esempi della sua concezione musicale d’avanguardia.
Nella melodia puramente popolare Hristos Nikolòpoulos firma su versi di Pythagòras i nuovi successi di Kazantzidis: «Ritorno dalla notte», «Fiore selvatico», «Venerdì sera» fino all’album eccezionale di 33 giri «Esisto» nell’anno 1975, che costituisce anche l’ultimo lascito del bardo nella discografia fino al 1987, quando farà ritorno, dopo dodici anni di assenza, alle cose musicali.
Grigoris Bithikotsis, a causa della forzata assenza di Hatzidakis e di Theodorakis negli anni della dittatura ricorda il suo talento di compositore che lo consacrò agli inizi del 50 e collaborando con Virvos offre frutti maturi: «All’ouzeria Bel-Ami», «Un bella carrozza con due cavalli», «Fa’ una buona giocata, ecc. La stella di Mimis Plessas illumina la strada di Tolis Voskopoulos, Yannis Poulopoulos, Tzeni Vanou, Marinella ecc. soprattutto su testi del fecondissimo Lefteris Papadopoulos, la cui penna domina la discografia contemporanea. Dimitris Mitropanos suscita speciale sensazione con «San Febbraio» di Dimos Moutsis e Manos Eleftherìou, ma anche una serie di forti momenti popolari di Tasos Moussafiris, Spiros Papavassilìou, Tassos Ikonomou ecc. e le «Vite dei Santi» su musica di Hatzinasios e versi di Bourboùlis, Doumos e altri.
Nuove presenze si aggiungono alle “signore” del campo. Doùkissa aderisce alla nuova situazione con composizioni di successo di Moussafiris, Rita Sakellarìou del pari dà vita a robusti zeimbekiki e non solo, Litsa Diamandi su un tono più moderno e da ballo e dall’altra parte Dìmitra Galani soprattutto su percorsi “d’arte”. Alle due sponde della stesso fiume attinge l’interpretazione di Viky Moskolioù nelle sue ispirate scelte di repertorio.
Nel campo dei parolieri la scrittura di Manos Eleftherìou comincia con il dare molteplici corposi esempi della particolarità dell’autore, che nonostante la loro poetica artistica e la trama assolutamente personale vengono ben accolti dalla gente. Eleftherìou con l’attività fino ai nostri giorni costituisce da solo una scuola della quale sfortunatamente non scorgo i prosecutori.
Sul finire degli anni Settanta l’accusa di venalità e le insinuazioni che ne seguirono di Nikos Xydakis, Manos Rasoulis, Takis Simotas nei confronti di Nikos Papàzoglou e Dimitris Kondoyannis sotto la copertura di Dionisis Savvopoulos avrebbero rinnovato l’ormai saturo suono popolare. Nel decennio Ottanta le cosiddette compagnie (Ateniese, I ragazzi di Patrasso, I Retromarcia) – dalle quali si sarebbe rivelata Eleftherìa Arvanitaki ecc. - riproporranno con freschezza e partecipazione una serie di canzoni tra le più vecchie, ma il fenomeno si trasformerà in moda con conseguente snaturamento e commercializzazione.
Con musiche di Takis Soukas, che ricalcano fortemente la canzone popolare e tradizionale con una tematica sentimentale accordata alle abitudini dei nuovi tempi, Kostas Kòlias, sfonda con «Amore mio incurabile» e altre “fondamentali” promesse, ma sfortunatamente lo coglie la morte. Nell’abbraccio melodico di Soukas, Yorgos Margaritis troverà l’approccio adatto e dagli inizi del decennio Ottanta prenderà il posto che gli conviene nel cuore di quanti amano la canzone popolare, con la parola dai significati gravi, nell’essenza e nel carattere, in un periodo in cui tutto si fa irrimediabilmente sempre più leggero.
Glykerìa dimostra la grande estensione della sua gamma con le canzoni classiche tradizionali e smirneiche, e si identifica con loro a tal punto, che ancor oggi costituiscono una parte integrante della sua personalità e delle sue apparizioni dal vivo.
