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E qualcuno poi disse

Gianni Nebbiosi
Language: Italian


Gianni Nebbiosi

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Related Songs

Emigrato su in Germania
(Gianni Nebbiosi)
16 ottobre 1943
(Gianni Nebbiosi)
In un anno e più d'amore
(Gianni Nebbiosi)


[1972]
E ti chiamaron Matta
etichiama
Testo e musica di Gianni Nebbiosi
Lyrics and music by Gianni Nebbiosi
EP Dischi Del Sole - DS76
Riedizione di Alessio Lega e Rocco Marchi - 2008
Incisa anche nel VIII volume di "Avanti Popolo", antologia della canzone popolare e di lotta italiana pubblicata nel 1995 dalla rivista "Avvenimenti"
Interpretata anche dagli Apuamater Indiesfolk nell'album "Delirio e Castigo" (2006)


Gianni Nebbiosi.
Gianni Nebbiosi.
Non se ne trovano quasi, in rete, fotografie del professor Gianni Nebbiosi. È, adesso, uno stimato studioso di psicologia e frenologia a livello internazionale: basta digitare il suo nome su Google, e compaiono studi, interventi a seminari e congressi, testimonianze professionali. E anche la fotografia che qui presentiamo, che lo ritrae nel 2002, è stata presa ad un convegno internazionale tenutosi in Spagna. Digitare il suo nome su Google, dicevamo. In mezzo agli studi e agli interventi, compare però anche una cosa “strana”, a nome di Gianni Nebbiosi. Un album di canzoni. Un incredibile e dimenticato album di canzoni del 1972 intitolato E ti chiamaron matta. Un album prodotto nientemeno che da Giovanna Marini, e nella quale la stessa ebbe a accompagnare Nebbiosi agli strumenti.

Racconta Alessio Lega...ma perché Alessio Lega racconti lo diremo meglio dopo. Ora diciamo semplicemente quello che racconta durante i suoi concerti. Era il 1972, e Gianni Nebbiosi non era ancora né professore, né stimato: era un semplice studente di medicina interessato ai problemi della psichiatria e, soprattutto, della condizioni di vita nei manicomi. Nei lager chiamati manicomi. In quelle istituzioni terribili, in quei campi di concentramento in nome della “medicina” che allora non venivano messi minimamente in discussione. Gianni Nebbiosi, occupandosene e dopo una crisi personale, da studente ebbe modo, purtroppo per lui, di finirci dentro -anche se per un breve periodo. Uscitone, decise di cantare quello che aveva visto. La canzone come mezzo di diffusione di esperienze, di idee, di lotta. Ne nacquero sei canzoni pubblicate in album dai “Dischi del Sole”.

Un album che mai ebbe vita facile, che nacque introvabile. Eppure dovette circolare, in modo sotterraneo. Eppure dovette dare il suo contributo a quel movimento che, negli anni '70 in Italia, portò in pochi anni alla Legge Basaglia ed alla chiusura dei manicomi (1978). Dice ancora Alessio Lega: “Forse ad un anarchico non sta bene parlare di una legge. Ma c'è stato comunque un periodo in questo paese, in cui larghe fasce di persone lottavano, si battevano perché fossero eliminati dei lager, e in cui l'Italia era un po' meno di merda di quella di adesso.”. Il giovanissimo Alessio Lega andò a cercare questo album, arrivando a prendere l'elenco del telefono di Roma e chiamare direttamente il professor Nebbiosi. Il quale, gentile e gioviale, e con un accento romanesco da far paura, si dimostrò entusiasta che quelle sue canzoni ancora circolassero, e fossero ricercate.

Ma che cosa ha fatto, in definitiva, Alessio Lega? E' semplice. Quell'album oramai irreperibile lo ha riarrangiato, ricantato e reinciso assieme al suo polistrumentista Rocco Marchi (che io chiamo affettuosamente il “tuttista”, specie quando suona il suo xilofono portatile con canna acustica -detto familiarmente “pippofono”). Una riproposizione cui ha partecipato anche il professor Gianni Nebbiosi, in persona, mettendo a disposizione tutto il materiale che aveva. Le “sei canzoni dei matti” si possono scaricare legalmente dal blog di Alessio. E vi consigliamo di farlo.

