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Canzone per Giulio Regeni

Raffaele Di Palo
Lingua: Italiano


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2018

Verità


È costellata di silenzi, depistaggi e verità nascoste, la ricerca della verità sull’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore italiano sequestrato e ucciso in Egitto tra gennaio e febbraio 2016. La collaborazione giudiziaria tra la procura egiziana e i pm di Roma, è caratterizzata da un andamento incerto fin dal ritrovamento del corpo, il tardo pomeriggio del 3 febbraio, in un fosso che costeggia l’autostrada Cairo – Alessandria. Per l’Italia è un brusco risveglio. Il giovane ricercatore di Fiumicello, 28 anni appena compiuti, era scomparso la sera del 25 gennaio mentre si recava ad un appuntamento con un amico, il professore Gennaro Gervasio, dell’Università britannica del Cairo. Insieme avrebbero dovuto andare ad una festa a casa di amici. Ma Giulio non si presenterà mai all’appuntamento. Da quella sera del 25 gennaio, quinto anniversario della rivoluzione in Egitto, di lui si perde ogni traccia.
L’ambasciatore italiano Maurizio Massari è tra i primi ad arrivare alla camera mortuaria. Il diplomatico italiano – avvisato del ritrovamento da ‘amicizie personali’ nell’establishment egiziano – pretende di entrare ed effettua il primo riconoscimento della salma su cui ci sono evidenti segni di tortura.

Sulla vicenda Regeni, per la prima volta, cala il gelo tra Egitto e Italia. In gioco ci sono relazioni diplomatiche solide, un giro d’affari di miliardi di euro e una partnership commerciale che mai, prima d’ora, era entrata in crisi. Ma gli interrogativi sulla morte del giovane sono troppi: le poche certezze riguardano la data della scomparsa, il 25 gennaio, quella del ritrovamento del corpo, il 3 febbraio. In mezzo, nove giorni di ‘buio’ e i segni di torture troppo simili a quelle che i servizi di sicurezza riservano agli oppositori politici del governo, in un clima di totale impunità.
Vignetta
Il 4 febbraio, il direttore dell’Amministrazione generale delle indagini di Giza, il generale Khaled Shalabi, sostiene che “non c’è alcun sospetto crimine dietro la morte del giovane italiano Giulio Regeni”. In dichiarazioni esclusive al sito ‘Al Youm7′ il generale dichiara che le indagini preliminari parlano di un “incidente stradale”. È la prima di una lunga serie di bugie e depistaggi da parte delle autorità egiziane coinvolte nella vicenda.

Il giorno dopo, 5 febbraio, atterra al Cairo un team di sette uomini di Polizia, Carabinieri e Interpol per seguire le indagini. Intanto vengono smentite le notizie, circolate su alcuni organi di stampa, di collegamenti tra il giovane ricercatore e i servizi italiani.

La collaborazione tra le due procure inizia subito con il piede sbagliato: tra gli atti sollecitati da Roma e non consegnati dal Cairo ci sono i video delle telecamere a circuito chiuso delle zone in cui doveva transitare Regeni prima di scomparire e la completa documentazione su autopsia, celle telefoniche e verbali di interrogatori di importanti testimoni.

Il ricercatore Giulio Regeni, ucciso in Egitto

All’inizio di marzo un uomo di nome Mohammed Fawzy racconta di avere visto Regeni il pomeriggio del giorno prima della sua scomparsa che stava litigando furiosamente con un altro straniero vicino al consolato italiano al Cairo. Il 13 marzo Fawzy sostenne che il governo italiano era a conoscenza dell’identità dell’assassino del giovane studioso, ma che stava nascondendo le prove, aggiungendo che chiunque avesse ucciso Regeni voleva sabotare i rapporti commerciali tra Italia ed Egitto. É la “teoria del complotto” presto accantonata quando dai tabulati, si scopre che il pomeriggio del 24 gennaio all’ora in cui sarebbe stato visto litigare, Giulio in realtà parlava su Skype con la sua fidanzata.

