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װאַרשע

Bentsion Vitler [Ben-Zion Witler] / בנציון וויטלער
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Traduzione italiana di Riccardo Venturi
VARSHEVARSAVIA
  
In hartsn do bay mir brent a fayerlNel mio cuore brucia un focherello
Af dem vos iz avek—per ciò che non c'è più. *1.
Krokhmalne un di Nalevki,La via Krochmalna, la via Nalewki,
Un di Smotsha un di Lazienski.la via Smocza, la via Lazieński. *2
Khasidimlekh, nigidimlekh,Chassidim, benpensanti,
Tsionistelekh, bundistelekhsionisti e bundisti *3
Gekemft dortn gor on an ek.si battagliavano senza sosta.
Ikh vil probirn fargesn hayntVoglio provare a dimenticare, oggi,
Vos hot tsu dir geton der faynt,quel che il nemico ti ha fatto,
Un zogn itst tsu dire dirti adesso
Mit betokhn on a shir:con fiducia sconfinata:
  
Varshe mayn, du vest vider zaynVarsavia mia, sarai di nuovo
A yidishe shtot vi geven.una città ebraica come allora.
Varshe mayn, du vest vider zaynVarsavia mia, sarai di nuovo
Ful mit yidshn kheyn.piena di fascino e grazia ebraica. *4
  
Unter grininke boymelekhSotto gli alberi verdi
Veln Moyshelekh un Shloymelekhi piccoli Mosè e Salomoni *5
Lebn un shtrebn azoy vi frier.vivranno e sogneranno come prima.
Fabrikelekh, melikhelekh,Fabbrichette, laboratori,
Khadorimlekh un shilekhlekhscuole e sinagoghe, *6
Vider oyfboyen veln mir.noi le ricostruiremo
Khokhme un kulturper avere come un tempo
Tsu hobn aza yor.saggezza e cultura. *7
Vi sheyn dayn yidish lebn iz geven!Com'era bella la tua vita ebraica!
  
Varshe mayn, du vest vider zaynVarsavia mia, sarai di nuovo
Hartsik yidish vi es iz geven.ebraica davvero come allora.
Varshe mayn, du vest vider zaynVarsavia mia, sarai di nuovo
Ful mit yidshn kheyn.piena di fascino e grazia ebraica.
NOTE alla traduzione

[1] Alla lettera: “per ciò che è via” [avek].

[2] Nella canzone, Ben-Zion Witler nomina parecchie delle strade del ghetto di Varsavia, col loro nome polacco (“yiddishizzato” nel testo originale, ma riportato qui nella forma polacca autentica). Una di esse è famosissima nella letteratura mondiale: nella via Krochmalna, infatti, dal 1908 al 1917 aveva abitato (al n° 10) il futuro vincitore del Premio Nobel per la letteratura Isaac Bashevis Singer (il quale, peraltro, ha sempre scritto in yiddish). Singer è stato l'autentico cantore della via Krochmalna e della vita che vi si svolgeva.

[3] Qui sono nominate le principali correnti della vita della Varsavia ebraica: i chassidim (ebrei ortodossi), i “benpensanti” (nigidim) che erano i principali oppositori dei chassidim e desideravano l'integrazione con la vita nazionale polacca, i sionisti che propugnavano il ritorno in Palestina e i “bundisti”, vale a dire i socialisti del Bund (“Lega”) seguaci di Theodor Herzl. Quel che è da mettere però in risalto, è che tutti questi termini sono espressi mediante dei diminutivi (come fossero “chassidini, benpensantucci, sionistini, bundistelli” eccetera). Si tratta di una cosa del tutto propria dello yiddish, lingua nel quale il diminutivo esprime tutto e tutto viene espresso mediante diminutivi. E', naturalmente, una cosa del tutto intraducibile: in yiddish il diminutivo -oltre ad essere usato in senso proprio- esprime tutta una serie di sentimenti che vanno dalla comunanza all'ironia, dall'affetto alla critica, dallo spregio alla complicità; e altri ancora. Non è raro che gli abitanti dei ghetti e degli shtetl parlassero di se stessi, ed anche tra loro, come yidelekh (singolare: yidl), vale a dire “ebreucci”. E' possibile mettere il suffisso del diminutivo, in yiddish, a ogni cosa: sostantivi, aggettivi, avverbi (yitstl “proprio ora, ora-ora”) e persino verbi. Il fatto che l'autore qui usi il diminutivo indica, chiaramente, quel senso di comunità che esisteva nel quartiere ebraico di Varsavia; ma anche l'affetto ed il rimpianto che, in quel momento, l'autore provava per qualcosa di irrimediabilmente scomparso.

[4] Il termine kheyn è ebraico: “fascino, grazia”. O meglio, tutte e due le cose assieme. Altra parola legata indissolubilmente all'ambiente, e quindi del tutto intraducibile; la si potrebbe rendere meglio, forse, col francese “charme”.

[5] “Mosè” (Moyshe) e “Salomone” (Shloyme) sono fra i nomi ebraici più comuni e indicano quindi gli “ebrei” tout court. Anche qui, naturalmente, messi al diminutivo (Moyshelekh, Shloymelekh). La cosa non significa necessariamente che si tratti di bambini, anche se è possibile; è, ancora una volta, segno di comunanza e affetto per le figure che popolavano il quartiere.

[6] Altra serie di diminutivi. Per “fabrikelekh” si può usare almeno in un caso il diminutivo italiano “fabbrichette”: in spazi ristrettissimi come quelli dei ghetti era impossibile avere alcunché di grande. Per “laboratori” (ovvero: piccoli laboratori) lo yiddish usa un ebraismo, melokhe (al diminutivo: melikhl, plurale melikhelekh). Il termine significa però anche "lavoro, impiego" tout court, e si potrebbe quindi rendere anche con "lavoretti": una parola davvero "napoletana", che indica l'arte di arrangiarsi. Quel che viene tradotto con “scuole”, khadorimlekh è in realtà il kheyder (plurale: khadorim, altro ebraismo), vale a dire le scuole tradizionali religiose ebraiche nelle quali si insegnavano ai bambini la lingua ebraica e il Talmud in preparazione al bar mitzvà. Nei ghetti dell'Europa orientale, i bambini andavano a scuola, in generale, a quattro anni di età. Viceversa, il termine di derivazione tedesca, shul (da Schule), indicava generalmente la “sinagoga”: alle sinagoghe era annessa la scuola superiore, quella dove si perfezionavano il Talmud e la Torah.

[7] L'ebraismo khokhme è una parola nella quale è presente davvero l'anima dello scomparso ebraismo est-europeo. Il termine significa, infatti, sia “saggezza” (come qui ho tradotto), sia “scherzo, ironia”. Come dire: l'unica vera saggezza si manifesta con l'ironia, e l'ironia è segno di acquisita saggezza. Non c'è da aggiungere altro. Si noti l'uso parallelo della parola tedesca Kultur: anche nel ghetto di Varsavia, gli ebrei tendevano alla cultura secolarizzata e all'inserimento nelle correnti culturali europee, che significavano principalmente: acquisizione della lingua e della cultura tedesca. La maggior parte degli ebrei est-europei studiavano e conoscevano perfettamente il tedesco, strumento necessario per l'arricchimento culturale; lo parlavano però, di solito, con un terribile accento yiddish, in particolare con la famosa "erre moscia" ashkenazita che è trasmigrata come caratteristica fonetica nell'ebraico moderno.

Il modo in cui sono stati ripagati è evidente.


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