Ve lo consigliamo perché viviamo in tempi in cui, tra le altre cose, tra le invocazioni di sicurezze, galere, linciaggi, “certezze della pena” e compagnia bella, non mancano nemmeno quelle per la riapertura dei manicomi. “Ah, quando almeno c'erano i manicomi, i matti stavano dentro!”. Chi scrive c'è entrato svariate volte, come soccorritore, nei manicomi. Quello che erano lo potete leggere qui, e non è che un episodio. A tale riguardo, abbiamo deciso anche di istituire un nuovo percorso: perché di lager si è trattato, e dei peggiori. Non a caso la “pazzia” fu largamente usata dallo stalinismo per sbarazzarsi degli oppositori. Non a caso gli infermieri dei manicomi differivano a volte assai poco dagli aguzzini di Auschwitz o di Treblinka, infierendo su esseri umani ridotti a larve incapaci di difendersi. [RV]

nebblega

”La morte non è nel non potere comunicare
Ma nel non poter più essere compresi”

Pier Paolo Pasolini

Caro Alessio, la ragione -l'emozione- che mi ha portato a scrivere canzoni all'inizio degli anni settanta sta tutta in questi versi di Pasolini. Quando ci si occupa della sofferenza psichica è importante condividerla, capire i significati affettivi e i contesti della vita che l'hanno fatta nascere. In fondo le persone che soffrono non cercano altro: vogliono parlarci (talvolta confusamente, talvolta con illuminante chiarezza) di quello che le fa soffrire, e vogliono che le comprendiamo per potere comprendersi. Purtroppo succedeva e succede troppo spesso che tra quel dolore e noi che ce ne occupiamo si frappongono un sacco di cose: la nostra “competenza” professionale che ci fa giudicare, diagnosticare, definire troppo in fretta e con poca empatia il dolore mentale dell'altro; il ruolo di chi cura, che spesso “protegge” la propria autenticità e fragilità dietro una presunta neutralità “scientifica”; le regole di istituzioni che dovrebbero curare ma che spesso sono preoccupate solo di salvare se stesse.
Caro Alessio, le cose in questi quarant'anni non sono tante cambiate, nonostante le gloriose battaglie di psichiatria democratica e l'impegno di tanti operatori. Ti ringrazio davvero di cuore di avere dato voce, attraverso le mie canzoni, a queste storie e ai loro protagonisti: persone che cercavano -e cercano- solo di essere aiutate e comprese.

Gianni Nebbiosi.
Lettera a Alessio Lega riprodotta nell'album

”La realtà manicomiale è stata superata
e non si sa quale potrà essere il passo successivo.
Come non risalire dall'escluso all'escludente?
O si è complici, o si agisce e si distrugge.”

Franco Basaglia, Ospedale Psichiatrico Provinciale di Gorizia, 1968.

Franco Basaglia.
Franco Basaglia.

E ti chiamaron matta: piccolo ma grande grande grande.
di Fabio Antonelli

C’è chi si sveglia con accanto nel letto una donna stupenda, c’è chi si sogna solamente di trascorrere una notte d’amore con una donna stupenda, c’è chi come me si sogna di aver trascorso una magnifica serata a chiacchierare con Alessio Lega in una non identificabile trattoria di Milano e di svegliarsi poi la mattina con testa la musica e le parole di “Ti ricordi Nina”.

Sinceramente non ricordo di cosa abbiamo parlato Alessio ed io in questo mio originalissimo sogno, forse di musica, forse di politica anche se qui io e lui ci troviamo su posizioni distanti o forse, più semplicemente, gli ho espresso quanto non gli avevo detto qualche giorno prima quando, appena ascoltato il suo nuovo disco, ho avvertito l’urgenza di telefonargli per esprimergli i miei apprezzamenti per il rifacimento del piccolo urgente disco capolavoro dello psichiatra/cantautore Gianni Nebbiosi che è così tornato disponibile dopo 37 anni dall’originale incisione.

A condividere questo progetto ha avuto accanto Rocco Marchi, al quale bisogna rendere merito per aver saputo dare al disco una veste musicale affascinante e tale da non renderlo tedioso perché, visto l’argomento trattato, il rischio di fare un disco pesante come un macigno ci sarebbe potuto essere.

Il disco è stato inciso in occasione dei trent’anni dalla Legge Basaglia, quella che ha cercato di superare la realtà manicomiale come si evince da una testimonianza del 1968 dello stesso Basaglia riportata nella custodia del disco “La realtà manicomiale è stata superata e non si sa quale potrà essere il passo successivo. Come non risalire dall’escluso all’escludente? O si è complici, o si agisce e si distrugge.”.

