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Colonialismo

Gualtiero Bertelli
Lingua: Italiano


Lista delle versioni e commenti


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‎'Na volta me ricordo
(Canzoniere Popolare Veneto)
Stucky
(Gualtiero Bertelli)
Nina ti te ricordi
(Gualtiero Bertelli)


Il testo della canzone, così come la nota che segue, ci è stata inviata direttamente da Gualtiero Bertelli il 20 agosto 2006. Ringraziarlo di cuore è da parte nostra un enorme piacere e un gradito obbligo al tempo stesso.

Gualtiero Bertelli (a sinistra).
Gualtiero Bertelli (a sinistra).


"[...]A tale proposito te ne invio una che non ho visto, che non canto da tantissimo tempo, ma che è stata registrata, più volte, e cantata, molto, da Paola Nicolazzi. Il titolo è Colonialismo, è del 1972 (o forse addirittura '71) e la riprenderò nel nuovo lavoro che sto facendo [...]. La versione che ti invio ha piccoli aggiustamenti rispetto a quella cantata (benissimo) da Paola e li ho fatti giusto questa mattina pensando al suo riutilizzo." [Gualtiero Bertelli].
Che ci chiamate schiavi
questo mi fa tremare
mi fa paura però
mille volte di più
che ci chiamate liberi

La vostra libertà
fatta di sole parole
nasconde una verità
che la vostra pietà
non ci può far scordare

Liberi dalla fame
non lo siamo mai stati
e ogni pane che
avete dato a noi
ci costa fiumi di lacrime

Liberi di pensare
non lo siamo mai stati
libero non lo è
chi ogni giorno di più
sente che è duro vivere

Ci avete dato un pane
ci avete preso tutto
la terra che mi ha fatto
l’acqua che mi ha lavato
ora appartiene a voi

Intorno al mio deserto
c’è ora filo spinato
dove il cammello andava
lento e senza paura
scoppiano bombe e mitra

Anni di guerre infami
è quello che hai portato
in cambio del petrolio
dei soldi che hai rubato
hai seminato morte.

inviata da Gualtiero Bertelli [tramite RV] - 20/8/2006 - 19:28


GERMANIA: PIAZZE E STRADE DEDICATE ALLE VITTIME DEL COLONIALISMO TEDESCO
Gianni Sartori

Fa sempre piacere che una nazione abbia l’onestà intellettuale e si senta in dovere di rimediare, se pur tardivamente e simbolicamente, ai misfatti compiuti comunque in suo nome. Anche quando tali eventi risalgano ad un lontano passato (e l’Italia in questo - detto per inciso - non è certo una fonte di esempio, vedi il mausoleo per Graziani).

Tuttavia andrebbe anche precisato che oltre a denunciare le ingiustizie passate sarebbe cosa buona giusta evitare di compierne altre nel presente. Altrimenti, magari tra qualche anno, si dovrà chiedere ulteriormente scusa.

Ma andiamo con ordine.

Ai primi di novembre a Berlino una piazza e una via hanno subito un radicale cambio di denominazione.

Quella che finora era conosciuta come Nachtigalplatz (dedicata a un esponente del colonialismo tedesco) è diventata Manga Bell Platz, in memoria di Rudolf Duala Manga Bell e Emily Duala Manga Bell.

Rispettivamente re e regina di Duala, in Camerun, sono ricordati per aver contrastato il colonialismo tedesco e per questa resistenza il primo, Rudolf, venne giustiziato nel 1914.  

Analogamente Lüderitz Strasse, una strada dedicata al fondatore della colonia tedesca diventata (dopo un lungo periodo di occupazione da parte del Sudafrica che vi aveva introdotto l’apartheid) l’odierna Namibia indipendente.

Dal 2 novembre la via è diventata Cornelius Fredericks Strasse, in onore a un esponente della resistenza del popolo Nama (destinato a subire uno dei primi genocidi del XX secolo, fonte di ispirazione, come quello armeno, per Hitler).