Yannis Parios darà alle canzoni delle isole (Nisiotika) un’iniezione ricostituente con i suoi accurati approcci ad esse, mentre firmerà come autore composizioni che vengono rilanciate da molti protagonisti popolari.
Eléni Vitali all’inizio con canzoni tradizionali e in seguito con canzoni autenticamente popolari dimostra la piena continuazione dell’aurea scuola del Laikò.
Hristos Nikolòpulos si afferma come degno continuatore dei grandi compositori del genere con una serie di forti realizzazioni: «I governi cadono ma l’amore resta», «Suona, Hristos, improvvisando», «Gli autotreni», «Canzoni per gli amici», «Il Salonikiota», ecc. Nell’ultimo LP è interprete Stratos Dionisìu, il quale ritorna agli inizi degli anni Ottanta e monopolizza la prima linea dell'attualità per l'intera durata del decennio.

Nella musica d'arte sono casi a parte quelli di Thanos Mikroutsikos e di Stamatis Kraounakis, che tra l'altro incideranno canzoni molto laikà che sarebbero state amate e cantate dalla gente e che restano come classiche gemme reggendo lo sguardo del luminoso passato del genere. Il primo, appoggiandosi sulla poesia di Nikos Kavvadias e sulla scrittura di Alkis Alkeos, e il secondo sulla personalissima penna di Lina Nikolakopoùlou, la quale costituisce anche una autonoma scuola che ha rinnovato le certezze e gli ermetismi della parola.
Parimenti si è mosso il compositore Marios Tokas, che si librò con abilità tra i due poli. Purtroppo il cipriota ci ha immaturamente lasciati da non molto tempo.
Contemporaneamente, sempre nel decennio Ottanta e procedendo verso i nostri giorni, sulla sponda del Laikò, che ci siamo ormai abituati a identificare con la canzone nella quale il buzuki ha il ruolo principale, dominano autori come Takis Soukas, Thanassis Polikandriotis, Alekos Hrisoverghis, Spiros Yatràs, mentre irrompono con maggior forza interpreti come Makis Hristodoulopulos, Pitsa Papadopoùlu, Katerina Stanissi, Leonìdas Velìs, Stamatis Gonidis, Paskalis Terzìs, Vassilis Karràs, Notis Sfakianakis, e più tardi Ploùtarhos. Chi lancia un ponte tra le due rive è Adonis Vardìs con il suo carattere e il suo suono.
Con il passare degli anni e grandi cantori e autori del Laikò si ritirano e muoiono lasciando un vuoto incolmabile. Forse oggi il fatto che non esista un Laikò con il significato del passato dipende dall'essere venuti meno i gruppi sociali e i bisogni che gli diedero vita imprimendogli una funzione omogenea e unificante. I più giovani artisti tuttavia in attività nei nostri giorni e i più vecchi che rispondono "presente", oltre al sempre crescente amore della gente che ritorna maniacalmente al suono laikò in collegamento con una nuova generazione di buoni buzukisti in ascesa, costituiscono la garanzia per la perpetuazione e lo sviluppo della qualità che si è identificata con il temperamento popolare, la sua particolarità, la sua forza, e la sua espressione. Certo i tempi sono cambiati...La vita va avanti per la sua strada. Di canzoni in ogni caso non si smetterà mai di scriverne e sempre torneranno al passato, rovistando in vetrine polverose, in magazzini, solai, piccoli dischi che non ascoltammo o che non apprezzammo a dovere. E tra quelle scelte risulteranno anche gemme dimenticate...che verranno ad aggiungersi alle nuove mentre il presente diventerà passato.