Unica pecca è forse quella della mancanza di un libretto con i testi delle canzoni, oltre al citato intervento di Basaglia troviamo, però una breve lettera in cui Gianni Nebbiosi ringrazia Alessio così: “Ti ringrazio davvero di cuore di aver dato voce, attraverso le mie canzoni, a queste storie e ai loro protagonisti: persone che cercavano - e cercano – solo di essere ascoltate e comprese” ed in cui racconta che la ragione che l’ha portato a scrivere canzoni all’inizio degli anni settanta sta tutta in questi versi di Pasolini “La morte non è nel potere comunicare ma nel non poter più essere compresi”.

Alessio Lega si rivela ancora una volta un grande interprete di canzoni di altri, sa appropriarsene e farsene carico con grande maestria per raggiungere vette di eccellenza in canzoni come quest’ultima in cui il gesto di rivolta sentito cantare da lui assume una duplice valenza umana e politica.

Rocco Marchi da par suo, più che in altre occasioni si è dimostrato capace di rendere drammaticità al cantato senza però aggiungere inutili pesantezze ed orpelli eccentrici o barocchi.

Un disco piccolo piccolo per durata ma eccezionalmente grande per intensità.
Fu l'idea di vedere i tuoi occhi
di abbracciare la nostra creatura
che mi diede la forza e il coraggio
di andar contro la natura
di sorridere agli infermieri
di pesare ogni parola
e alla notte ogni grido che usciva
ricacciarmelo dentro in gola.

E qualcuno poi disse
« Guarda lì l'agitato:
son passati otto mesi,
sembra un po' migliorato ».

Fu l'idea di vedere i tuoi occhi
di giocare con la bambina
che mi fece ingoiare in silenzio
ogni loro medicina
e mi diede la forza e il coraggio
di rispondere senza urlare
al dottore che aveva schedato
la mia malattia mentale.

E un bel giorno venisti
col tuo abito a fiori
mi prendesti la mano
mi portasti di fuori.

Ma di fuori la voglia di uscire
si trasforma in voglia di pane
ma il discorso era sempre lo stesso:
« Torni fra due settimane »
Imparai a riconoscere presto
dietro a quello strano impaccio
una legge senza parole
fredda e dura come il ghiaccio.

Quella sera, ricordo,
tu dormivi al mio fianco
ma la stanza girava
e di colpo fui stanco.

Furon sempre le stesse facce
a legare questo mio male
e la stessa iniezione nel braccio
a condurmi all'ospedale
con lo stesso soffitto imbiancato
con gli stessi scarabocchi
dove ormai le paure e il silenzio
nascondevano i tuoi occhi.

E qualcuno poi disse:
«Guarda lì l'agitato:
son passati otto giorni
e c'è già ricascato».

Contributed by CCG/AWS Staff - 2009/2/12 - 02:53



Language: French

Version française – ET QUELQU'UN DIT ALORS... – Marco Valdo M.I. – 2010
Chanson italienne – E qualcuno poi disse... – Alessio Lega – 2008 – Gianni Nebbiosi – 1972

Gianni Nebbiosi.
Gianni Nebbiosi.
On ne trouve pas , quasi pas, sur le net, de photographies du professeur Gianni Nebbiosi. C'est actuellement, un savant de psychologie et de phrénologie estimé au niveau international; il suffit de taper son nom sur Google et apparaissent des études, des interventions à des séminaires et des congrès, des témoignages professionnels. Et même la photographie qu'on présente ici, qui le représente en 2002, a été prise à un colloque international tenu en Espagne. Taper son nom sur Google, disions nous. Au milieu des études et des interventions, on trouve aussi une chose « étrange », au nom de Gianni Nebbiosi. Un album de chansons. Un incroyable album oublié de 1972 intitulé Et ils te diront folle …

Voilà ce que raconte Alessio Lega... Maintenant, disons simplement ce qu'il raconte pendant ses concerts. C'était en 1972 et Gianni Nebbiosi n'était pas encore professeur, ni estimé; c'était un simple étudiant en médecine intéressé par les problèmes de la psychiatrie et, surtout, par les conditions de vie dans les asiles. Dans les « lagers » appelés asiles. Dans ces institutions terribles, dans ces camps de concentration au nom de la « médecine »qui alors n'étaient pas remis en question. Gianni Nebbiosi, en s'en occupant et après une crise personnelle, comme étudiant il eut l'occasion, malheureusement pour lui, de finir en dedans – même si ce fut pour une brève période. En en sortant, il décida de chanter ce qu'il avait vu. La chanson comme moyen de diffusion des expériences, des idées, des luttes? En naquirent six chansons publiées...

