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Sonetto 87 [I' son venuto di schiatta di struzzo]

Cecco Angiolieri
Language: Italian (Toscano senese antico)



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S’i’ fosse foco
(Fabrizio De André)


[XIII secolo / ca. 13th Century]
Sonetto di / A sonnet by / Un sonnet de Cecco Angiolieri
Cecco Angiolierin sonetti
Musica / Music / Musique / Sävel: Fabrizio De André, S’i’ fosse foco

ceccangio


Molti anni fa, esattamente il 29 marzo 2013, l'ora dormiente BB (allora semplicemente “Bernart”) contribuì per questo sito il famoso sonetto di Cecco Angiolieri, S’i’ fosse foco, naturalmente musicato e cantato da Fabrizio De André, nel 1968. Precisato che il titolo è arbitrario, in quanto i circa centoquaranta sonetti di Cecco Angiolieri che ci sono rimasti sono semplicemente numerati (S'ì' fosse foco è il Sonetto n° 98), ed altresì rimandando ad un mio breve commento su quella pagina, ci potrebbe, anche a distanza di anni, stare qualche ulteriore considerazione. Ad esempio, il fatto che De André, perfettamente in barba alle più moderne e dotte interpretazioni storiche e letterarie, abbia accettato e perpetrato la suggestione tardoromantica ottocentesca dell'Angiolieri come poète maudit ante litteram, della quale, in sostanza, è responsabile quell'Alessandro D'Ancona che oramai parecchie volte abbiamo incontrato qua dentro disquisendo di antiche ballate popolari e della sua celebre collaborazione con Francis James Child. Dal saggio che il D'Ancona scrisse nel 1874 relativamente a Cecco Angiolieri e ai suoi sonetti, l'immagine del poeta senese (nato circa nel 1260, e morto tra il 1311 e il 1313) si è oramai fissata come una sorta di anarchico e impenitente beone, giocatore e donnaiolo, spregiatore di ogni convenzione sociale, che aveva in odio la sua famiglia (e specialmente il padre) e, in defnitiva, tutto il mondo. E sia; del resto, talmente scarse sono le notizie biografiche certe sull'Angiolieri (la cui fama di débauche e scelleratezza, però, doveva essere “passata” ben presto, se è reso protagonista anche di una novella del Decameron del Boccaccio, esattamente la IV della IX giornata) che un po' tutto si può dire, pensare e argomentare. E, a mio parere, una pur sottile ipotesi che il Faber abbia voluto musicare quel famoso sonetto dugentesco proprio nel 1968, anno in cui il mondo cominciava ad essere arso, tempestato ed annegato da una miriade di ragazze e giovanotti che ora, nella migliore delle ipotesi, hanno una settantina d'anni, potrebbe avere qualche fondamento.