(1) I manghes non esistono più, li ha schiacciati il treno, dice una canzone popolare. Però i manghes, come i rebetes e i mortes, continuano a vivere nella canzone popolare greca in quella sorta di berbantià (parola facile per gli italiani: deriva dal nostro "birbante") che sempre si annida nelle sue pieghe, per quanto sia stata rimaneggiata e rinnovata. Non saranno più gli stessi degli slum degli anni Venti e Trenta; ma un po' della diffidenza verso tutti i poteri alti - e una certa autonomia dai medesimi - ci vuole, se no è inutile chiamarla canzone popolare. Allora, un poco di storia e di parafilologia. Il centenario regno dei manghes sul Pireo non tanto è stato estinto dal treno, quanto dalle guerre che in Grecia si sono susseguite dal 1940 al 1950. In quel decennio ben altri poteri vi imperversarono, e assai più duramente. Spesso il termine mangas è stato scambiato con quello di mortis. Da quello che dicono i più, mortis viene dall'italiano e addirittura dal medio evo, quando la grande peste nera della metà del XIV sec. falcidiava le genti d'Europa. Non bastando più i pubblici poteri a seppellire le vittime, i privati ricchi chiamavano la canaglia a prestarsi, dietro pagamento, a seppellire i suoi morti. Insomma, qualcosa come i monatti manzoniani che, neppur loro, erano stinchi di santo. In quel secolo le lingue italiane dominavano nel Levante e nell'Arcipelago; e gli addetti alla sepoltura dei morti furono detti mortes e siccome non era gente raccomandabile, ogni canaglia poté essere chiamata mortis Per di più si organizzavano in squadre dette mortarìes e fecero, in quelle circostanze, assai quattrini e diventarono guappi. Il diminutivo mortaki può ancora avere il senso letterale o metaforico di "monello", "scugnizzo", ragazzino della strada. Però mortis e mangas, quanto alla loro origine, non hanno nulla in comune. Mangas avrebbe in sé addirittura un che di nobile ed eroico. La parola riconduce alla lingua dei Turchi, i quali anche in questo modo indicavano i combattenti non inquadrati in formazioni militari regolari. Ma quando cominciò la lotta per l'indipendenza, i palikari (termine bizantino, questo) greci e ortodossi reclutati per combattere gli Ottomani furono spesso detti manghes. Nessuna meraviglia: l'erpe dell'indiopendenza Kolokotronis alla turca chiamava askeri le sue formazioni guerrigliere, esattamente come i marescialli di Mussolini chiamarono "ascari" gli ausiliari indigeni delle colonie. I manghes pertanto, furono per un qualche tempo considerati ripieni di patriottiche virtù. Ma, a rovinare la reputazione del nome, ci pensò. dopo l'indipendenza, un losco politicante, il Kolettis. Siamo nel 1831. Ioannis Kapodistrias, filorusso certo, ma illuminato governatore della giovane Grecia che dotava di scuole e amministrazione per renderla una buona e virtuosa repubblica, era stato fatto fuori a coltellate da chi già pensava ad esiti oligarchici o monarchici. Suo fratello Agostino teneva ancora duro a Nauplia per non cedere all'avvento della monarchia straniera. Fu allora che Ioannis Kolettis reclutò una parte dei valorosi manghes per fare fuori anche lui. I manghes buoni e quelli cattivi vennero alle mani. Prevalsero, ben pagati, quelli cattivi di Kolettis e ne fecero di tanto cotte e di tanto crude, che la connotazione del loro nome si rovesciò: mangas cominciò a significare "malvivente". Fossero stati a Napoli, si sarebbero detti "malamente". (NdT)

(2) L'interiezione aman, spesso ripetuta, ricorre quasi costantemente nelle canzoni greco-anatoliche. Esprime dolore, e corrisponde al nostro "ahimé", o allo ay ay ay del flamenco.

Gian Piero Testa - 8/8/2011 - 17:21


Chiedo scusa per i molti difetti formali della nota che è apparsa qui sopra: uno scherzo del computer mi ha riesumato di sotto il naso un file di backup, mentre mi ha fatto sparire - sinora - quello buono, alla cui rifinitura avevo pur dedicato una discreta quantità di tempo. Teniamocelo così per adesso, in attesa di sostituirlo con qualcosa di più presentabile.

