qué pesao, maldita sea,
si quieres carne a la brasa
búscate otro con más grasa.
Ay, no me aprietes los tornillos,
deja en paz mis huesecillos,
no me enchufes la parrilla
que no soy una morcilla.
Carselero, carselero
que te estoy viendo el plumero
Carselero, carselero
hijo de... la Inquisición
Deja quieta la cadena
que me va a dar la gangrena.
No me ajustes el grillete
que me vas a hacer un siete.
No tortures por la tele
que te doy con los pinreles.
Todo menos el calvario
de aguantar el telediario.
Carselero, carselero
que te estoy viendo el plumero
Carselero, carselero
hijo de... la Inquisición
No se nada, no vi nada,
no he hecho nada, camarada.
Quiero hablar con mi abogado
si es que no lo habéis trincado.
Se me suelta el intestino
cuando pones al sobrino.
Dame un poco de amnistía
por "Simplemente María".
Carselero, carselero
que te estoy viendo el plumero
Carselero, carselero
hijo de... la Inquisición
Qué paliza, qué molestia
que eres una mala bestia.
No te pongas salvavidas
que sé como te apellidas.
No te pases con la horma
que no estoy con la reforma.
Apertura, cerradura,
esto acabará en ruptura.
inviata da Alessandro - 3/11/2009 - 08:07
Alessandro - 3/11/2009 - 11:01
Aldo Bianzino, 44 anni, falegname, viene arrestato il 12 ottobre 2007 a Pietralunga, vicino a Città di Castello, Perugia. Nei campi intorno alla sua casa la polizia ha infatti trovato alcune piante di canapa indiana... Aldo vien rinchiuso in isolamento nel carcere di Capanne.
Sabato 13 ottobre l'avvocato d'ufficio incontra Aldo e riferisce alla compagna (anche lei arrestata) di averlo trovato in buona salute. Ma Domenica 14 ottobre, quando viene scarcerata e chiede del suo uomo, un carceriere stizzito le risponde che potrà vederlo solo dopo l'autopsia. Aldo è morto.
Le prima versione ufficiale è che Aldo sia morto di un infarto. Ma Aldo stava bene, non aveva nessun problema di salute... la compagna, distrutta dal dolore, chiede ed ottiene che venga effettuata un'autopsia alla presenza di un medico legale di fiducia...
Il Dott. Lalli referta che Aldo Bianzino è morto per cause non accidentali e che il suo cadavere presenta chiari segni di lesioni traumatiche: 4 ematomi cerebrali, fegato e milza spappolati, 2 costole fratturate... picchiato scientificamente con l'intenzione di ucciderlo, colpendo organi vitali in modo da non lasciare segni...
Viene aperto un fascicolo contro ignoti per omicidio volontario... ma chi vuoi che l'abbia massacrato e ucciso, se era appena entrato in carcere e l'avevano messo subito in isolamento?
Eppure sono passati due anni, la compagna di Aldo, Roberta Radici, nel frattempo è pure morta (al suo compagno il fegato l'avevano spappolato, per lei invece non se n'è trovato uno per il trapianto), e ancora non si è venuti a capo di nulla... E, se non era per Le Iene e Beppe Grillo, di Aldo Bianzino, falegname, incensurato, arrestato per qualche piantina di cannabis e trucidato in carcere da chi lo aveva in custodia (lo Stato) non si sarebbe più parlato.
Il caso Aldo Bianzino su YouTube.
Che paese di merda! Un paese senza dignità e giustizia, dove mentecatti, filibustieri e assassini dettano legge, dove Totò Riina si fa il "41bis" con tutti i comfort, dove gli stragisti come Giusva Fioravanti si fanno 15 anni di galera e poi semilibertà e cazzi e mazzi, e dove invece un immigrato senza permesso, un tossico, un ragazzino quaunque o un falegname con un po' di erba vengono massacrati e/o trucidati dai servi dello Stato...
Aggiungo solo una cosa - senza polemica, neh!?!
E' vero che questo è un sito di canzoni contro la guerra, però appunto le canzoni e la musica servono anche a rompere il silenzio, e mi pare che su queste pagine che dovrennero essere musicali e rumorose ci sia un po' troppo silenzio sulle ultime gravissime vicende di Stefano Cucchi e Diana Blefari Melazzi...
Di Aldo Bianzino pure non si è parlato punto, anche se una sua flebile traccia - non approfondita - c'è nella canzone Mappe della libertà degli Assalti Frontali postata a Natale dello scorso anno...
Gli ultimi "redazionali" sono stati dedicati soltanto ad Alda Merini e Alessandro Santoro... importantissimi, per carità, però...
L'ho detto, punto e basta! E ora, perfidi Admins, fatemi del male...
Alessandro - 3/11/2009 - 23:47
Io sono indignato, incazzato e anche spaventato ma per niente stupito. Penso che questo comportamento criminale sia ordinaria amministrazione nella polizia, come dimostrano decine di altri casi. Solo che finché quello massacrato di botte sopravvive, o è un immigrato senza una famiglia che lo può ricercare, tutto rimane sotto silenzio.
Il fatto è che io sono un semplice informatico, e quindi non sono capace di scrivere veri e propri "redazionali" o "editoriali".
Ho scritto quelle poche righe su don Santoro perché ero presente personalmente in quell'occasione e volevo raccontarlo. Ti assicuro che per chi c'era è stato un momento molto toccante.
Detto questo, dato che il nostro è un sito aperto a tutti, e tu ne sei una "colonna portante", ti invito a scrivere tu un commento (cosa che del resto hai già fatto qui) e cercheremo di dargli la massima visibilità.
Lorenzo - 4/11/2009 - 11:11
di Riccardo Venturi
Ora li chiamano i nostri ragazzi. No, io non li voglio, quei "ragazzi". Sono vostri . Sono loro . Miei non sono. E non sono neanche ragazzi. Essere ragazzo è disordine e vita; questi sono ordine e morte.
I loro ragazzi sono quelli di Marcello .
Quelli di Stefano.
Quelli di Federico .
Quelli di Gabriele .
Quelli di Genova.
Quelli della Diaz .
Quelli del vicequestore Perugini .