D'accordo; però, come detto, i sonetti rimastici di Cecco Angiolieri sono circa centoquaranta. Tolta la grande celebrità del n° 98, rinfocolata a dismisura da Fabrizio De André parecchi secoli dopo, e nominatine altri due che, pur senza raggiungere le vette di S'i' fosse foco, sono abbastanza noti (il n° 99, quello della donna, la taverna e 'l dado, e il n° 137, dove l'Angiolieri risponde per le rime nientemeno che a Dante Alighieri, dicendogliene di cotte e di crude), gli altri se ne stanno lì a viver grama vita, consegnati nei codici e nelle antologie, senza che nessuno ne sappia recitare a memoria un verso che sia uno in croce. Insomma, povero il Cecco Angiolieri, costantemente sballottato tra poetica maledettàggine e critici ridimensionatori, tra cantautori nel '68 (il 1268?...) e atroci beffe nelle novelle del Boccaccio, tra filologi tardoromantici e siti di canzoni contro la guerra....già, perché tra le poche, anzi pochissime certezze biografiche che se ne hanno, una è quella della sua sgangherata carriera militare. Come appartenente ad una cospicua, storica e ricca casata nobiliare senese di parte Guelfa (l'odiatissimo padre, Angioliero degli Angiolieri, era un banchiere, avarissimo nonché assai pio membro dell'ordine dei Frati della Beata Gloriosa Vergine Maria, i cosiddetti “Frati Gaudenti”), il giovane Francesco poi detto Cecco ebbe a dare il suo bravo contributo alle campagne militari della sua città, ivi compresa l'arcinota battaglia di Campaldino dell'11 giugno 1289, dove pare abbia conosciuto di persona Dante Alighieri. S'ignora quale e quanta sia stata la prodezza in combattimento dell'Angiolieri; ma non sembra proprio che la vita militare facesse per lui, se fu ripetutamente sorpreso a violare le consegne e i coprifuochi, ad impegnarsi in risse coi commilitoni e, soprattutto, disertando ripetutamente -tanto che fu processato e multato diverse volte per negligenza militare venendo infine addirittura bandito da Siena. In mezzo al suo totale dissesto economico e gli amori con la Becchina, l' “anti-Beatrice” per eccellenza, finì col patire la fame; testimone ne è il sonetto che qui si va a presentare (il numero 87), dedicato specificamente alle conseguenze sullo stomaco che proprio la vita militare gli aveva provocato. Senza niente da mangiare e dilapidando il magro soldo in ogni gozzoviglia e azzardo, lo stomaco in questione gli era diventato come quello di uno struzzo, che digerisce anche i chiodi. Chiodi appunto; e, infatti, per mangiare un po', aveva venduto praticamente tutta la sua bardatura militare – presumendo che il cavallo se lo era già bell'e pappato. Tutto in vendita: armatura, elmo, corsetto, cotta di maglia, la gorgiera, lo scudo, persino i panni. Insomma, tutta la bardatura del cavaliere. Il medioevo cavalleresco riceve qui, come dire, un duro colpo; e viene a mente, senz'altro, l'armata Brancaleone.

Le notizie in vita di Cecco Angiolieri si perdono nel 1302, anno in cui svendette una sua vigna a tale Neri Perini per 700 lire; il 25 febbraio 1313, Cecco Angiolieri doveva essere già bell'e morto, se cinque dei figli che nel frattempo aveva seminato in giro rinunciarono con atto strumento notarile all'eredità del padre -consistente in debiti, ipoteche, atti giudiziari, multe da pagare e quant'altro. Insomma, questo sonetto di fame militare e di stomaci struzzeschi lo vogliamo pure cantare? Chissà. Certo che la musica c'è di già: i sonetti dell'Angiolieri hanno tutti la medesima struttura metrica, e possono esser cantati agevolmente sulla musica scritta da De André (provare per credere) per S'i' fosse foco. Perché non sfruttare questa possibilità, avvertendo però che il linguaggio non è così immediato come quello del Sonetto 98? Tant'è che, per facilitare la comprensione, ho messo un'interpretazione in italiano moderno. Buona lettura, e buon canto se volete. [RV]
I’son venuto di schiatta di struzzo, [1]
ne l’oste stando, per la fame grande:
ché d’un corsetto ho fatto mie vivande,
mangiandol tutto a magli’ ed a ferruzzo.

E son si fatto, che non mi vien puzzo,
ma piú abboccato, che porco a le ghiande:
s’i’ho mangiat’i panni, il ver si spande,
ch’i’non ho piú né mobile né gruzzo.

Ma egli m’è rimasa una gorgiera,
la quale m’ha a dar ber pur una volta,
e manderolla col farsetto a schiera.

La lancia non vi conto, ché m’è tolta;
ma ’l tavolaccio con la cervelliera
mi vanno in gola, e giá danno la volta.
[1] Io, dalla gran fame, sono diventato come gli struzzi stando nell'esercito: con un corsetto mi son comprato le mie vivande, mangiandomelo tutto una maglia dopo l'altra. E son così fatto, che non mi fa per nulla schifo, ma anzi ho più appetito di un porco davanti alle ghiande; certo che ho venduto pure i miei panni per mangiare, dato che non ho più neanche un mobile e né il becco d'un quattrino. Però m'è ancora rimasta una gorgiera, con la quale conto di farmi una bevuta, una volta; e la manderò a far compagnia al farsetto [= venderò pure lei]. Non vi dico della lancia, che l'ho già data via; ma lo scudo e la cervelliera me li sono pappati, e già li vomito.

Contributed by Riccardo Venturi - 2021/7/2 - 10:54




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