Un album qui n'eut jamais la vie facile, qui naît introuvable. Et pourtant dut circuler, de manière souterraine. Et pourtant dut donner sa contribution à ce moment qui, dans les années 70 en Italie, porta en peu d'années à la Loi Basiglia et à la fermeture des asiles (1978). Alessio Lega dit encore : « Peut-être cela ne va pas bien à un anarchiste de parler d'une loi.
Mais ce fut malgré tout une période dans ce pays, où de larges couches de personnes luttaient, se battaient pour que fussent éliminés ces lagers, et où l'Italie était un peu moins merdique qu'aujourd'hui ». Le très jeune Alessio Lega s'en alla chercher cet album, et le bottin de Rome et appela directement le professeur Nebbiosi. Lequel, gentil et jovial, avec un accent romanesque à faire peur, se montra très enthousiaste de ce que ses chansons circulassent encore et fussent recherchées.

Mais qu'a fait en définitive Alessio Lega ? C'est simple. Cet album désormais introuvable, il l'a réarrangé, rechanté et regravé avec son polyinstrumentiste Rocco Marchi … Les « Six chansons de fous » peuvent être téléchargées légalement du blog d'Alessio. Je vous conseille de le faire.

Je vous le conseille car nous vivons des temps où, entre autres choses, parmi les invocations à la sécurité, les prisons, les lynchages, les « certitudes de la peine » et compagnie, ne manquent même pas celles pour la réouverture des asiles. « Ah, au moins, quand il y avait les asiles, les fous étaient dedans ! »Celui qui écrit y est allé plusieurs fois, comme secouriste, dans les asiles... Ce n'est pas par hasard si la folie fut utilisée par le stalinisme pour se débarrasser des opposants. Ce n'est pas un hasard si les infirmiers des asiles diffèrent assez peu des gardes d'Auschwitz ou de Treblinka, s'acharnant sur des êtres humains réduits à l'état de larves, incapables de se défendre. [R.V.]

nebblega

« La mort n'est pas dans le manque de communication
Mais dans le manque de compréhension »

Pier Paolo Pasolini

Cher Alessio,
La raison – l'émotion -qui m'a poussé à écrire des chansons au début des années septante se retrouve entière dans ces vers de Pasolini. Quand on s'occupe de la souffrance psychique, il est important de la partager, comprendre les sens affectifs et les contextes de la vie qui l'ont fait naître. Au fond, les personnes qui souffrent ne cherchent pas autre chose: elles veulent nous parler (parfois confusément, parfois avec une clarté lumineuse) de ce qui les fait souffrir, et elles veulent que nous les comprenions pour pouvoir se comprendre elles-mêmes. Malheureusement, il arrivait et il arrive encore trop souvent qu'entre cette douleur et nous qui nous en occupons, s'(interposent un tas de choses : notre « compétence » professionnelle qui nous fait juger, diagnostiquer, définir trop vite et avec peu d'empathie la douleur mentale de l'autre; le rôle de celui qui soigne, qui souvent « protège » sa propre authenticité et sa propre fragilité derrière une « présumée » objectivité « scientifique »; les règles des institutions qui devraient soigner et qui sont préoccupées de se sauver elles-mêmes
Cher Alessio,
Les choses en ces quarante ans n'ont pas tant changé, nonobstant les glorieuses batailles de la psychiatrie démocratique et l'engagement de tant d'opérateurs. Je te remercie vraiment de tout cœur pour avoir donner voix, à travers mes chansons, à ces histoires et à leurs protagonistes : des personnes qui cherchaient – et cherchent encore – seulement à être aidées et comprises.

Gianni Nebbiosi.
ET QUELQU'UN DIT ALORS...