I loro ragazzi. Quelli che vanno a obbedire per un misero stipendio di merda. Quelli che ci hanno sempre il pretesto della disoccupazione, del popolo, della giovane moglie (sempre incinta quando crepano). Quelli che a volte lo stipendio non è nemmeno poi così di merda, anzi talmente allettante da andare a saltarci in aria per andare a far la guerra a della gente che non l'ha mai fatta a noi.
Quelli che, ai funerali, hanno le lacrime napulitane di quel vegliardo che, un tempo, approvava gli aiuti fraterni. "Partigiano" sì, ma sempre e solo di una cosa: del potere.
Quelli che su Twitter o su Facebook dicono di essere troppo di destra, che sono iscritti al Partito Nazionale Fascista, che scrivono di essere lì a fare la guerra, ma che sui giornali e sulle televisioni di regime diventano "eroi di pace".
Quelli che hanno, sempre ai loro funerali, i figli di due anni col basco rosso che fa tanta audience, tanta vita in diretta, tanto schifo suo malgrado.
(Ché portare un bambino di due anni al funerale del padre sarebbe già un atto inqualificabile di per sé; portarcelo a fare da pupazzetto di regime è ancora più orrendo. E chissà cosa avevano in testa le centinaia di bambini uccisi per la pacificazione e la democratizzazione dell'Iraq o dell'Afghanistan, vale a dire per gli oleodotti, per i gasdotti, per la Raffineriyah, per gli investimenti).
(Ora che ci penso: chissà se il piccolo Simone, quando sarà grande, ce lo ritroveremo sempre col basco rosso della Folgore, in mezzo a tanti altri baschi rossi, a fare una bella foto di gruppo come questa:)
Eccoveli in tutto il loro splendore, i loro ragazzi.
Quelli da cui vanno a frignare i ribelli futuristi di Casapound. Quelli sempre pronti a arrestare i compagni e a proteggere i camerati. Quelli che La Russa. Quelli che, tanto, se la cavano sempre. Quelli che spaccano le rotelle prendendo la mira a due mani. Quelli che fanno gli incidenti con la Focus dello zio, e la Focus non prende fuoco, sennò ci voleva l'estintore. Quelli che ci hanno anche le canzoncine della minchia e del signor tenente, nelle quali non si riesce a capire dove sia il tenente e dove sia la minchia (forse nella testa del suo autore). E le fiction in mezzo a preti e buoni sentimenti.
Guardateli qui, i loro buoni sentimenti. E questa non è una fiction. Non c'è don Matteo. Non c'è il maresciallo Rocca. E nemmeno il commissario Montalbano. Non c'è il Distretto di Polizia. Qui c'è il Distrutto dalla Polizia.
Quelli che no, non verrà il giorno.
Quelli dei " grazie ragazzi" sui muri, per i loro quattrinovembri, per le loro armi, per le loro parate, per i loro ordini, per le loro sicurezze.
Tutti martiri. "Martire" vuol dire "testimone". In qualche caso, infatti, li hanno fatti eliminare come testimoni scomodi .
I loro ragazzi. Sono tutti loro.
Miei, no di sicuro.
CCG/AWS Staff - 4/11/2009 - 16:51
Va voir ce qui est dit dans l'introduction du Grand Rat...
et de la déraison d'État.
Ne t'inquiète pas, tu n'es pas seul...
Un pugno chiuso...
come diciamo : Ora e sempre : Resistenza !
Marco Valdo M.I. et Lucien l'âne
Marco Valdo M.I. - 4/11/2009 - 21:46
Mi sono simpatici gli asini.
Quando ero piccolo, nella piccola borgata montana dove la mia famiglia ha le radici, c'era una vecchia signora, la Seraphine, che aveva un asino tutto bianco... era un vero anarchico, e un gaudente. Non faceva nulla, si rifiutava di fare qualsiasi cosa, se ne stava a zonzo tutto il giorno salvo tornare a casa per mangiarsi qualche ghiottoneria ed andare a dormire... La Seraphine si arrabbiava molto con il suo asino anarchico e perdigiorno, ma poi era lei stessa che gli dava la polenta e il pane secco.
Poi l'asino è morto di vecchiaia, serenamente. E' sepolto da qualche parte intorno alle case...
Anche la Seraphine è morta di vecchiaia, un po' meno serenamente, come capita agli uomini...
Per molti anni non ho più visto un asino dalle mie parti.
Ma da qualche anno sono tornati, e in forze.
Da maggio ad ottobre salgono insieme alle greggi. Sempre anarchici, sempre per i cazzi loro, li trovi sempre in alto, nei posti più belli, i balconi naturali, i belvedere... si vede che agli asini piace il paesaggio o piace poter guardare lontano e pensare e filosofeggiare... chissà...
La notte si raccolgono insieme alle pecore perchè sanno che devono dare una zampa ai maremmani per difenderle dagli attacchi dei lupi... Quando le greggi si muovono, agli asini è affidato il delicato e bellissimo compito di caricarsi nelle sporte i capretti e gli agnelli che faticherebbero nel cammino...
Begli animali, gli asini. Leali, utili ma liberi, mai servi. "Ni la carotte par devant, ni le bâton par derrière", come dite voi.
E con questo saluto Lucien l'âne, che ancora non l'avevo fatto.
Alessandro - 5/11/2009 - 08:49
I bovini, si sa, non sono intelligenti e liberi come gli asini.
Eppure ieri a Torino un grosso toro ha detto "No! Non voglio morire!", ed è scappato superando tutte le recinzioni del mattatoio di via Traves. Alle 11 del mattino è iniziata la sua fuga e nessuno pareva in grado di fermarlo, tanto che lui ha preso la tangenziale. Mica scemo... avrà pensato "di qui faccio prima, per la libertà". Due ore più tardi era ancora per strada, trotterellando, sbuffando e sbaragliando i suoi inseguitori...
