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Te Deum (o Te Deum de’ Calabresi)

Gian Lorenzo Cardone
Language: Italian (Calabrese, Siciliano, Pugliese, Lucano)


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[1787-1800]
Versi di Gian Lorenzo Cardone (1743-1813), nativo di Bella, Potenza, pittore, poeta e militante giacobino durante la Rivoluzione partenopea del 1799.
Musica di Giovanni Paisiello (1740-1816), nativo di Taranto, uno dei più importanti e influenti compositori d'opera del Classicismo italiano.
Una versione condensata del “Te Deum de’ Calabresi” è stata proposta da Vinicio Capossela in un suo concerto a Rendano di Cosenza nel 2012.
Testo trovato in La storia di Bella, documento non firmato presente sul sito dello spettacolo “Mille e ancora mille” patrocinato dal Comune di Bella e realizzato da Claudio Paternò e altri.



“Te Deum della Rivoluzione, terribile e bellissimo”. Sono le parole che Benedetto Croce usò per il più sconvolgente inno giacobino emerso dalla rivoluzione napoletana del 1799. Si intitola “Il Te Deum de' Calabresi” e sembra fosse cantato dai patrioti partenopei sulle note di una musica nientemeno che di Paisiello. A ripubblicarlo con rinnovate cure filologiche e un'ampia introduzione storica provvede ora un antropologo dell'Università di Salerno, Domenico Scafoglio, che da anni scava nel mistero addensatosi intorno a questo singolare canto rivoluzionario. Appartenente a un genere consolidato delle letterature dialettali del Sud come la parodia degli inni religiosi (ci sono "Pater noster" siciliani contro i gesuiti e invocazioni calabresi al Padreterno contro i piemontesi), il "Te Deum" è opera di un autore di cui non conosciamo bene l'identitaà. Per Settembrini era un pittore e poeta calabrese, per Giustino Fortunato e per Croce un piccolo possidente lucano. Certo è che pochi altri testi sono percorsi da un'analoga carica di disperato sarcasmo. Forse il "Te Deum" è il più cupo fra i non numerosi inni giacobini in dialetto: ben più di Passapòrt dj'aristocrat del piemontese Edoardo Calvo, come di Su patriottu Sardu a sos feudatarios [Procurad' e moderare], la "Marsigliese sarda" di Francesco Ignazio Mannu. Il testo del "Te Deum de' Calabresi", scritto in uno stilizzato dialetto calabrese, nacque in due diversi momenti. La prima parte sembra sia stata composta nel 1787, quando cominciava a entrare in crisi il rapporto tra l'intelligencija partenopea e la corte borbonica, mentre la seconda fu probabilmente aggiunta tra il 1800 e il 1801. Qui l' antifrastica contraffazione dell'inno ecclesiastico assume un significato ben altrimenti tragico. La parodia della preghiera di ringraziamento a Dio, la più solenne prevista dalla liturgia cattolica, veniva infatti intonata all'indomani della carneficina che le armate del cardinale Ruffo avevano perpetrato proprio nel nome della Santa Fede.
(Franco Brevini, recensione a “Te Deum per un massacro. Napoli prima e dopo il 1799”, di Domenico Scafoglio, Avigliano Editore, ne Il Corriere della Sera del 13 settembre 1999)