Il y eut l'idée de revoir tes yeux
D'embrasser notre créature
Qui me donna la force et le courage
D'aller contre ma nature
De sourire aux infirmiers
De peser chaque parole
Et la nuit, retenir dedans ma gorge
Tout cri qui sortait

Et quelqu'un dit alors :
« Regardez un peu l'agité
Huit mois se sont passés,
Il semble un peu amélioré »

Il y eut l'idée devoir tes yeux
De jouer avec la gamine
Qui me fit avaler en silence
Toutes leurs médecines
Et me donna la force et le courage
De répondre sans hurler
Au docteur qui avait diagnostiqué
Ma maladie mentale.

Un beau jour tu vins
Avec ta robe à fleurs
Me prendre par la main
M'emmener dehors.

Mais dehors la volonté de sortir
Se transforme en volonté de pain
Mais ton discours était toujours le même
« Tu reviens dans deux semaines »
J'appris vite à reconnaître
Derrière cet embarras étrange
Une loi sans paroles
Froide et dure comme la glace.

Ce soir-là, je me rappelle,
Tu dormis à mon côté
Mais la chambre tournait
Et du coup je fus fatigué.

Il y eut de nouveau les mêmes faces
Pour lier mon mal
Et la même injection dans le bras
Pour me conduire à l'hôpital
Avec le même plafond blanc
Avec les mêmes fissures
Où désormais les peurs et le silence
Cachaient tes yeux.

Et quelqu'un dit alors :
« Regardez là l'agité;
Huit jours sont passés
Et déjà, il est retombé. »

Contributed by Marco Valdo M.I. - 2010/5/22 - 15:38


Terapia o tortura?
(estratto da La fabbrica della cura mentale – elèuthera 2013)
di Piero Cipriano