Ora aggiungo alcune curiosità, relative a quel mondo di marginali in cui prese piede la musica rebetica, nel periodo anteriore ai cambiamenti indotti dalla successiva, grande immigrazione dall'Asia Minore, che fu un fatto molto più tardo, del primo dopoguerra.
Negli ultimi decenni dell'Ottocento la piccola capitale del giovane e ancora monco stato greco cominciò a ingrandirsi grazie a flussi migratori dalle province montuose e dalle isole. Pur tenendo conto che, ancora alla metà del secolo, Atene era una pigra cittadina di solo trentamila abitanti, l'immigrazione non fu di tali dimensioni da spiegare tutti i disagi e le situazioni di marginalità che in realtà provocò: ma si deve ricordare che le finanze pubbliche del piccolo paese non riuscirono mai a risollevarsi dallo sforzo compiuto per l'indipendenza; che quasi tutto il denaro pubblico spendibile derivava da prestiti internazionali, e che ripetutamente si verificarono situazioni che oggi si direbbero di "default", fino al punto che, per quasi tutti i cinquant'anni precedenti la prima guerra mondiale, la politica greca fu soggetta al controllo economico delle grandi potenze creditrici (cosa che, peraltro, avveniva anche nelle province semi indipendenti dell'impero ottomano, dall'Egitto al Maghreb, e costituiva la principale giustificazione legale della penetrazione coloniale). Per questo, lo Stato, impegnato nel mantenimento di una corte, sia pur non particolarmente sfarzosa, e di una forza armata elefantiaca, ma sempre insufficiente, a sostegno dei progetti di espansione panellenica, non aveva né i mezzi né l'intenzione di spendere una dracma a favore dei nuovi abitanti della capitale, a parte qualche stanziamento per l'ordine pubblico ed alcuni rivoli di denaro utili a foraggiare le clientele elettorali dei notabili politici.
Furono proprio i notabili politici degli ultimi decenni del secolo a usare la malavita per procurarsi un forzoso sostegno dai nuovi concittadini: una malavita che inevitabilmente si era andata formando nei nuovi quartieri-ghetto, dove si riproduceva l'egemonia delle bande armate già radicate nelle campagne, dalle quali del resto proveniva la nuova popolazione urbanizzata.
E, per inciso, si può aggiungere che gli stessi notabili, nella veste di proprietari terrieri delle campagne, reggevano abitualmente il sacco alle bande di briganti che, chi abbia avuto la pazienza di vedere l'interminabile, e tuttavia bellissimo, film di Anghelopoulos "O Megaléxandros", ha potuto farsi un'idea di come agissero (1).
Insomma, come in Italia, così in Grecia si ebbero "ministri della malavita", in quei tempi tanto lontani e...tanto irripetibili. Tra questi non si possono dimenticare il liberale naupliota Harìlaos Trikoupis e il nazionalista arcade Theòdoros Diliyannis, che si fronteggiarono per un lungo periodo, talora ottenendo quasi in alternanza la nomina regia a primo ministro. Harìlaos Trikoupis è, tra l'altro, passato alla storia per il terzo "default" della storia neogreca, quello del 1897, che come primo ministro annunciò al Parlamento con queste indimenticate e ancora proverbiali parole: "Signori, malauguratamente siamo in bancarotta".
Entrambi, l'uno liberale e l'altro nazionalista, provenivano da famiglie molto in vista già prima della guerra di indipendenza e che già avevano occupato importanti posizioni politiche con propri rappresentanti: situazione tipica delle società politicamente organizzate per clientele intorno a clan di notabili, piuttosto che per partiti moderni, cosa che in Grecia si evidenzia ancor oggi nel ricorrere frequente degli stessi cognomi ai vertici delle cariche pubbliche: i Venizelos, i Karamanlìs, i Papandreou, ecc. Ma pur contrapposti per ambizioni personali e per vedute politiche, entrambi non vedevano nulla di male nel servirsi, nelle campagne, della persuasiva efficacia dei "listés", i briganti, così come della guapperia nei nuovi agglomerati urbani.