I carnefici - tanti e tutti armati, mentre il toro era solo con la sua sola rabbia e le sue sole corna - hanno avuto (come spesso accade) la meglio soltanto due ore dopo. Hanno provato a narcotizzarlo ma non ci sono riusciti. "Son ben desto, non mi avrete!", muggiva il possente. Poi il grande toro ribelle di Torino si è trovata la strada sbarrata dai tir e un veterinario (servo dello Stato assassino) l'ha avvicinato e gli ha dato il colpo di grazia mentre lui, l'indomito toro, lo guardava senza paura dritto negli occhi.
Non si sa se abbia intonato prima il suo muggito di morte...
CHE VIVA IL TORO! FORZA TORO!
Alessandro - 5/11/2009 - 09:19
Roma, 9 nov. - (Adnkronos) - "Stefano Cucchi era in carcere perche' era uno spacciatore abituale. Poveretto e' morto, e la verita' verra' fuori come, soprattutto perche' era 42 chili". Lo ha detto il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio del ministri Carlo Giovanardi, intervenuto alla trasmissione "24 Mattino" su Radio 24 sull'argomento droga. Parlando di Cucchi, Giovanardi ha continuato: "La droga ha devastato la sua vita, era anoressico, tossicodipendente, poi il fatto che in cinque giorni sia peggiorato, certo bisogna vedere come i medici l'hanno curato. Ma sono migliaia le persone che si riducono in situazioni drammatiche per la droga, diventano larve, diventano zombie: e' la droga che li riduce cosi'".
... E poi è curioso che proprio Giovanardi, uno degli esseri viventi più brutti e immondi che strisciano sulla terra, parli di quanto sia ridotto male qualcun altro...
Alessandro - 9/11/2009 - 13:09
Tutta la documentazione clinica sull’ultima settimana di vita e di sofferenza
Dal sito dell'Associazione per le libertà "A Buon Diritto"
Pubblichiamo l’intera documentazione clinica su Stefano Cucchi, a partire dal referto del medico del 118 delle ore 5.30 del 16 ottobre, fino ai diari sanitari del reparto detentivo del Pertini e al certificato di morte del 22 ottobre. Lo facciamo col consenso scritto ed esplicito dei familiari di Stefano, dopo aver trasmesso il materiale alla Procura della Repubblica di Roma e aver informato della nostra iniziativa l’Autorità garante della privacy. Abbiamo deciso questo passo perché da questa documentazione emerge come una moltitudine di operatori della polizia giudiziaria, del personale amministrativo e delle strutture sanitarie, abbiano assistito – inerti quando non complici – al declino fisico di Stefano Cucchi e fino alla morte. Ed emergono, con cruda evidenza, le contraddizioni, ma anche le vere e proprie manipolazioni ai danni di Stefano Cucchi e dell’accertamento della verità. E risulta soprattutto che Stefano decide di non nutrirsi e di non assumere liquidi – causa della morte, secondo i sanitari – “fino a quando non avrà parlato con il proprio avvocato” (così è scritto di pugno di un medico). Non gli fu consentito. Quella notazione è una sorta di confessione del delitto da parte di chi non ha saputo o voluto impedirlo. Balza agli occhi, in altre parole, che sulla morte di Stefano Cucchi non c’è alcun “mistero”: in quella documentazione c’è tutto. Il caso di Stefano Cucchi è diventato occasione di una riflessione pubblica sul nostro sistema di giustizia e sulle nostre strutture penitenziarie. Non solo in Italia. Ho ricevuto una richiesta d’informazioni da parte dell’ufficio londinese di Amnesty International intenzionata a condurre una propria inchiesta indipendente sulla vicenda.
(Abbiamo “cancellato” dalla documentazione nomi e cognomi del personale responsabile e alcune informazioni private su Stefano Cucchi, in nessun modo significative ai fini dell’accertamento della verità).
Alessandro - 9/11/2009 - 15:17
La documentazione clinica su Stefano Cucchi è stata pubblicata anche sui siti http://www.innocentievasioni.net/ e http://www.italiarazzismo.it/ riferibili allo stesso Manconi.
Alessandro - 9/11/2009 - 15:34
Quei poliziotti assassini (Mauro Miraz, Maurizio Mis e Giuseppe De Biase) sono stati condannati in primo grado per omicidio colposo...
Alessandro - 10/11/2009 - 11:50
Giuseppe Saladino, un 32enne di Parma, era stato arrestato in flagranza mentre commetteva un crimine particolarmente efferato ed odioso: rubava le monetine dai parchimetri.
L'avevano, giustamente, condannato e messo ai domiciliari... Ma il "feroce" Saladino era un criminale incallito e si era subito macchiato di un altro orrendo reato: era sceso in strada a passeggiare mentre doveva starsene in casa...
Feroce, il Saladino, ma anche sfigato, ché era stato subito beccato dai carramba (che fortuna!) ed accompagnato in carcere. Cavoli, che efficienza i carramba! Ci sono mafiosi assassini psicopatici latitanti da anni ma loro stavano addosso al nemico pubblico n.1, lo scassinatore dei parchimetri parmensi...
Sicchè il "feroce" Saladino viene affidato alla custodia dello Stato, che si impegna a custodirlo...
Entra in galera un venerdì pomeriggio, il 6 novembre scorso, "feroce" ma sano, e il mattino dopo lo trovano morto... un malore, dicono.
La procura di Parma ha aperto un'indagine contro ignoti per omicidio colposo...
Alessandro - 11/11/2009 - 08:03
di GIORGIO BOCCA
da La Repubblica del 12 novembre 2009
Stefano Cucchi, un giovane romano arrestato dai carabinieri in possesso di una quantità di droga sufficiente per farlo considerare uno spacciatore, è morto durante la detenzione. Di certo aveva sul viso e sul corpo il segno di percosse, di certo si sa che polizia e medici non gli hanno prestato le cure necessarie a salvargli la vita.
Secondo il sottosegretario Carlo Giovanardi, costretto poi a scusarsi, "se l'è voluta", come usa dire, prima rovinandosi la salute, poi violando la legge e infine, presumibilmente, offrendosi per il solo fatto di esistere all'ira e alla violenza degli "agenti dell'ordine", che in lui non potevano non vedere un intollerabile disordine.