Ferdinando I di Borbone sale al trono nel 1759, all’età di otto anni. Il padre Carlo III, assunta la corona di Spagna, lascia al figlio il regno di Napoli dopo averlo conquistato, reso indipendente e governato con saggezza. A causa della minore età del re il potere viene affidato a un Consiglio di reggenza guidato dal giurista Bernardo Tanucci. Questi, di estrazione borghese, colto e illuminato aveva seguito a Napoli Carlo III di passaggio per Firenze. Il nuovo sovrano resta fuori dalle guerre europee ed attiva un processo riformatore nei vari settori della vita pubblica. Con opportuni provvedimenti legislativi lo Stato viene trasformato in senso laico ed incomincia a liberarsi della grave cappa medievale dei privilegi baronali e di quelli della Chiesa. Con Carlo III Napoli diventa una città europea e vede fiorire una scuola illuministica che compete con quella di Parigi e di Milano. Ma i sommovimenti culturali e politici di Parigi prima, e la Rivoluzione francese dopo, bloccano il processo riformatore. La Rivoluzione fa tremare la Corona. Il Tanucci viene allontanato e al suo posto arriva Lord Acton, che fino a quel momento aveva organizzato con successo la Regia marina e l’esercito. Questi in poco tempo diventa il vero arbitro della politica del Reame, vuoi per i suoi rapporti intimi con la regina Maria Carolina, vuoi per la debolezza del Re, amante dei divertimenti grossolani e poco incline ad occuparsi dei problemi dello Stato. Il potere a Napoli è nelle mani d’un gruppo ristretto: la regina Maria Carolina, Lord John Acton, Lady Hamilton e l’Ammiraglio Horatio Nelson. Col cambio della linea politica del Re si ferma il processo riformatore ed incominciano le persecuzioni di massoni, riformisti e giacobini. Alla politica antifrancese e conservatrice di John Acton e del gruppo, guidato dalla Regina, si oppongono uomini di cultura riformatrice e liberale che organizzano sommosse ed insurrezioni. L’esecuzione a Parigi della Regina Maria Antonietta diventa un incubo per la sorella Maria Carolina, ed il Re, sempre più schiavo della moglie, autorizza una vasta e spietata repressione di liberali, patrioti e massoni. Esecuzioni sommarie, carcere duro ed esilio per gli oppositori. Nel 1799, approfittando della presenza dell’esercito francese a Napoli, i giacobini prendono il potere e proclamano la Repubblica. Alla guida troviamo uomini d’ingegno, come il giurista Mario Pagano. L’intento della nuova classe dirigente è quello di riformare lo Stato in senso liberale. Ma il governo repubblicano, in sostanza sotto il controllo francese, con i primi provvedimenti sbagliati, si aliena l’appoggio popolare. Certo ha influito l’inesperienza dei patrioti dotati di cultura illuministica ma privi di conoscenza dei problemi reali del popolo oppresso e affamato. In questo contesto ha buon gioco il cardinale Fabrizio Ruffo che scende in Calabria e da Scilla organizza l’esercito della Santa Fede alla cui testa risale la penisola combattendo francesi e repubblicani. Conquista Napoli con l’appoggio dei lazzari e della plebe rimasta sempre fedele al Re e alla Chiesa. Il Cardinale vincitore, con grande tatto politico, offre ai rivoluzionari una resa onorevole che dopo però non viene rispettata per l’intervento sulla Monarchia dell’ammiraglio Nelson, amante di Lady Hamilton molto influente sulla Regina. Tutti i capi repubblicani, liberali e massoni vengono arrestati; seguono immediatamente i processi sommari; 123 vengono mandati al patibolo, centinaia incarcerati ed esiliati. Questa carneficina inutile segna un divorzio tra la borghesia moderata e liberale e la dinastia dei Borbone. E certamente qui va ricercata la crisi irreversibile del Regno delle due Sicilie. In questo contesto storico si colloca Il “ Te Deum “ dei Calabresi del poeta Gian Lorenzo Cardona, nato a Bella in Lucania nel 1743, vissuto a Napoli dove fece parte del movimento giacobino assieme ad una elite culturale di estrazione nobiliare e borghese. Col gruppo giacobino napoletano condivise i sogni di libertà, le congiure, le cospirazioni, le speranze nel breve periodo repubblicano, e poi la sconfitta per opera dei sanfedisti del cardinale Ruffo. Ha assistito impotente e atterrito alla carneficina voluta dall’ammiraglio Nelson.

Il “Te Deum”, nella liturgia cattolica, è l’inno di ringraziamento dei fedeli a Dio creatore onnipotente. Nel canto gregoriano raggiunge vette artistiche di sublime poesia. Non solo le creature umane e terrestri, ma anche i Cori angelici tutti elevano il loro ringraziamento all’Altissimo. L’inno veniva e viene eseguito ancora in circostanze importanti per la vita politica e civile della collettività. Il Cardona, segue apparentemente la tradizione.