La banda dei cinque

A irritare nuovamente gli inquirenti e l’opinione pubblica italiana, dopo le allusioni di alcuni giornali egiziani sulla presunta omosessualità di Giulio e sulle sue frequentazioni, un articolo diffuso da Al Watan nel mese di marzo, che mette in relazione l’omicidio di Regeni con una banda di rapitori di occidentali sgominata al Cairo. Secondo il quotidiano, i cinque – tutti morti in un blitz delle forze dell’ordine – sarebbero stati proprio i responsabili del sequestro, della tortura e dell’uccisione del ricercatore. A casa di uno di loro, infatti, vengono ritrovati il passaporto di Regeni, la sua carta d’identità italiana, una carta di credito e il suo tesserino dell’Università di Cambridge. Ma la storia venne smontata in poco tempo, e venne fuori che, al momento della scomparsa di Regeni, il capo della banda criminale si trovava a più di 100 chilometri dal luogo del sequestro. La denuncia dei familiari dei 5 uccisi, che rivelano un complotto ai loro danni, avvalora le ipotesi di un qualche tipo di coinvolgimento delle forze di sicurezza egiziane.

L’8 aprile L’Italia decide di richiamare l’ambasciatore Massari a Roma “per consultazioni”. Al suo posto, sarà nominato qualche mese dopo Giampaolo Cantini che tuttavia non si è ancora insediato al Cairo. È un passo ponderato quanto significativo. Secondo la famiglia Regeni l’assenza di un rappresentante diplomatico italiano in Egitto per questi lunghi mesi, è stata decisiva per fare pressione sulle autorità egiziane.

La tesi sui sindacati indipendenti

Sulla stampa italiana, la cortina di silenzio calata sugli abusi commessi dal governo egiziano viene squarciata, scoprendo che la stessa sorte toccata a centinaia di egiziani negli ultimi due anni può abbattersi su un giovane ricercatore occidentale, cittadino europeo, studente appassionato e brillante. Quello che qualcuno, con una sintesi particolarmente indovinata, ha definito “la meglio gioventù” del nostro paese e non solo.

“L’ho potuto riconoscere solo dalla punta del naso”, riferisce in conferenza stampa la madre Paola Deffendi, subito dopo aver visto il corpo devastato del figlio, “Non vi dico cosa hanno fatto a quel viso. Ho pensato che tutto il male del mondo si fosse riversato su di lui”.

Nell’attesa di una verità che tarda ad arrivare, Amnesty International indice una campagna che colora il web e le facciate di enti locali, comuni e università dal nord al sud d’Italia. Chiede, nero su giallo, “Verità per Giulio Regeni”.

Intanto sui mezzi d’informazione nostrani si traccia un profilo di Giulio Regeni sempre più accurato: il giovane – dottorando presso l’Università di Cambridge – si trovava al Cairo per lavorare a una tesi sulle prospettive dell’economia egiziana e sui sindacati indipendenti.

Nel mosaico di dettagli che pian piano si ricompone, spunta una data importante: l’11 dicembre 2015. Giulio si era recato ad un’assemblea convocata con l’obiettivo di riunire il fronte dei sindacati contro la riforma del lavoro. Nella sala ci sarebbero state un centinaio di persone, ma quello che colpì il ricercatore fu la presenza di qualcuno che scattava foto con un telefonino e che ne avrebbe scattate diverse anche a lui. Due settimane dopo, secondo le fonti, la polizia cercò Regeni nella sua abitazione senza trovarlo.

La ricerca della verità tra depistaggi e omissioni

Ma bisogna aspettare il 7 settembre per avere una prima, timida svolta sul caso: gli inquirenti del Cairo ammettono per la prima volta l’interessamento della polizia a Regeni nei primi giorni di gennaio a seguito di un esposto presentato dal capo del sindacato degli ambulanti, Mohamed Abdallah.