Giustificati, a delitto avvenuto, da quanti come Giovanardi pensano di essere uomini d'ordine, per aver risposto a una provocazione. Sul caso sono state scritte pagine e pagine di moralità, di doglianze per la mancanza di pietà e di carità, e sull'oscurità che sempre circonda questi rapporti fra le forze dell'ordine e i cittadini. Ma vediamo di parlare del caso Cucchi da un punto di vista sociologico. Un cittadino come Stefano Cucchi rappresenta un pericolo per l'ordine sociale? E perché? Perché si droga e spaccia droga? Sì, ma perché lo fa con la decisiva aggravante di essere un poveraccio, visibilmente ammalato, menomato, tanto che non si sa bene se parte delle ferite visibili sul suo corpo se le sia procurate "cadendo dalle scale".
La vera colpa di Stefano Cucchi è di essere un ammalato, un rottame umano che vaga per la grande città. Nella stessa città una moltitudine di cittadini rispettosi dell'ordine e con posti di alta responsabilità sociale si drogano ma non spacciano, non cadono per le scale, non oppongono resistenza ai poliziotti.
Normalmente diresti che la differenza è inesistente, che tutti violano il dovere di essere socialmente responsabili, socialmente capaci di intendere e di volere, ma socialmente le cose stanno in modo radicalmente diverso: i cittadini non sono uguali davanti alla legge come dicono le costituzioni, la società si divide fra i ricchi di denaro e di conoscenze, cui è lecito truffare il prossimo con la finanza, con l'industria, con informazione, con la medicina, e con quasi tutte le umane professioni, e quelli che per truffe minori e moralmente tollerabili come il furto per fame, vengono lapidati come Cucchi.
Il dilemma sociale vero, quello che può decidere sulla libertà o sulla servitù della società futura è questo: democrazia autoritaria a favore dei ricchi e sapienti e a spese dei poveri e ignoranti, o democrazia dei diritti e dei doveri garantita dalle leggi? Il caso può fornire dei suggerimenti. In pratica come era possibile risolverlo evitando il tragico epilogo? I poliziotti che lo conoscevano potevano fare a meno di arrestarlo per la detenzione di una piccola quantità di droga proprio nei giorni in cui su tutti i giornali si legge che fanno uso di droga parecchi delegati del popolo al governo della nazione. Comportarsi insomma come con l'immigrazione irregolare delle badanti e degli operai, su cui si sono chiusi entrambi gli occhi perché faceva comodo sia al nostro benessere che alla nostra economia. Ma come non vedere che alla base di questi compromessi, di queste eccezioni alla severità e al rigore c'è una crescente pressione della parte povera e diseredata? E che questa crescente pressione potrebbe tradursi negli anni a venire, prima nella democrazia autoritaria già in corso e tacitamente approvata dalla maggioranza benestante del paese, e poi nella semplificazione feroce delle dittature nelle quali i poveri e riottosi venivano lasciati o fatti morire?
Come non vedere che a due decenni dalla caduta del muro di Berlino si profilano altri muri di separazioni coercitive? Il banchiere Cuccia era solito dire che le azioni della società "non si misurano a numeri, ma a peso". Ed è così, e di quasi tutto ciò che conta nella nostra vita: denaro come giustizia, salute, bellezza, libertà. La soluzione autoritaria e magari schiavista è la più semplice, la più risolutiva in apparenza. Simile alla celebre frase di Tacito: "E dove fanno il deserto lo chiamano pace". La dittatura nessuno la auspica e la vuole, a parole, ma in molti la preparano, giorno per giorno, approvando, spalleggiando ogni giorno ciò che svuota la democrazia, aggiungendovi ogni giorno qualcosa che la limita. Il passaggio dall'autoritarismo al terrore si annuncia in modi disparati, apparentemente disparati. Oggi è il drogato ucciso a percosse, domani il barbone bruciato vivo, la donna con le mani tagliate, che sembrano non lasciare traccia. Ma la lasciano, lasciano l'ostilità alle leggi, l'avversione ai diritti umani, l'ignoranza dei doveri. Per definire il colonialismo Mussolini diceva che era il nostro "mal d'Africa". Ma quanti sono in Italia quelli che ancora soffrono del "male autoritario"?
Alessandro - 12/11/2009 - 12:48
di CARLO BONINI
da La Repubblica del 12 novembre 2009.
ROMA - Ha la pelle nera dell'Africa Occidentale l'uomo che ha visto Stefano Cucchi cominciare a morire in un sotterraneo del palazzo di Giustizia per mano di "due guardie", due agenti di polizia penitenziaria, di piantone alle "camere di sicurezza". Ha i suoi stessi anni, 31. Era stato arrestato dai carabinieri la stessa sera (il 15 ottobre), alla stessa ora, le 23.30, per lo stesso reato (stupefacenti). Ma in un quadrante diverso della città. Tra il raccordo Anulare e Tivoli. La mattina del 16 ottobre, ha visto crollare Stefano sotto due manrovesci al viso. Tra le urla, ha sentito il tonfo sordo dei calci delle "guardie" accanirsi su quel corpo rannicchiato in terra e già fragile. Poi, quando i suoi polsi e quelli di Stefano sono stati chiusi allo stesso schiavettone che dal palazzo di Giustizia li doveva trascinare a Regina Coeli, ha raccolto le sue ultime parole: "Hai visto questi bastardi come mi hanno ridotto?".
In questo incrocio di destini, l'uomo che "sa", si chiama S. Y. (Repubblica, che ne conosce il nome, ha accettato la richiesta del suo avvocato di tutelarne, almeno per il momento, un parziale anonimato), è un clandestino ed è detenuto in una cella del braccio "comuni" del carcere di Regina Coeli. Il 3 novembre, ha consegnato il suo segreto al pubblico ministero Vincenzo Barba. Quattro giorni dopo, sabato 7, nella sala colloqui del carcere ha fissato negli occhi il suo giovane avvocato, Francesco Olivieri, e con una smorfia gli ha confidato la paura di chi ora teme il prezzo di quella verità: "Avvocato, ho raccontato al magistrato una cosa per cui ho paura che ora non mi faranno più uscire di qua".