I cori angelici e gli uomini tutti innalzano a Dio le loro lodi. A questo punto i versi del Cardona assumono un aspetto dissacratorio e satirico verso un Dio potente che consente che il male trionfi, premia i malvagi e sacrifica i buoni. Nel lettore si presenta l’antica domanda che troviamo per la prima volta nel libro di Giobbe: perché Dio premia i cattivi e punisce i buoni? Ma il poeta non s’interroga, si serva della satira e dell’ironia per demolire la presenza d’un Dio buono e provvidente. Cita il Vecchio e il Nuovo Testamento per demolire l’apparato teologico e dogmatico cristiano. A differenza di Arrigo Boito che fa professione di fede in un Dio crudele Cardona sembra intenzionato a demolire la stessa esistenza di Dio. Ironizza sulla promessa di salute eterna per i poveri e perseguitati; irride sulla imperscrutabilità divina. La satira diventa sarcasmo ed invettiva quando dal Re celeste si passa a quello di Napoli e ai responsabili della dura repressione dei patrioti napoletani del 1799. Il Cardona individua una delle responsabili in Lady Hamilton, la bella cortigiana di facili costumi, animatrice di feste e banchetti, centro di ogni intrigo di Corte e amante del Conte Acton prima e dell’ammiraglio Nelson dopo.

Il Nelson si serve proprio di Lady Emma Liona Hamilton per convincere la regina Maria Carolina a non rispettare le condizioni di resa pattuite dal cardinale Fabrizio Ruffo con i capi repubblicani assediati. Cardona scrive la seconda parte del canto nel 1800. I suoi strali, anzi il suo disprezzo è rivolto ora alla Liona, ritenuta responsabile dei patti non mantenuti.

Ridicolizza le Scritture dove affermano che Dio al termine della creazione fece l’uomo a sua immagine somiglianza.

Dissacra il peccato originale, la redenzione per i soli battezzati e la giustizia di Dio che trasmette la colpa d’Adamo a tutto il genere umano.

Ironizza sul popolo eletto che ha crocifisso Cristo e sull’alleanza del Trono con l’Altare per mantenere lo status quo.

Dopo avere demolito i pilastri della dottrina cristiana Cardona lancia l’affondo finale. Colpisce al cuore l’apparato dogmatico della fede cattolica, cioè il Credo, professione di fede dei cristiani.

Il poeta vive in un periodo di grandi rivolgimenti culturali e politici. L’alleanza del Trono con l’Altare blocca anche a Napoli ogni anelito di libertà. Il popolo ignorante e affamato sta con i Borbone anche per gli errori dei francesi e dei liberali napoletani durante la breve vita della Repubblica. Cardona sa bene che per preparare tempi nuovi occorre demolire la monarchia borbonica e quella papale. Questo è lo scopo del Te Deum scritto in dialetto per renderlo accessibile ad un popolo ancora quasi completamente analfabeta.”
(Bruno Chinè, “Il Te Deum dei calabresi di Gian Lorenzo Cardona”)
Parte prima [1787]

Granni Deu, a tia laudamu,
Ed a Tia nni cunfissamu.
Tu crijasti da lu nenti
Cieli, stiddi e firmamenti,
Terri, mari, pisci, auceddi,
Uomu fortu e donni beddi;
E pi Tua summa crimenza,
Tu nni dài la pruvidenza.
[Coro ad alta voce]
Laudamu, laudamu
Lu Deu d’Abramu!
[Coro a bassa voce]
Uh chi vanniu li Santi e li Prufeti?
Pi parte di j nnanti, eu vau arreti!

Tutti l’Angiuli bijati,
Chirubini, Sirafini,
Cieli, Terri, e Putistati,
Granni Deu, Ti fannu nnchini;
Cu lu suonu e cu lu cantu,
Allargannu li cunnutti,
Strilla’gnunu: «Santu, Santu,
Santu Deu di Sabautti»

Chiddu Deu nni fa vidiri
Tante cosi da sturdiri,
Nui vidimu ca stu Deu
T'ngrannisci nu prebeu;
Chi nu teni nu paliccu,
Pi sti Deu, divienti riccu.
Picuzzieddi, a nui strillamu:
«Viva Deu, lu Deu d’Abramu!»