cipriano[...]
Il rapporto tra torturato e torturatore non è, talvolta, molto diverso dal rapporto che lega il ricoverato in SPDC con lo psichiatra che lo lega al letto.
Trascriverò, in corsivo, alcune considerazioni di Françoise Sironi, una delle maggiori esperte al mondo in tema di tortura, tratte dal suo libro, Persecutori e vittime. Proverò a riformulare le sue stesse affermazioni, adattandole al mondo dell’assistenza psichiatrica.
Come si può curare chi è stato vittima di torture? Io la riformulo: come si può pensare di curare chi ha subìto un ricovero psichiatrico, magari coatto, dove è stato immobilizzato, legato, sedato, addormentato con una terapia del sonno? Come può la psichiatria curare una vittima della psichiatria? Come può lo psichiatra curare ciò che lui stesso ha prodotto?
La tortura è un’esperienza incomunicabile, avvolta da una coltre di silenzio, silenzio che riguarda sia chi la pratica sia chi la subisce. La principale fonte di informazione sulla tortura è rappresentata dalle testimonianze delle vittime. Riformulo: la coltre di silenzio che avvolge il mondo dei ricoveri psichiatrici, dei pazienti legati al letto per giorni, non può essere rotta, di solito, dalle vittime di questi trattamenti (i pazienti), che sono ridotti al silenzio, sono ormai gli sragionanti, non hanno nessun potere e alcuna ragione per farsi credere (tranne casi rarissimi: Alice Banfi, per fare un esempio, che è riuscita a pubblicare le sue avventure di donna legata nei reparti psichiatrici). La coltre di silenzio può essere rotta solo da quei pochi psichiatri o psicologi o infermieri o altri operatori dissenzienti.
La dichiarazione contro la tortura, firmata dalle Nazioni Unite nel 1975, dà la seguente definizione di tortura: “Ogni atto mediante il quale siano inflitti intenzionalmente a una persona dolore o sofferenze gravi, sia fisici sia mentali, allo scopo di ottenere da essa informazioni o una confessione, di punirla per un atto che essa o un’altra persona ha commesso o è sospettata d’aver commesso, per intimidirla o sottoporla a coercizione o intimidire o sottoporre a coercizione un’altra persona”. Legare i pazienti al letto, nei SPDC e nelle case di cura o di riposo, risponde ai criteri della punizione e dell’intimidazione.
Sironi riporta anche la definizione di tortura secondo Marcello Vignar, psichiatra latinoamericano, vissuto in esilio durante la dittatura nel suo paese: Ogni comportamento intenzionale, qualunque siano i metodi utilizzati, che ha il fine di distruggere il credo e le convinzioni della vittima per privarla della struttura di identità che la definisce come persona. E’ quel che fanno i medici della mente nei reparti psichiatrici, convinti, con farmaci introdotti a forza, fasce, reclusione, di distruggere il credo erroneo, delirante, psicotico, dereistico, non conforme al pensiero regolare del mondo, per privare il paziente ricoverato della sua struttura di identità (che è psicotica).
Quanto ai metodi di tortura, vi sono, oltre al dolore, le privazioni (la privazione della mobilità, con mezzi di contenzione dolorosi) e l’isolamento. I torturatori sanno che dopo una settimana d’isolamento totale i torturati desiderano ardentemente parlare, e persino essere interrogati. Accade anche per i ricoverati.
Esistono le simulazioni delle esecuzioni. Nei reparti psichiatrici più violenti alcuni operatori adoperano la simulazione della contenzione (mostrano le fasce al malato) per indurlo all’accondiscendenza.
Il terrore viene utilizzato costringendo gli altri torturati ad assistere alla tortura di altri prigionieri. Nei reparti psichiatrici gli altri ricoverati vivono il clima di terrore determinato dall’assistere alla presa, al bloccaggio, alla contenzione del paziente agitato. E poi sono costretti a vederlo per giorni e giorni, immobilizzato, e sentire i suoi lamenti, le sue richieste di aiuto, le sue suppliche per essere sciolto.
In molte galere viene instaurato un vero e proprio codice ossessivo, con regolamenti così cavillosi che diviene impossibile ricordarli. Ciò determina l’instaurarsi di comportamenti ossessivi apparentemente incomprensibili. Nei manicomi, e nella maggior parte dei reparti psichiatrici ospedalieri, la chiusura, gli orari, i regolamenti, ancora danno luogo, soprattutto nei malati ricoverati più a lungo, a una sorta di comportamento ossessivo (anche detto sindrome da istituzione totale).
Nelle galere esiste il torturatore buono e quello cattivo. Sotto la tortura la visione del mondo si fa binaria, dicotomica, tra pulito e sporco, buono e cattivo. Nei reparti psichiatrici si alternano terapeuti cattivi che minacciano e legano e terapeuti buoni che promettono e sciolgono. Esistono due tipi di pensiero, quello delirante e sragionevole e quello sano e ragionevole. Nelle galere è prevista la medicazione non terapeutica. Psicofarmaci vengono somministrati ai detenuti delle carceri o dei centri di identificazione e di espulsione per migranti, a scopo punitivo. Questa pratica è la regola nei reparti psichiatrici. Dove, ormai, la terapia farmacologica è considerata l’unica terapia, quindi per giustificare il ricovero, e il trattamento, bisogna per forza farmacologizzare il ricoverato. Fino a legarlo, se rifiuta di prendersi i farmaci.
Affermano Tobie Nathan e Lucien Houtpaktin che, mentre infieriscono sulle vittime, i carnefici pronunciano delle “parole agenti”, che potenziano l’effetto distruttivo della tortura (“Tu non sarai mai più un uomo”). Anche i medici della mente mentre legano un ricoverato o lo obbligano a mandar giù farmaci pronunciano frasi del tipo: “Lo facciamo per il suo bene”, “E’ come se lei avesse il diabete, deve curarsi, deve prendere i farmaci”, “Deve rimanere legato fino a domani, così impara a controllarsi”, “Tenendola contenuto noi le ripristiniamo i confini del sé, o dell’io”.
La tortura è una tecnica d’inoculazione dell’intenzionalità di tutto un gruppo, tramite l’interfaccia costituita dai torturatori, in un altro gruppo, tramite l’interfaccia del torturato. Attraverso il singolo torturato si vuole colpire il gruppo di appartenenza: partito politico, setta, etnia, razza, gruppo rivoluzionario. Gruppi che in comune hanno solo di essere minoritari, di non aderire alle idee collettive condivise dalla maggioranza. Gli psichiatri, i medici della mente, rappresentano i tutori del mondo dei ragionevoli (la maggioranza), i malati di mente, o designati tali, sono assimilabili a un gruppo minoritario, quello degli sragionevoli (i paranoici, i deliranti, gli schizofrenici, gli euforici, i grandiosi, i depressi, i suicidari, i drogati, i frenastenici, i dementi) che, non potendo essere compresi, vengono silenziati e azzerati recludendoli e legandoli.
[...]

daniela -k.d.- - 2016/10/23 - 14:04




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