Olivieri non è ancora riuscito a tirare fuori S. da Regina Coeli. Ieri, ha bussato una prima volta alle porte degli uffici giudiziari per chiedere di sottrarre quel testimone al rischio di una possibile vendetta, di un'intimidazione, perché i segreti, si sa, in carcere durano assai poco. Tornerà a farlo oggi. E ora - nel suo studio di via Tuscolana - promette che non mollerà. "Intanto, sto facendo una colletta per raccogliere il denaro necessario a pagare l'ospitalità della "Casa dell'Amore fraterno". Dieci euro al giorno per poter indicare al giudice almeno un indirizzo in cui disporre gli arresti domiciliari. Poi, comincerà l'altra battaglia. Diciamocelo pure, quella più difficile. La parola di un ragazzo di colore accusato di spaccio contro quella di uomini in uniforme".
Parliamo dell'uniforme blu degli agenti della Polizia penitenziaria, se i ricordi di S. non zoppicano. Almeno due. I due in servizio alle camere di sicurezza del palazzo di Giustizia, la mattina del 16 ottobre. Alle celle di piazzale Clodio, S. arriva di buon mattino, intorno alle 9. Scende i 20 gradini che dal piano stradale di via Varisco portano ai sotterranei. Supera la pesante porta in ferro laccato, blu cobalto, annunciata da due targhe di ottone ("Camere di sicurezza"; "Dap - Nucleo di Traduzione e piantonamento uffici giudiziari"). Quindi si accomoda, da solo, in una delle quindici celle che affacciano sul corridoio che le divide.
La sera prima, in un anonimo appartamento nella zona dei giardini di Tivoli, in una di quelle case che i nigeriani normalmente affittano a clandestini trasformati in "cavalli" per spacciare roba da marciapiede, i carabinieri lo hanno buttato giù dal letto per poi infilargli le manette. I militari trovano 13 grammi di eroina, 5 di marijuana, un bilancino di precisione. Per S. non è la prima volta. Insomma, quelle gabbie del Tribunale già le conosce (è stato arrestato per stupefacenti una prima volta nel 2006, per poi essere assolto in appello). E ora, dunque, attende la "chiama" per l'aula delle direttissime.
Stefano Cucchi è nella cella di fronte alla sua. Anche lui è solo. Anche lui è stato consegnato dai carabinieri alla polizia penitenziaria sulla soglia della porta blu cobalto. Anche lui è lì per droga. Anche lui aspetta. Poi, accade qualcosa. S. non sa dire che ora fosse ("Tarda mattinata", dice l'avvocato Olivieri nel riferirne i ricordi). Verosimilmente, prima delle 12.35, quando Cucchi entrerà nell'aula del suo processo per direttissima. Ma S., ricorda perfettamente cosa sente. Cosa vede. Il silenzio del sotterraneo si anima all'improvviso di urla. Le urla di Stefano Cucchi. S. si precipita allo spioncino della porta blindata che chiude la sua cella. E - per quello che riferirà prima al pubblico ministero e quindi al suo avvocato - vede quel ragazzo dal fisico esile "trascinato nel corridoio dalle guardie". "E' andato al bagno" e ora, a quanto pare, non vuole rientrare nella sua cella. I due agenti della polizia penitenziaria - prosegue S. - lo colpiscono al volto. Stefano Cucchi crolla in terra. I due finiscono di dargli una lezione a calci. Quindi "lo trascinano" nella cella chiudendosi la porta alle spalle.
S. ritrova Stefano a fine mattina. Dopo il suo processo per direttissima. Anche lui non è stato fortunato. Il giudice ha rinviato il dibattimento al 18 dicembre e disposto che venga "tradotto" a Regina Coeli. Quando rientra nei sotterranei, Cucchi e già lì. E questa volta i due vengono sistemati nella stessa cella. S. ora può vedere i lividi che gonfiano e macchiano il volto di Stefano. Gli agenti della polizia penitenziaria gli chiudono i polsi allo stesso schiavettone, il guinzaglio con cui devono essere caricati sul furgone diretto al carcere.
Stefano gli sussurra una parola all'orecchio: "Hai visto questi bastardi come mi hanno ridotto"? S. ha visto. Forse non tutta la violenza di quel mattino. Forse solo l'inizio e non la coda, se dovesse trovare una qualche conferma l'ipotesi che di "lezioni" Cucchi ne riceva dai suoi custodi della Penitenziaria una prima e una dopo l'udienza del suo processo. Ma ha visto. E ha deciso di non dimenticare.
Alessandro - 12/11/2009 - 12:57
da Liberazione dell' 11 novembre 2009
Il potere dichiara che il giovane arrestato di nome Gesù figlio di Giuseppe è morto perché aveva le mani bucate e i piedi pure, considerato che faceva il falegname e maneggiando chiodi si procurava spesso degli incidenti sul lavoro. Perché parlava in pubblico e per vizio si dissetava con l´aceto, perché perdeva al gioco e i suoi vestiti finivano divisi tra i vincenti a fine di partita. I colpi riportati sopra il corpo non dipendono da flagellazioni, ma da caduta riportata mentre saliva il monte Golgota appesantito da attrezzatura non idonea e la ferita al petto non proviene da lancia in dotazione alla gendarmeria, ma da tentativo di suicidio, che infine il detenuto è deceduto perché ostinatamente aveva smesso di respirare malgrado l’ambiente ben ventilato. Più morte naturale di così toccherà solo a tal Stefano Cucchi quasi coetaneo del su menzionato.
adriana - 14/11/2009 - 08:18
da La Repubblica del 17 novembre 2009
FIRENZE - Avrebbe compiuto 18 anni tra qualche giorno. Dietro le sbarre. Ma, schiacciato da una detenzione che non sopportava più, ha deciso di farla finita e si impiccato. La vittima è un giovane marocchino detenuto nell'istituto penale minorile Meucci di Firenze. Era arrivato lì da poco tempo. Le forze dell'ordine lo avevano sorpreso a Lucca mentre cercava di rubare. Tentato furto era l'accusa per cui era detenuto: il processo era stato fissato per il 23 novembre prossimo.