Per esempiu: nu scrivanu,
Senz’aviri na cammisi,
T’àuza capu, chianu chianu,
Nfi ca zicca li turnisi;
Ti manteni na calissa,
Vesti buonu, e ba a la fissa:
Cianculèja, stu fariseu...
Uh miraculi di Deu!

Nui vidimu sti smazzati,
Di diviersi naziuni,
Di li donni titulati
Far li beddi e li stadduni;
E chi stava a li caluri,
E n’affrittu zabbadeu
Sta cu l’aria di signuri...
Uh grannizzi di stu Deu!

Na Scrufazza furasteri
Veni scàuza ed alla nura;
Nu signori cavaleri
Ciuccio ciuccio s'annamira,
La manteni cu li cocchiu.
Si fa fùtteri da tutti...
Viva Deu di Sabautti!

Na picazza da triatru,
Nu castruni puzzolenti,
N'ausuraru finu latru,
E li piè curi cuntienti,
Curtiggiani fàuzi cani,
Soiunieddi, palummieddi,
Fannu così! Uh figghiu meu,
C'ài da diri? Evviva Deu!

Nu tratturi Deu 'grannisci, -
Cu nu ruòtolo di pisci
E di carni e vermicieddi
Fa trimila piattieddi;
Cu na picca di farini,
Zippulicieddi fini fini
Ti ni stampa a miliuni...
Uh di Deu miraculuni!

Chi si merita na funi,
Fierru, focu, lampu e truonu,
Tu 'ngrannisci e tu pirduni,
Granni Deu, picchi si buonu!
Pò tant’uomini nnurati,
Ca Tu stissi l'ài crijati,
Li mantieni affritti e strutti...
Viva Deu di Sabautti!
[Coro ad alta voce]
Laudamu, laudamu
Lu Deu d’Abramu!
[Coro a bassa voce]
Ca si chistu è di Deu l’autu decreti
Dicimu: «Santu, Santu»… e ghiamu arreti!


Parte Seconda [1800]

Nta li Tui librazzi santi
Scrittu sta senza misteriu,
Ca di tutti li furfanti
Pirirà lu disideriu.
Ura l'impii e li tiranni
Fanno saccu, strazii e danni;
Fannu strazii di nnucenti...
Viva Deu unniputenti!
[Coro ad alta voce]
Laudamu, laudamu
Lu Deu d’Abramu!
[Coro a bassa voce]
Uh chi vanniu li Santi e li Prufeti?
Pi parte di j nnanti, eu vau arreti!

Ci sta scrittu, che taluri
Tu pazzii supra la terra;
E pi fàrici favuri,
Nni dài pesti, fami e guerri;
Tu curriggi, abbatti e schianti
Chidd'amici a Tia chiù cari.
Ma li Tui judìcii santi
Nun si ponnu scrutinari!

Tu fai dire a li saccenti,
C'a stu munnu nun c'é mali.
Tuttu è buonu?! E mancu è nenti
Guidubaldu e Speziali?
Mancu è nenti Monzù Actuni,
Lu si Fabiu picuruni,
La mugghiera, Sua Eminenza?
Viva Deu, summa sapienza!

Tu dicisti a li briccuni
D’accurciarli l’esistenza;
Pò cangiannu ‘ntenziuni,
Tu l’aspietti a pinitenza.
Ma Tu vuoi che chidda troia
Mò si penti - alla vicchizza?
Granni Deu, nci vò lu boia -
Cu nu fierru e na capizza!

San Matteu nnà dittu e scrittu:
«Si tu stai scàuzu ed affrittu,
Nun circari a Deu mai nenti
Pi lu tàffiu e bestimenti;
Ma di Deu li regni immenzi
Circa apprimu, e appriesso avrai
(Quannu manco ti lu penzi)
Chissi così, che non ài».

Viva sempri stu scritturi,
Ca da nui dui abbrazzatu!
Ma mò stamu a li caluri,
Peju di primu e senza jatu;
Pò na tigri, 'n furma umana,
Quantu circa - vià da Deu...
Pirsudìmuci: è puttana;
La pruteggi San Matteu!

