| Versione italiana di Gershon Tarshish |
STORIA DI UN'ECATOMBE | L'ECATOMBE |
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Al mercato è successo stamane | Al mercato di un posto qualunque |
Che, per quattro verdure avariate, | per un mazzo di cipolle rosse |
Un gruppetto di grosse villane | alcune massaie venivano al dunque |
Cominciarono a darsi mazzate. | e incominciavano le percosse. |
A piedi ed in macchina, ecco | A cavallo in volante a piedi |
Degli sbirri, immaginerete, | la forza pubbica mal consigliata |
intromettersi nel battibecco, | arrivò lesta sui marciapiedi |
perché non si disturbi la quiete. | per interrompere la litigata. |
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Chissà come? Anche se è intrisa, | Spesso si disputa in compagnia |
la terra, di guerre, all'idea | ma c'è un usanza consolidata: |
di tirar calci in culo ad un ghisa | Se è per percuotere la polizia |
tutt'un popolo, a un tratto, s'allea. | la pace è subito stipulata. |
E alla vista del distintivo, | Le furie infatti, perdendo ogni freno, |
rimboccandosi, le matrone | lanciaronsi contro la sbirraglia |
si riguardan con fare aggressivo | donandoci, in meno di un baleno, |
e s'avventano contro il plotone. | uno spettacolo di gran vaglia. |
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Gli sbirri a me stan tanto a cuore, | Mentre le guardie andavan vicino |
che quand'uno tombolava giù, | a ritirarsi da quel certame |
mi struggevo dal dolore | io gongolavo perché il celerino |
perché non ne buscasse di più. | l'amo soltanto come carcame. |
Dal balcone, il mio sussidio | Gridavo “evviva” col cuor che sorride |
Che prestavo, da vero ultrà, | alle braccia spietate e violente |
a quel poliziotticidio | delle megere gendarmicide |
era "Forza! Hip hip - urrà!" | che mi godevo con gioia crescente. |
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Un agente, col manganello, | Una di loro, furiosa, si scaglia |
che su d'una s'era lanciato, | sul maresciallo e, la lancia in resta, |
si trovò, come un fringuello, | gli fa gridare “morte alla sbirraglia! |
a cantare "A morte lo Stato!" | Morte alla legge! Viva Malatesta!” |
Afferrandogli la nappa, | L'altra la testa da sbirro di uno |
la più obesa di quelle megere | infila con poca cortesia |
s'infilò tra chiappa e chiappa | laddove le pare più opportuno: |
la cocuzza del brigadiere. | là sotto, passatemi l'eufemia. |
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Una con di Giunone più latte, | La più grossa di queste signore |
si scopre le tette e fracassa, | aprendo il corpetto già dilatato |
come in faccia gliele sbatte, | mena gran botte e, di buon umore, |
chi, per sbaglio, accanto le passa. | colpisce chiunque le passi allato. |
Neanche uno non soccombe: | Così questi cadono cadono cadono, |
tutti tombolano a terra! | e, dicono quelli più preparati, |
Una simile ecatombe | quest'ecatombe, fra quelle che accadono |
Non si ha neanche in tempo di guerra. | fu la più bella sin dai tempi andati. |
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Dopo questo bel gioco di squadra, | Giudicando le guardie allo stremo, |
ritornando ai propri affari, | peste abbastanza e abbastanza frolle, |
la combriccola leggiadra | le nostre erinni, ad oltraggio supremo |
era insoddisfatta, magari! | tornarono calme alle loro cipolle; |
Ma fallirono, gloria agli dei, | Avrebbero ancora, e quasi balbetto |
le miriadi di tentativi | nel dirlo, curato a questi corrivi |
di tagliargli gli zebedei, | il varicocele con un taglio netto: |
perché tutti ne eran già privi! | fortuna! Di gonadi erano privi. |