Dai tabulati di Abdallah emergono contatti continui con la sede centrale della Sicurezza Nazionale a Nasr City. Vengono identificati i poliziotti a cui forniva informazioni, quelli che hanno effettuato accertamenti sul giovane dopo l’esposto del sindacalista. I magistrati cairoti tengono a precisare che questi accertamenti sono durati “solo tre giorni” a inizio gennaio e si sono conclusi con un nulla di fatto. Vengono identificati anche i poliziotti coinvolti nell’uccisione della ‘banda dei cinque’, accusati di essere responsabili della morte di Giulio.

Il 28 dicembre Abdallah dichiara in un’intervista all’Huffington Post arabo di aver denunciato Regeni: “Noi stiamo dalla loro parte, Giulio faceva troppe domande sulla sicurezza nazionale. Lo avranno ucciso le persone che lo hanno mandato qua, dopo che io l’ho fatto scoprire. Sono orgoglioso di averlo fatto e ogni buon egiziano, al mio posto, avrebbe fatto lo stesso” afferma.

Il 23 gennaio, un’emittente egiziana diffonde la registrazione di un video in cui Giulio e Abdallah parlano insieme. A registrarlo, all’insaputa di Giulio, è il sindacalista insiste a chiedergli soldi per cercare di farlo cadere in trappola. Ma il giovane resta fermo sui suoi principi: “non sono soldi miei, non posso disporne come voglio”. Si parla di circa 10 milia sterline, una somma che Giulio avrebbe voluto richiedere per il sindacato dei venditori ambulanti attraverso la sua università e finalizzate ad un progetto di sviluppo.

I sospetti di un omicidio di Stato

Ne aveva parlato con Abdallah prima di rendersi conto che non era una persona di cui poteva fidarsi. Se ne accorgerà ai primi di gennaio, e annoterà sul suo diario che Abdallah è “una miseria umana”. Forse voleva tenere i soldi per sè, forse – più probabile – Abdallah vuole accreditarsi come fonte “privilegiata” di informazioni per i servizi di sicurezza. Fatto sta che denuncia Giulio come una “spia” e registra un video con una microcamera con l’intento di incastrarlo.

Al termine della registrazione, una frase di pochi secondi, è sufficiente a chiarire che la catena delle responsabilità nella morte di Giulio risale ben oltre il semplice venditore ambulante. Si sente chiaramente l’interlocutore di Giulio che dice: “Qui ho finito, venitemi a togliere l’attrezzatura”.

lifegate.it
Qua soffia un vento, come d'uragano,
dal buio mortale, violento del Cairo,
strade lambite da urla che invano
sgorgano sangue in un funesto coro.

Giulio resiste alle vili torture
di mostri umani nelle stanze del potere,
Giulio non parla, tiene serrati i nomi,
e in quell'eroico silenzio effonde lumi.

Vi riconosco, mostri della terra,
che avvelenate l'aria dove state,
dove pietà si estingue nella guerra,
nella violenza che voi rappresentate.

Verrà quel giorno che pagherete tutto, -
ma non c'è un prezzo per quel che avete fatto –
e il vento impavido ci soffierà vicino
quella speranza d'un fulgido mattino...

Giulio resiste alle vili torture
di mostri umani nelle stanze del potere,
Giulio non parla, tiene serrati i nomi,
e in quell'eroico silenzio effonde lumi,
e in quell'eroico silenzio effonde lumi,
e in quell'eroico silenzio effonde lumi...