Imprigionato per la sua ribellione, Cornelius Fredericks era destinato a morire in carcere.

Ottenere questo cambio di denominazione non è stato breve e nemmeno facile. La prima richiesta (sotto forma di una raccolta di firme) risaliva al 2019, ma appunto aveva incontrato obiezioni di vario genere. Come l’accusa di “cancel culture” e la proposta di ammorbidire con una targa esplicativa sotto al nome del colonizzatore.

Va riconosciuto alla Germania di aver saputo fare i conti, almeno in parte, con le proprie responsabilità e con il proprio passato non sempre esemplare. Non solo per quanto riguarda lo sterminio di ebrei, rom e altre minoranze operato dai nazisti, ma anche - per esempio - chiedendo scusa per il bombardamento della città basca di Gernika nel 1937. Ben diverso, ripeto, il comportamento dell’Italia che ancora si crogiola e autoassolve col mito degli “italiani brava gente”. Stendendo un velo poco pietoso sul contributo attivo all’Olocausto e alla guerra di Spagna dove Mussolini intervenne pesantemente (anche con bombardamenti altrettanto feroci, a fianco di Francisco Franco). per non parlare delle stragi compiute in Libia, Etiopia, Yugoslavia…

Quindi, prendiamo esempio dai tedeschi. Ma senza scordare che attualmente, per dirne una, la bandiera del PKK e il ritratto di Ocalan in Germania sono stati “illegalizzati”.

Pur tenendo conto delle attenuanti generiche, ossia delle pressioni, per non dire ricatti o minacce di ritorsione, che provengono dalla Turchia ogni qualvolta ne viene sventolata una in qualche manifestazione.

D’altro canto la Germania (non solo lei naturalmente) è uno dei paesi europei che maggiormente collabora con la Turchia (anche esportandovi armi, come del resto l’Italia).

Mostrando quantomeno indifferenza per l’odierna persecuzione operata da Ankara nei confronti del popolo curdo.

Non sia mai che per rimediare tardivamente - magari tra qualche decennio - si debba dedicare un parco pubblico di Berlino a Ocalan.

Gianni Sartori

Gianni Sartori - 7/12/2022 - 13:12


QUALCHE PROBLEMA IN KENYA E ETIOPIA A CAUSA DELLE DIGHE (MA IN NOME DELLO “SVILUPPO” QUESTO E ALTRO)



Gianni Sartori



Sinceramente non ho compreso l’entusiasmo con cui alcune riviste e associazioni che si occupano dell’Africa con - diciamo così - “benevolenza” (se poi sia “carità pelosa” o neocolonialismo ricoperto da buonismo non spetta a me stabilirlo) hanno celebrato la recente visita di Mattarella in Kenya. Dove ha confermato e sottoscritto la ripresa dei lavori per la costruzione di alcune grandi dighe nella Kerio Valley (provincia del Rift): Arror, Itare e Kimwarer. La realizzazione di quest’ultima era stata interrotta da un’indagine che l’aveva ritenuta “ tecnicamente e finanziariamente irrealizzabile”.

Almeno ufficialmente, ma si era parlato anche di mancanza di trasparenza e altre irregolarità. Tanto che erano stati avviati alcuni procedimenti giudiziari per “frode, violazioni delle procedure amministrativesugli appalti, corruzione” nei confronti di pubblici ufficiali del Kenya. Coinvolgendo più o meno indirettamente il consorzio di aziende italiane interessate alla costruzione, una joint venture tra la Cooperativa Muratori e Cementisti di Ravenna (ops! Sarà mica quella del Dal Molin?) e Itinera, società del Gruppo Gavio.

E in seguito anche la SACE (prendo nota: società assicurativo-finanziaria italiana specializzata nel sostegno alle imprese e al tessuto economico nazionale a sostegno supporto della competitività in Italia e nel mondo) e Banca Intesa Sanpaolo (intervenute per la copertura finanziaria).