Va anche detto, a proposito dei "listès", che il loro dominio sulle campagne durò, debolmente contrastato, almeno per mezzo secolo, dal 1840 al 1890, con più sporadiche "code" fino agli anni Trenta del Novecento, e che i briganti non erano solo temuti, ma anche ammirati dai contadini e dai pastori dei villaggi, i quali, pur vedendoli spesso operare in funzione di un clan di notabili, apprezzavano il fatto che indirizzassero le loro imprese a danno di altri ricchi clan, rivali dei loro protettori, e non a quello dei soggetti più miserabili, cui qualche aiuto pur davano. E poi c'era molta ambiguità su chi si potesse definire brigante. Non era un mistero che molti capitani e combattenti dell'indipendenza erano entrati nell'agone come epigoni di una lunga tradizione brigantesca di "kleftes" in azione contro gli Ottomani fin dal XVI secolo e che, quando la monarchia bavarese rifiutò di inquadrarli in massa nel nuovo esercito nazionale, non restò loro che proseguire il loro mestiere delle armi in forma illegale, in un rapporto ambiguo con i greci facoltosi, ma certo in contrapposizione agli interessi della corte. Insomma, razziatori e tagliagole, ma pur sempre patrioti, che, indossando il bianco gonnellino della tradizione, la gloriosa e grecissima "fustanella", non si distinguevano tanto facilmente dai prodi "palikari" che avevano versato fiumi di sangue proprio e del nemico per l'indipendenza nazionale e la fede ortodossa, e che venivano onorati nelle stampe popolari e nelle canzoni. Tra i due generi di "listés", quelli in redingote dei palazzi pseudoclassici della capitale al servizio della monarchia straniera, e quelli in fustanella delle rupi e delle foreste, era ovvio a chi andasse la preferenza popolare. Non è un caso che Andreas Karkavitsas, l'ufficiale che a metà del secolo visitò e descrisse le carceri di Nauplia, scarpinando su, fino al bastione "Milziade" del Palamidi, vi trovò soprattutto dei "listès", briganti delle campagne, di cui parecchi meritevoli della patria. E non è un caso che alcune delle canzoni di prigionia che il Karkavitsas si fece cantare dai reclusi si cantino ancora, e che, per tutta la seguente metà del secolo e fino agli anni Trenta di quello successivo, la lettura preferita, a livello degli incolti e non solo, fu il romanzo del genere "listrikò", cioè brigantesco. Decine e decine di volumi dalle copertine coloratissime, spesso preceduti da un' edizione d'appendice, uscirono in quei decenni. Mattoni di ottocento, millecinquecento pagine, in cui un "listarchis" (capo brigante) vero o di fantasia, dalle chiome fluenti e dai baffi inverosimili, armato fino ai denti e infilato nella regolare fustanella, sottraeva schiere di ellinopule (fanciulle greche) alle grinfie dei feroci agà e dei pascià della turcocrazia o, come il lontano Robin dei boschi o i più vicini Aiduchi balcanici, prendeva ai ricchi per distribuire ai poveri.
Le maggiori firme di questo genere letterario popolare furono quelle di Aristìdis Kyriakòs e di Yorgos Tsoukalàs, più o meno contemporanei del nostro Salgari; ma gli specialisti del genere furono decine. Gli eroi avevano i nomi di Davelis, Karakostas, Tsakitzìs, Astrapoyannos (Gianni il Fulmine). E non mancavano le brigantesse, come la "listarchìna" Lambro. Qualcuno invece rovesciava l'epos a favore della polizia di campagna (i "horofìlakes) impegnata a sgominare i listés: ma tra le guardie e i ladri non c'era quasi nessuna differenza antropologica, perché una tipica ricompensa, che i notabili ottenevano per briganti più servizievoli, era appunto un posto e una paga nelle fila dei "polismani". Ci vollero due dittatori militari (Pangalos e Metaxas), negli anni Venti e Trenta, per estirpare, con decreti di proibizione indirizzati agli autori, la malsana passione del popolo per le avventure dei "suoi" briganti; e a quel punto il pubblico fu costretto a rivolgersi ai generi americani western e polizieschi. Ma a far fuori i briganti dei romanzi ci aveva provato anche il liberale Eleuterio Venizelos.