Una storia di solitudine e di disagio profondo quella del giovane venuto dal Magreb e finita in un penitenziario. "Era solo ed aveva bisogno di un altro tipo di assistenza", rivela Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti del Comune di Firenze. Forse gli addetti non hanno capito il suo disagio, così come i suoi compagni di cella non hanno intuito che qualcosa di tragico si stava consumando a un metro da loro. E tra chi si occupa di giustizia minorile ora c'è sconforto e dolore.
Sono le 18, è il momento della doccia. Tocca al giovane marocchino: poche parole con gli altri tre detenuti e l'ingresso nel bagno. Il ragazzo ha già deciso tutto: porta con sè un lenzuolo lo bagna, lo arrotola, lo lega stretto alle sbarre della finestra del bagno. Poi apre l'acqua della doccia, forse per coprire eventuali rumori: sale su una scarpiera, si lega il lenzuolo al collo, si lascia cadere e muore impiccato.
Il giudice non lo vedrà, mentre della sua vicenda si sta già interessando il sostituto procuratore della repubblica di Firenze Tommaso Coletta.
A scoprire il cadavere del giovane sono stati gli agenti della sorveglianza, chiamati dai compagni di cella che non vedendo uscire il magrebino dal bagno si sono allarmati. Lo hanno chiamato più volte. Dal bagno nessuna risposta, solo il rumore dell' acqua aperta nella doccia. Così sono intervenuti gli agenti che hanno scoperto il ragazzo con il lenzuolo al collo. C'è stato un tentativo per rianimarlo, ma subito i soccorritori si sono accorti che nulla era possibile fare per salvarlo.
Alessandro - 18/11/2009 - 07:58
Dal 2000 ad oggi i morti sono stati 1.542
Associazione Ristretti Orizzonti
In carcere si muore con frequenza allarmante e spesso a morire sono persone giovani e giovanissime: delle 11 persone decedute in questo mese di novembre soltanto 3 avevano più di 50 anni, le altre 8 sono state stroncate dal "mal di carcere", che si traduce in suicidi, in overdose, ma a volte anche in morti per motivi apparentemente inspiegabili. A denunciarlo, in una nota, è l'associazione Ristretti Orizzonti, che indica in 159 i detenuti uccisi dal "mal di carcere" dall'inizio del 2009. Il caso più recente rilevato è quello di Alessio Scarano, 24 anni, ritrovato l'altra sera agonizzante nella sua cella del carcere di Cuneo. La famiglia solleva pesanti dubbi sull'accaduto: "Ci hanno detto che è morto per cause naturali ma lui stava bene, non aveva alcun problema fisico. Voglio sapere come è morto mio nipote - dice Graziella Marchese, 71 anni, nonna di Alessio - se è stato picchiato, se è stato ucciso da qualcuno". Dal 2000 ad oggi le morti in carcere sono state 1.542: un terzo aveva meno di 30 anni e un altro terzo tra i 30 e i 45 anni. Il 60% era in attesa di giudizio, quindi, "tecnicamente" - sostiene Ristretti Orizzonti - in 10 anni più di 1.000 persone "innocenti" sono morte in carcere. In molti casi questa "non colpevolezza" era reale, non soltanto formale, dato che - si sostiene nella nota - il 40% delle persone incarcerate viene poi assolto a processo. L'associazione traccia poi un paragone tra le morti nelle carceri italiane per "cause violente" (i casi riconosciuti ufficialmente come suicidi o omicidi), e quelle nei penitenziari degli Stati Uniti: in Italia un detenuto ogni 1.000, mentre nelle carceri Usa uno ogni 4.000 circa. Negli anni '80 la frequenza delle morti violente nelle carceri americane era superiore a quella italiana, ma dopo una serie di interventi (la costituzione di uno staff composto da 500 operatori, in prevalenza psicologi, che si e' fatto carico della formazione permanente del personale penitenziario) sulla prevenzione del suicidio e degli atti violenti, il tasso di suicidi e omicidi si é ridotto di quasi il 70%. Dalla metà degli anni '90 a oggi questo livello e' rimasto pressoché costante negli Usa, malgrado l'aumento considerevole della popolazione detenuta. In Italia il tasso di mortalità dei detenuti per "cause violente" negli ultimi 30 anni si è mantenuto su valori costanti, con "picchi" di suicidi in corrispondenza delle situazioni di massimo affollamento degli istituti di pena. Sul fronte della prevenzione, Ristretti Orizzonti ricorda due circolari, una del 1987, l'ultima del 2007, con cui il Dap ha dettato le regole di accoglienza per i nuovi giunti. "Provvedimenti - sottolineano - che non sembrano avere avuto una particolare incidenza, anche perché il personale penitenziario che dovrebbe garantirne la messa in pratica (psicologi, educatori, etc.) è scarsissimo, basti pensare che mediamente un detenuto ha a disposizione 10 minuti di assistenza psicologica in un anno, mentre un educatore potrà dedicargli circa un'ora ogni mese (almeno teoricamente, perché nella realtà la maggior parte del tempo viene dedicato all'espletamento di pratiche burocratiche)".
Alessandro - 27/11/2009 - 10:36
La direzione delle carceri accusa agenti e funzionari: «Ci sono responsabilità a tutti i livelli»
da Il Corriere della Sera del 4 dicembre 2009.
ROMA — Stefano Cucchi «ha concluso la sua vita in modo disumano e degradante», mentre era nelle mani dello Stato e della sua burocrazia. Gli elementi che il 22 ottobre hanno portato alla morte del trentunenne detenuto in un reparto d'ospedale, a una settimana dall'arresto per qualche grammo di hashish, sono l'esempio «di una incredibile, continuativa mancata risposta alla effettiva tutela dei diritti, in tutte le tappe che hanno visto Stefano Cucchi imbattersi nei vari servizi di diversi organi pubblici». Mancanze che «si sono susseguite in modo probabilmente non coordinato e con condotte indipendenti tra loro», ma questo non assolve nessuno. A cominciare dal personale dell'amministrazione penitenziaria, agenti compresi. Le possibili colpe di «altri organi e servizi pubblici» dai quali Cucchi è transitato, non attenuano «la responsabilità di quanti, appartenendo all'amministrazione penitenziaria, abbiano partecipato con azioni e omissioni alla catena della mancata assistenza».