inviata da Dq82 - 20/3/2018 - 23:21


Alaa Abd el-Fattah non deve finire sepolto e “insabbiato” come Giulio Regeni

Gianni Sartori

Il governo italiano sembrerebbe intenzionato, “dopo una comprensibile pausa dovuta allo shock per il caso Regeni” (cito testuale e traduco: un minuto di silenzio non si nega a nessuno), a ripristinare scambievoli rapporti (del resto mai interrotti, soltanto rallentati) in campo commerciale e militare con l’Egitto. Oltre alla fornitura di gas (liquefatto beninteso) al nostro Paese dal pozzo Zohr IX, torna in campo la fornitura all’Egitto degli aerei di Leonardo (trattative iniziate quando era ancora Finmeccanica). Si tratterebbe di 24 jet da addestramento (!?!) per i piloti dei caccia. Ma, ci spiega l’esperto “possono essere anche a loro volta armati” e comunque “anche sul training ci sarà probabilmente qualcosa da guadagnare”. E ci mancherebbe che non fosse così!

Inoltre l’Egitto sarebbe (condizionale d’obbligo) in trattative per acquistare qualche Eurofighter (di cui Leonardo detiene il 60%) e alcuni aerei Art 72Mp (ancora da Leonardo).

Da Fincantieri, infine, due fregate Fremm (già in navigazione in quanto consegnate all’Egitto (“in sordina”) tra la fine del 2021 e aprile di quest’anno (quindi par di capire quando era ancora in carica il ministro Guerini, governo Draghi).

Detto questo, nel frattempo in Egitto rischia di consumarsi l’ennesima violazione dei diritti umani.

Lo scrittore quarantenne Alaa Abd el-Fattah si trova rinchiuso nel carcere di Wadi al-Natroun (non lontano dal Cairo) per le sue attività politiche avendo partecipato alle proteste sia nel 2011 che nel 2019. Dopo quello della fame ora è entrato anche in sciopero della sete, nonostante i suoi gravi problemi di salute. In gran parte conseguenza di un precedente sciopero della fame durato oltre 200 giorni.

Non è chiaro di quanto seriamente se ne sia discusso al vertice per la COP27 di Sharm el Sheik. Pare sia intervenuto, sollecitando una rapida soluzione, un portavoce di Downing Street (il detenuto oltre a quella egiziana detiene la cittadinanza britannica) mentre Macron avrebbe avuto precise garanzie sulla tutela della salute di Alaa Abdel Fattah dal governo egiziano. Ma senza fornire un quadro preciso.

Così come non sono state del tutto rassicuranti le dichiarazioni di Sameh Choukri (a capo della diplomazia egiziana e presidente della COP27) secondo cui “Alaa Abdel Fattah gode di tutte le cure necessarie”.

Preoccupazione legittima (visti i precedenti): non è che qualcuno sta pensando di ricorrere all’alimentazione forzata per caso?

Va comunque preso atto che sia Londra che Parigi (e in un secondo tempo anche Berlino e le Nazioni Unite, tramite Olaf Scholz, Volker Türk e António Guterres) hanno preso posizione in difesa del prigioniero politico e - pare - richiesto il suo rilascio direttamente al presidente Al-Sisi.

La settimana scorsa erano intervenuti sedici premi Nobel (tra cui Annie Ernaux, Wole Soyinka, Svetlana Alexievich, Mario Vargas Llosa, Patrick Modiano…) invitando i partecipanti al vertice a richiedere la liberazione sia dello scrittore in sciopero della fame, sia dei numerosi prigionieri politici egiziani segregati dietro le sbarre per reati d’opinione.

Tuttavia tali dichiarazioni sembrano non aver convinto del tutto i familiari di Alaa Abdel Fattah, in particolare la sorella Sanaa Seif presente a Sharm el Sheik. Già arrestato varie volte dal 2006, dall’inizio di aprile Alaa Abdel Fattah ingeriva giornalmente soltanto un bicchiere di tè e un cucchiaio di miele. Attualmente, come dichiarato dalla sorella in conferenza-stampa, è in sciopero totale, sia della fame che della sete. Con tutte le facilmente prevedibili conseguenze per la sua vita.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 10/11/2022 - 12:56




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