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Seven Good Soldiers

Dick Gaughan
Lingua: Inglese


Dick Gaughan

Lista delle versioni e commenti


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[1988]
Album "Call It Freedom"
freedom-1
Words & Music by Iain MacDonald (che non so se sia il McDonald della prima formazione dei King Crimson)

Una canzone piena di tristezza e compassione per quei soldati uccisi, ma anche piena di rabbia perchè sono morti in guerra "fidandosi di quelli che hanno la ricchezza e il potere" e "senza che nessuno sappia per cosa diavolo sono morti"...

Se questa bellissima canzone si intitolasse "Six Good Soldiers" oggi la dedicherei, con sincero rispetto, ai soldati italiani uccisi a Kabul...

Con rispetto per loro che sono morti, con rispetto per le loro famiglie che ora vivono nel dolore e con tutta la rabbia per i ricchi e i potenti (che siano maledetti!) che li hanno mandati a morire.

Six Good  Soldiers
Six Good Soldiers
An autumn evening of gold and blue
And the air all around is still
Seven bright stars they lie beneath
Seven white crosses on a hill

Seven young men went driving on
Into the evening's hue
Ever onward they followed the call
Seven roses that never did bloom

Trusting in others with wealth and power
"Here's to damnation" they cheered
There's a prayer in the leaf of their Bibles black
To a God unseen but well feared

"Please don't grieve Mary my dear
Our mission it will soon end"
The squaddie's letter it lay by his side
As the bullets they blew him to hell

Seven brothers lie side by side
United by a bloody long war
Seven good soldiers, seven dead men
None knew what the hell they died for

inviata da Alessandro - 20/9/2009 - 21:33



Lingua: Italiano

Versione italiana di Elvis e Alessandro
Non è stata proprio facile questa traduzione, specie la seconda e terza strofa... Se vuole metterci mano qualcuno che ne sa di più, ben lieti...
SETTE BRAVI SOLDATI

Una sera d’autunno oro e blu
E l'aria tutto intorno è quieta
Sette stelle luminose sembrano apparire
Sette croci bianche su una collina

Sette ragazzi che non si fermavano
Al calar della sera
Sempre primi a rispondere alla chiamata
Sette rose che non sbocciarono mai

Ponendo fiducia in altri, ricchi e potenti
“Qui va a finire male!” esclamarono
C’è una preghiera tra le pagine delle loro Bibbie nere
Una preghiera a un dio mai visto ma assai temuto

“Maria, ti prego non addolorarti, mia cara,
La nostra missione finirà presto”
La lettera del soldato stava accanto a lui
Come le pallottole che lo avevano spedito all’inferno

Sette fratelli giacevano l’uno accanto all’altro
Uniti da una lunga sanguinosa guerra
Sette bravi soldati, sette uomini morti
Nessuno sapeva per cosa diavolo fossero morti.

inviata da Elvis e Alessandro - 22/9/2009 - 15:14


"Taliban's Tank-Killing Bombs Came From CIA, Not Iran"

Le bombe piazzate lungo le strade che fanno a pezzi, in Afghanistan come in Iraq, i soldati americani, britannici e quelli dell'International Security Assistance Force (ISAF), italiani compresi, non provengono dall'Iran ma sono le mine anticarro TC/3.6 e TC/6 costruite anni addietro da una ditta italiana, la Tecnovar di Bari. La CIA le fornì ai guerriglieri jihadisti che combattevano contro i sovietici.

Articolo di Gareth Porter di Asian News

Per completezza di informazione va aggiunto che l'ing. Alfieri Fontana, amministratore della Tecnovar, ha chiuso la fabbrica nel 1996 e d'allora si occupa personalmente di bonifica dalle mine nei teatri di guerra in ex Jugoslavia.

Alessandro - 28/9/2009 - 09:30


Della serie "Italiani nel Mondo"








 mina anticarro Valsella Brescia - oggi produce a Singapore - modello VS 1.6... cosa ci sarà sotto?!?
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mina antiuomo V-69 (Kuwait)
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 mina antiuomo Misar - oggi società francese - modello SB-33, soltanto 9cm di diametro, sembra un comune sasso, difficilissima da individuare...
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Alessandro - 28/9/2009 - 13:01


AL FRATELLO CHE LAVORA IN UNA FABBRICA DI ARMI
(lettera scritta da Don Tonino Bello nel febbraio 1986)
da Disarmo Lombardia

Don Tonino


Caro operaio,

non si direbbe. Ma scrivere a te, che con altri ottantamila compagni di lavoro strappi la vita in una delle trecento fabbriche di morte disseminate in Italia, è più difficile che scrivere al Sottosegretario della Difesa.
Si, perché a protestare sulla produzione delle armi con i funzionari delle cancellerie diplomatiche, male che
vada, ti tiri addosso solo un po’ di compatimento e qualche sorriso divertito sulla tua ingenuità.
Ti diranno, ammiccando, di apprezzare molto i tuoi vaporosi aneliti di pace, ma che poi bisogna sapere stare con i piedi per terra.
Ti faranno intendere con eleganza che a un vescovo si addice meglio tracciare benedizioni solenni, piuttosto che impicciarsi di fabbriche di armi e dei relativi traffici clandestini.
Al massimo, con le manovre della più scoperta sufficienza, ti esprimeranno il fastidio di dover discutere di certe cose con chi sa solo citare il profeta Amos o S. Tommaso o, all’occorrenza, qualche teologo della liberazione, ma poi non sa nulla di Keynes o di Galbraith o di tutte le diavolerie della scienza economica.
Tutto sommato però, se si sa sostenere il peso dell’ironia, ti verranno sottomano tali argomentazioni da “scacco matto”, che si possono mettere in crisi anche i ragionamenti più sofisticati.