Sono le conclusioni a cui è giunta l'indagine della Direzione generale delle carceri sulla fine del tossicodipendente arrestato dai carabinieri e deceduto all’ospedale «Sandro Pertini» di Roma, dov’era stato ricoverato per le fratture subite. Picchiato nelle celle di sicurezza del tribunale di Roma dagli agenti penitenziari, secondo l'ipotesi della magistratura; non si sa dove, quando e da chi, secondo l'Amministrazione penitenziaria che ha potuto acquisire solo alcuni atti giudiziari, non tutti quelli richiesti. Ora la relazione della commissione formata da Sebastiano Ardita, Maria Letizia Tricoli e Federico Falzone e altri funzionari del Dap è stata inviata alla Procura di Roma, che la valuterà e ne trarrà eventuali conseguenze.
Vomito e sporcizia nelle celle
Sugli agenti carcerari l'ispezione dà atto delle «condizioni lavorativamente difficili» in cui gestiscono gli arrestati e i detenuti in attesa di giudizio nei sotterranei del tribunale di Roma. Ma spiega che «risulta difficile accettare che il personale non sia stato posto a conoscenza neppure dell’esistenza della circolare per l'accoglienza dei 'nuovi giunti' (quella con le regole sulla 'prima accoglienza' ai detenuti, ndr)» . Non c'era, ad esempio, il registro coi nomi degli arrestati e l'annotazione dei movimenti con gli orari. «Appare incomprensibile — prosegue la relazione — la mancata attuazione di alcuni requisiti minimi di ordine amministrativo già previsti, e la mancata segnalazione di taluni gravi aspetti disfunzionali su carenze di carattere igienico sanitario e sulla gestione degli arrestati».
Tradotto dal linguaggio burocratico, significa che le camere di sicurezza del tribunale di Roma versano in condizioni degradate e degradanti, perché hanno spazi ridotti, non ci sono servizi igienici, non prendono aria né luce dall'esterno ed è possibile che lì vengano richiuse persone rimaste a digiuno anche da ventiquattr'ore: «All'atto del sopralluogo le condizioni igieniche presentano evidenze di materiale organico ormai essiccato sui muri interni (vomito) che risultano in parte ingialliti e sporcati con scritte. Sul pavimento, negli angoli, si rilevano accumuli di sporcizia».
La notte dell’arresto
Lì, secondo gli elementi d'accusa raccolti finora dalla Procura di Roma, Stefano Cucchi è stato aggredito dagli agenti penitenziari, subendo le fratture che hanno portato al ricovero sfociato nella morte del paziente-detenuto. Gli ispettori del Dap non traggono conclusioni sul pestaggio (per cui sono indagate tre guardie carcerarie e non i carabinieri che avevano arrestato Cucchi la sera prima dell'udienza in tribunale, i quali hanno riferito e dimostrato di non essere stati presenti nelle camere di sicurezza del tribunale) rimettendosi alle conclusioni dell'indagine giudiziaria. Però indicano la cronologia degli eventi attraverso le testimonianze, a cominciare da quella dell’infermiere del Servizio 118 che visitò Cucchi la notte dell'arresto, tra il 15 e il 16 ottobre, nella stazione dei carabinieri di Torsapienza. Trovò il giovane interamente coperto, e poco o per nulla collaborativo. «Ho cercato di scoprirgli il viso per verificare lo stato delle pupille e guardarlo in volto... C'era poca luce perché nella stanza non c’era la luce accesa... Ho potuto notare un arrossamento, tipo eritema, sulla regione sottopalpebrale destra. Non potevo vedere la parte sinistra perché il paziente era adagiato su un fianco».
L'infermiere, visto che Cucchi «comunque rispondeva a tono e rifiutava ogni intervento», se n’è andato dopo mezz’ora. I carabinieri avevano chiamato il 118 «riferendo di una crisi epilettica», ma il neurologo dell’ospedale «Fatebenefratelli » che ha visitato il detenuto la sera del 16 ottobre riferisce che Cucchi «precisò che l’ultima crisi epilettica l’aveva avuta diversi mesi fa». Al dottore, come ad altri, Cucchi disse che era «caduto dalle scale», ma nella relazione del Dap sono riportate anche testimonianze di altro tenore.
Viso tumefatto
L’assistente capo della polizia penitenziaria M.D.C. ricorda che lo vide passando nelle celle degli arrestati «nella tarda mattinata, tra l’una e le due», del 16 ottobre: «Aveva il viso appoggiato sullo spioncino aperto, ho notato che aveva il viso tumefatto, di un evidente colore marrone scuro». Un altro assistente capo, L. C., che portò il detenuto dal carcere di Regina Coeli al «Fatebenefratelli» e al «Pertini» ricorda: «In un momento in cui sono rimasto solo con Cucchi gli ho chiesto cosa era successo, mi ha risposto con una voce alterata e forte 'è successo fuori, voglio parlare urgentemente col mio avvocato'. Io non ho detto più niente».
C'è poi la testimonianza dell'ispettore capo A.L.R., su Cucchi che disse come «durante la notte», dopo l’arresto, aveva avuto un incontro di box, e gli altri detenuti risposero ironici: «Sì, ma tu facevi il sacco». E c’è la deposizione dell’assistente capo B.M., che perquisì Cucchi già pesto e dolorante il pomeriggio del 16 ottobre, all’ingresso a Regina Coeli: «Gli ho detto, in maniera ironica e per sdrammatizzare, 'hai fatto un frontale con un treno', e lui mi ha risposto che era stato 'pestato' all'atto dell'arresto». Quanto al ricovero nel reparto carcerario dell’ospedale «Pertini» — a parte l’odissea vissuta dai genitori di Cucchi che non sono riusciti a vederlo né ad avere notizie, e hanno saputo della morte solo dalla notifica del decreto che disponeva l’autopsia — il giudizio finale è che «le regole interne dell’ospedale abbiano finito per incidere perfino su residui spazi che risultano assolutamente garantiti nella dimensione penitenziaria. Ragione per cui il trattamento finale del degente-detenuto è risultato essere la somma di tutti i limiti del carcere, dell’ospedale e della burocrazia».