La visita di Mattarella è stata l’occasione per il presidente del Kenya William Ruto di annunciare il superamento del contenzioso con Roma, lo sblocco e la ripresa della costruzione delle tre dighe sopracitate. Riconfermando (o forse rinegoziando) la partecipazione di aziende italiane con l’impegno finanziario della SACE e di banche italiane.

Nel comunicato di Ruto e Mattarella si afferma che “il governo keniano e italiano hanno concordato un nuovo processo per appianare le problematiche (…). Sospenderemo la questione giuridica e il governo italiano da parte sua ritirerà i casi di arbitrato, siamo d’accordo che ci sarà un nuovo inizio di questo progetto, urgente e prioritario, necessario, che darà acqua a molti paesi oltre al Kenya, oltre a Baringo e zone circostanti” . Aggiungendo che “andremo poi avanti con l’avvio della costruzione nel giro di una manciata di mesi”.

Eppure sui danni sociali e ambientali provocati dalle dighe in Africa in generale (e in Kenia e in Etiopia in particolare) non mancavano certo denunce ben documentate.

Anche recentemente (febbraio 2023) un rapporto (“Dam and sugar plantations yield starvation and death in Ethiopia’s Lower Amo Valley) diffuso dall’Oakland Institute (attivo nella difesa delle popolazioni indigene), affrontava l’annosa questione dell’impatto negativo delle grandi opere (dighe in primis) sulle popolazioni indigene. Interventi come quello nella valle del fiume Omo in Etiopia. Con la diga Gilgel Gibe III (alta quasi 250 metri, costruita dalla Salini Impregilo e inaugurata nel 2016) ci si riprometteva di aumentare in maniera significativa sia la produzione di energia elettrica che di canna da zucchero. A spese soprattutto di Kwegu, Modi, Mursi e altre minoranze (o meglio: popolazioni minorizzate).

Ancora nel 2015 Survival International denunciava una possibile scomparsa dei Kwegu (ridotti alla fame e nella condizione di profughi interni), vuoi per il disastro socio-ambientale, vuoi per il prevedibile accaparramento di terre (“land grabbing”) nel bacino del fiume Omo.
L’anno successivo era stata la sezione locale di SI (“Kenya Survival International) a rivolgersi direttamente all’OCSE per denunciare la Salini Impregilo S.p.a.

Tornando al Kenya, risale al 2017 l’allarme lanciato da Human Rights Watch (Hrw) per l’evidente abbassamento riscontrato nelle acque del lago Turkana. Con gli altrettanto evidenti pericoli sia per l’ecosistema che per la sopravvivenza della popolazione locale.

Una conseguenza (effetto collaterale ?) appunto del contestato sistema di dighe Gilgel Gibe (Gibe I, Gibe II, Gibe III, già previste una GibeIV e Gibe V).

Sgorgando a circa 2.500 metri sull’altopiano etiopico, il fiume Omo percorre ben 760 chilometri (con un dislivello di 2000 metri) per poi sfociare nel lago Turkana in Kenya.

E’ notorio che il bacino dell’Omo con il Turkana rappresentano la principale fonte di vita per almeno 17 gruppi indigeni (oltre 260mila persone) qui insediati da sempre. Ora con il faraonico sistema di dighe gran parte dell’acqua viene deviata altrove, sia per la produzione di energia elettrica che per irrigare le estese piantagioni a monocoltura (circa 450mila ettari per ora).

Appare quantomeno contraddittorio, paradossale che le dighe di Arror, Itare e Kimwarer vengano realizzate da imprese italiane quando la carenza d’acqua in Kenya è anche una conseguenza della realizzazione di altre dighe, sempre per mano italica, in Etiopia.

Come sottolineava il compianto André Gorz (alias Gerhart Hirsch, alias Gerhart Horst…): “Il capitalismo cerca il rimedio ai problemi che ha creato, creandone di nuovi e peggiori” (cito a memoria).



Gianni Sartori

Gianni Sartori - 15/3/2023 - 18:21




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