In città continuava ad accadere qualcosa di simile, con la differenza che gli immigrati di buona o di mala vita perdevano più facilmente la loro "ithaghénia", parola che significa "indigenità". Nel rimescolamento con quelli di altre provenienze, ciascuno doveva apprendere un suo modo di comunicare, attraverso la lingua o il gergo e l'abbigliamento, quello che pensava di essere diventato. E poiché alla miseria e alla disoccupazione nessuno, dall'alto, pensava di porre alcun rimedio, ciascuno dovette trovare la sua strada, spesso criminale. Un quartiere chiamato Psarrìs di cui oggi sembrano perse le tracce, evidentemente travolte dalla molto più imponente immigrazione degli anni Venti del Novecento, divenne dominio della criminalità e della cosiddetta "manghià", termine forse traducibile con guapperia. Niente di eccezionale: null'altro che i soliti fenomeni conosciuti da tutte le città soggette all'inurbamento della gente di campagna, e certamente in uno scenario più ristretto rispetto a quello di altri paesi europei o d'oltre oceano, dove la rivoluzione industriale macinava davvero, e i flussi migratori erano già di dimensioni mondiali. Ma anche in quell'ambiente sicuramente più ristretto non mancavano gli scontri tra i gruppi malavitosi rivali, il fastidio della "protezione" dei piccoli commerci, del gioco e della prostituzione, le varie forme di estorsione, al punto che alcuni gruppi familiari pensarono bene di far venire dal contado qualche tipo armato e deciso, per la propria sicurezza. Questi individui non accrebbero di certo quella generale del quartiere: anzi, un poco alla volta i vari soggetti "irregolari" andarono acquistando non solo il controllo del territorio, ma anche una fisionomia e un linguaggio propriamente loro. Ed ebbero anche un nome: "koutsavakides". Sul perché si chiamassero così - oltre che "manghes", "rebetes", "mortes"| - gli esperti del ramo hanno intrecciato, come è ovvio, complicate discussioni. La tesi più lineare, che non mi costringe ad aprire il mio antichissimo Rocci, sostiene che ad un certo punto comparve nel quartiere un giovanotto spavaldo, soldato della cavalleria, il cui suggestivo abbigliamento tutti i guappi vollero imitare. Lui si chiamava Dimitris Koutsavakis, veniva dal Pireo ed era un grande attaccabrighe, formò una banda che si spingeva fino all'Agorà, dove personalmente si esibiva anche come cantante e ottimo chitarrista; mentre il suo più stretto compagno di imprese, Dionisis Dionisiadis, aveva una piccola compagnia teatrale. E la sua tenuta era la seguente: baffi smisurati, giacca infilata su un solo braccio con l'altra manica penzoloni, lunga sciarpa e scarpe con la acuminata punta rivolta all'insù. E un'andatura come di chi zoppichi per un dolore alle piante dei piedi. Si noti che "zoppo" in greco si dice "koutsos": e questa è la ragione per cui qualcuno nega che per l'etimologia si debba scomodare il giovane guappo in libera uscita: bastava la speciale camminata, che forse voleva indicare l'eroica sofferenza per fresche botte prese in commissariato, a identificare la specie. Una cosa è certa: la giacca non doveva impedire il pronto ricorso al coltello, in caso di assalto, e doveva potersi avvolgere in un lampo attorno all'avambraccio per essere pronti al combattimento. Chi avesse voluto vedere un tipico "koutsavakis", avrebbe dovuto affacciarsi a suo rischio e pericolo ai caffé di Piazza degli Eroi e soprattutto al "Kapodistrias" di via Miaoùlis. Oggi non gli resta che andare qui: http://dyosmaraki.blogspot.com/2007/08...