Giustificazioni inqualificabili
Per gli ispettori questa vicenda «rappresenta un indicatore di insufficiente collaborazione tra responsabili sanitari e penitenziari», e certe giustificazioni avanzate da alcuni responsabili «non meritano qualificazione». In conclusione, «risulta censurabile l'operato complessivo nei confronti del detenuti Cucchi e dei suoi familiari, in particolare nell’ambito del 'Pertini', laddove non è stata posta in essere delle prescrizioni volte all'accoglienza e all'interpretazione del disagio del detenuto tossicodipendente ».
Alessandro - 4/12/2009 - 11:49
da Repubblica on line
ROMA - Storia di Stefano Cucchi. Entrato in carcere da vivo e uscito cadavere. Una storia che ha scosso l'opinione pubblica, inchiodata dalle pubblicazione delle foto di quel ragazzo, senza più vita, con il corpo pieno di lividi e il volto magrissimo. Esce in libreria Non mi uccise la morte (Castelvecchi, 113 pagine). Storia a fumetti, o graphic novel, come si dice oggi. Nasce dalla penna di Luca Moretti e Toni Bruno. E' storia "che riguarda tutti". La storia "di un abbraccio che è stato negato".
Sono tavole in bianco e nero. E di nero, di oscuro, c'è molto in questa vicenda. Dall'arresto di Stefano al suo arrivo in carcere, alla sua morte in ospedale. Nel mezzo lo stupore, l'incredulità dei genitori e della sorella che, a poco a poco, diventa sgomento. Loro, che sapranno della morte del figlio da una fredda comunicazione burocratica. C'è il calvario di Stefano e quelle celle dove è rinchiuso. Le percosse, i silenzi. Il buio della giustizia. E pagina dopo pagina, tavola dopo tavola, Stefano cambia. Il volto si scava sempre di più, gli occhi si riempiono di dolore. Fino a quelle piaghe sul corpo diventate pubbliche dopo la scelta della famiglia di pubblicare le foto sui giornali. C'è l'angoscia, crescente, della madre, del padre e della sorella, che si scontrano contro l'impossibilità di avere notizie del figlio ormai morente e ricoverato in ospedale. E quando l'autorizzazione per vederlo arriva è troppo tardi. Stefano non c'è più. Si è spento per "sopraggiunta morte naturale". Poteva finire così questa storia. Ma non è finita così.
La famiglia non si è arresa. E la storia di Stefano da privata è diventata pubblica. E come tale esposta ad ogni affondo. Ed allora a pagina 77 ecco i volti dei ministri Alfano e Giovanardi che liquidano così la vicenda: "Si tratta di una caduta accidentale dalle scale. Cucchi è morto perché anoressico, drogato e sieropositivo". Altri volti, soffenti ma decisi. Sono quelli dei genitori e della sorella che chiedono giustizia.
"Abbiamo deciso di pubblicare questo libro per due motivi - dice Cristiano Armati, direttore editoriale di Castelvecchi - perché siamo una casa editrice romana e questa storia ci ha toccato da vicino e perché vogliamo valorizzare la narrativa che viene dalla strada e storie come quella di Stefano Cucchi sono l'esempio di una poetica a cui ci ispiriamo".
I fumetti, di solito, raccontano storia iperboliche, inverosimili, esagerate. A volte dure e violente. Ma è solo finzione. Chiuso il libro, la storia finisce. Non stavolta, Non questa storia.
Il fumetto
daniela -k.d.- - 30/3/2010 - 14:56
Pare che in passato avesse fatto parte delle Unità Comuniste Combattenti. Mi pare che questo gruppo abbia operato solo brevemente alla fine degli anni 70 e che non sia responsabile di omicidi.
Fallico, arrestato nel 2009, era sotto processo per la sua presunta adesione alle Nuove Brigate Rosse, per un progettato attentato mai eseguito ad una caserma della folgore e per un altro, sempre presunto, che avrebbe dovuto essere realizzato in occasione dell'ultimo G8, prima che dalla Maddalena fosse spostato all'Aquila...
Nelle scorse settimane, pure nel corso di un udienza, Fallico si era sentito male lamentando fortissimi dolori al petto, che non gli erano mai passati... Gli hanno solo misurato la pressione nell'nfermeria del carcere, nessun ricovero per accertamenti medici...
Hanno lasciato morire in carcere l'ennesimo detenuto in attesa di giudizio... Il caso è chiuso per sopravvenuta morte dell'imputato... Tanto era solo un terrorista...
Intanto i morti nelle carceri italiane negli ultimi cinque mesi sono già una settantina...
Da La Repubblica
Bartleby - 24/5/2011 - 08:30
unicamente quería señalaros que carcelero en español se escribe con "c" no con "s": cárcel - carcelero.
Un saluto a tutti
Francisca - 2/7/2011 - 18:26
Lorenzo - 2/7/2011 - 23:40
Quizás, por su manera de escribir, "Forges" sólo sea comprensible para los castellano-parlantes, incluso sólo para los españoles, pero, de todas formas, para quién esté interesado, dejo unos cuantos enlaces:
¿Quién es?
Actualmente, pero no sólo, dibuja en el diario español El País:
Y ésta es su página web.
Espero haber aclarado el problema y, sobre todo, dar a conocer a la gente de todo el mundo el arte y la personalidad de este genio del humor crítico.
Gustavo Sierra - 4/7/2011 - 15:18
Lorenzo - 4/7/2011 - 15:31
Album "Forgesound"
Parole e musica di Jesús Munárriz e Luis Eduardo Aute.
"E' vero che il detenuto ha fatto così ma è anche vero che lo ha massacrato in sezione. E in sezione non si può massacrare un detenuto, si massacra sotto. Abbiamo rischiato la rivolta perché c'era il negretto, il negro che ha visto tutto..."
Registrazione della voce di Giovanni Luzi, comandante della polizia penitenziaria del carcere di Castrogno a Teramo, mentre dà indicazioni ai suoi subordinati circa le modalità con cui trattare i detenuti posti sotto la custodia dello Stato (ottobre 2009)
Canzone trovata su Cancioneros.com