Scrivere a te, invece, riesce quasi impossibile. Perché non regge a nessuno l’animo di dirti che, se pure incolpevolmente, tu collabori a seminare morte sulla terra.
E neanche io te lo voglio dire.
Hai già tanti problemi sulle spalle, che non mi sento di gravarti la coscienza di un ulteriore fardello.
Sei così preoccupato, come tutti i lavoratori, dagli spettri della fame, che non mi và di intossicarti anche quei quattro soldi che ti danno.
Hai così viva la percezione di essere vittima di una squallida catena di sfruttamento, che sarebbe crudeltà dirti senza mezzi termini che, oltre che oppresso, sei anche oppressore.
Mi sembrerebbe di ucciderti moralmente prima ancora che le armi confezionate dalle tue mani potessero fare strage di altri innocenti.

Povero fratello operaio. Sei veramente “chiuso in una spira mortale” direbbe Ungaretti che non era un economista neppure lui, e neanche un alto funzionario dei ministeri romani. Ma era un uomo.
Quell’uomo che ti auguro di riscoprire in te, e che ti fa vomitare di disturbo di fonte all’ipocrisia di chi, con un
occhio piange di commozione sulla fame del Terzo Mondo, e con l’alto fa cenno d’intesa con i generali.
Quell’uomo che si ribella in te quando scorge che, dopo mezzo secolo, c’è ancora chi in alto loco è sensibile al fascino di antichi ritornelli imperiali, trascritti purtroppo sullo stesso pentagramma di profitto: ”colonnello non voglio pane; voglio piombo pel mio moschetto!”.
Quell’uomo nascosto in te, che impallidisce di orrore quando si accorge che il desiderio segreto (se non l’istigazione palese) degli industriali della morte è quello che le armi da loro prodotte vengano usate, dal momento che il consumo, secondo le più elementari leggi di mercato conosciute anche da chi non sa nulla di Keynes o di Galbraith, è l’asse portante di ogni rapporto commerciale.
Quell’uomo che nelle profondità del tuo spirito freme di sdegno quando si accorge che la gente, più che lo smantellamento delle fabbriche maledette, chiede solo l’abolizione del segreto che copre il traffico d’armi. O quando il governo decide di non vendere strumenti di morte solo ai pazzi più esagitati del manicomio internazionale. Come se, dirottando in zone più tranquille gli strumenti di guerra, non rimanesse sempre in piedi la stessa logica distruttiva.
Quell’uomo interiore che rimane mortificato quando sa che la stessa cifra stanziata dall’Italia per armamenti,
destinata invece per programmi civili, creerebbe trentamila posti di lavoro in più.
Quell’uomo pulito che dorme dentro di te, e che la sera, quando torni a casa, ti spinge ad accarezzare senza titubanze il volto dolcissimo della tua donna; e ti fa porre le mani sul capo incontaminato dei tuoi figli, senza paura che un giorno si ritorcano su di loro, come un tragico boomerang, le armi che quelle stesse mani hanno costruito.

Certo, se io fossi coraggioso come Giovanni Paolo II, dovrei ripeterti le sue parole accorate: “Siano disertati i
laboratori e le officine della morte per i laboratori della vita!”.
Ma, a parte il debito di audacia, debbo riconoscere che il Papa si rivolgeva agli scienziati. I quali, di solito almeno economicamente, hanno più di una ruota di scorta. Tu invece ne sei privo. E anche le ruote necessarie, se non sono proprio forate, hanno le gomme troppo lisce perché tu possa permetterti manovre pericolose.
Non ti esorto perciò, almeno per ora, a quella forte testimonianza profetica di pagare, con la perdita del
posto di lavoro, il rifiuto di collaborare alla costruzione di strumenti di morte.
Ma ti incoraggio a batterti perché si attui al più presto, e in termini perentori, la conversione dell’industria bellica in impianti civili, produttori di beni, atti a migliorare la qualità della vita.
E’ un progetto che va portato avanti. Da te. Dai sindacati. Da tutti. Con urgenza. Con forza. Chiedendo solidarietà. Invocando consensi.
Forse l’ultima alternativa per il mondo sei proprio tu, povero operaio, che vivi all’epicentro di questo apocalittico vortice di morte.
Non scoraggiarti. Tu sei la nostra superstite speranza. Se tutti gli ottantamila compagni di lavoro si mobiliteranno, il sogno di Isaia diverrà presto realtà.
Anzi, ci pare già di vedere, quasi in una miracolosa dissolvenza cinematografica, le spade che si trasformano in vomeri tra le tue mani, e le lance che si incurvano in falci al sole della primavera. Mentre la scritta “the end” si sovrappone non a commentare immagini di catastrofi planetarie ma a concludere per sempre l’era lunghissima della nostra preistoria.

Ti abbraccio
2 febbraio 1986
don Tonino vescovo

28/9/2009 - 22:30




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