Su questo tipo di gente calarono i politici, per raccattare voti e applausi nei comizi, e mettere a tacere con le buone o con le cattive i detrattori. Nel 1862 nacque un nome nuovo, oggi perduto: quello di "traboukos". Il "traboukos" nei periodi elettorali faceva il galoppino, la claque, la guardia del corpo e il mazziere : se l'illustre candidato ce la faceva, per lui saltava fuori un posticino da qualche parte, anche in polizia all'occasione. Se no, tutto finiva con l'offerta del caffé e dei sigari dell'Avana detti "trabujos", con cui il notabile ricompensava il suo attivismo. Il notabile preferiva i tipi dalla voce stentorea, i cui evviva si sentissero bene nei passaggi cruciali dei suoi discorsi.
In quei tempi, o meglio un po' più tardi, nel ventre di Milano, la legge era rappresentata da un poliziotto anche lui claudicante, che la canzone della mala ricorda spesso, in un misto di ostilità e di cavalleresca ammirazione. Poiché anche la sua camminata era dondolante, lo chiamavano il Dondina. Il Dondina, che era nato lui pure nei bassifondi, dei bassifondi e dei suoi abitanti sapeva tutto ed era l'unico che osasse entrare in certe vie, in certi bordelli, in certi dormitori pulciosi. Di più, lui viveva come uno della "ligera", praticamente in un cesso. La sua fama, che era grande da Porta Cicca al Bottonuto, non gliela davano i cronisti della nera: ma gli stessi balordi che andava ad arrestare e anche - ma solo al bisogno - a menare. Così raccontava Paolo Valera. Anche i manghes (o koutsavakides) di Psarrìs ebbero il loro Dondina. Si chiamava Dimitris Bairaktaris (vedilo qui: http://dyosmaraki.blogspot.com/2007/08...), uomo di Trikoupis ma soprattutto fanatico dell'ordine. Egli fece una grande pulizia nel famigerato quartiere. Il suo metodo era "psicologico": acchiappava i "koutsavakides", li faceva rapare e gli tagliava i baffi a metà. Poi gli dava le forbici perché si tagliassero con le loro stesse mani l'altra metà. Poi gli tagliava la punta delle scarpe e la manica a penzoloni: e così conciati, e moralmente annientati, li ficcava nella prigione Mendresé di piazza Aerìdon, ad aspettare che ricrescessero i baffi senza i quali non potevano mostrarsi in piazza. Così faceva, l'intrepido commissario Bairaktaris.
(gpt. Informazioni reperite in Istorika, supplemento di Eleftherotypìa, 26° fascicolo del 13 aprile 2000, e nei siti http://www.koutouzis.gr/mortes-magkes.htm del giornalista e ricercatore Vassilis Koutouzis e http://dyosmaraki.blogspot.com/2007/08...)

Nota
(1) Il film prende le mosse da un episodio realmente accaduto, l'eccidio di Délesi, anche se, spostandolo in avanti nel tempo di tre decenni, e nello spazio di alcuni chilometri, da Maratona a Capo Sounion, non lo rappresenta esattamente. Si trattò del rapimento di un gruppo di residenti e di altolocati viaggiatori britannici - e con loro di un italiano -, che nella primavera del 1870 suscitò a Londra enorme indignazione e anche qualche velleità di una spedizione militare contro la Grecia per punirne la "barbarie" e, insieme, l'inerzia dei politici locali, tra i quali lo stesso ministro della difesa, cuinon spiaceva di conservare un buon rapporto con le bande dell'Attica. In quell'occasione, la banda dei fratelli Arvanitakis, composta di 26 uomini, soppresse quattro ostaggi prima di venirecatturata. I "listarchi" subirono la condanna capitale.

Gian Piero Testa - 14/8/2011 - 06:44




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