Tu si l'ottimu Pasturi,
Ca li piecuri sai tutti;
Li fai pàsciri, e prucuri
Ca lu lupu nu l'agghiutti:
Mircinariu mai nun fusti;
E vulènvuti addurmiri,
Da li santi vecchi e giusti
La facivi custodiri.

Pi Ti fa n'ura di suonnu,
Tu di Padua a Santo Tuonnu
Disti 'n guardia chidda greggi,
Ca dicivi di pruteggi:
Stu bardascciu a li dirupi
Nni minai, mmucca a li lupi!
Mò nun vidi - mò nun sienti?!
Vuoi durmiri eternamenti?!

Tu prumitti, ca nni dài
Tanta nivi quantu lana.
Ma na scrufa ni spugghiai,
Si pascìu di carni umana:
Spugghiai banchi, chiesi e chiostri;
Nun trattai che fùrii e mostri;
Spira tuòssicu e minnitta...
Né li scagghi na saitta?!

Lu maritu picuruni
Nun circ'àutru ca l'Astruni,
Lu Fusaru, Carditieddu,
Buonu tàffiu e lu vurdieddu:
Tira fumu pi lu nasu,
E lu tira adasu adasu,
Nfi ca l'uocchi sulamenti
Nni lassa - scuri e chiangenti!

Tu ca l’uomini facisti
Tali e quali comm’ a Tia,
E ca dopu Ti pentisti
D’avì fattu sta ginia;
Pò crijasti li Niruni,
Li tiranni a miliuni.
Ed a chisti T'assummigghi?!
Che biddizzi! Che consigghi!

Da Daviedi sulamenti
Tu dicisti, granni Deu:ù
«Ai truvatu nu viventi
Cumi vò lu cori meu».
Chistu, pò, fici pi sborrii
Umicìdii e pruditorii.
Tu chist'ìmpiu pirdunasti...
E li sudditi 'mpistasti!

A nu birbu, ch'è filici,
Quannu è muortu pò li dici:
«Tu li beni ài ricevutu
Mmita tua, mò si pirdutu».

Nu prufeta Tu lu manni
A truvà li miritrici
Pi fa figghi; e pò cumanni
A nui uomini n'filici
Di fuì nfi li pinzieri:
Ca nni vonnu li migghieri
Pi chiavari, ca nc'è lu nfernu...
Uh di Deu judiciu eternu!

Quannu Adamu e la mugghiera
Chiddu pumu ànnu agghiuttutu,
La justizia Tua sivera
Tutti l’uomini ha futtutu;
E ‘ntra tanti miliuni,
C'ai ridenti, tu pirduni
Chiddi picchi vattiati,
Cunfissati…Uh che pietati!

Chiami Tu populu eletto
Chiddu Ebreu, ca pi dispettu
T’à nijatu e cumprumissu,
Truggidatu e crucifissu...
Nui cridimu, a tiempu nuostri,
Ca l'eletti sò li mostri,
Na scrufazza, va nn' accidi,
Lazzaruni e Santafidi!

L'uomu stupidi e murtali,
A lu senzi littirali
Di la Bibbia, si sturdisce;
Li mistèrii nun capisce:
Nu sa chidda prufizia,
Ca pridìci lu Missia
Da Palummu 'nginittatu;
Da na Virgini figghiatu!

Resta l'uomu chiù confusu
(Mo pirò li bardasciuni)
A lu canticu famusu
Di lu saviu Salamuni.
Ddà si parla di biddizzi,
D'uocchi, labbri, pietti e zizzi;
Ddà si dici: «cori meu!»
Ma chi parla? Parla Deu!

Deu cu l'arma sta faciennu
Du discurzu affituusu,
Mentri pò li sta mittiennu
Nu ditiddu a lu pirtusu:
Nta la panza idda tremai, -
Chistu Deu pò la purtai,
Sula sula, a lu ciddaru;
S'infurcaru, e s'abbrazzaru!

Eu vi parlu di li senzi
Littirali; ma li mmenzi
Spusituri, gran dutturi,
Patri Santi, li sissanta -
Quattru senzi ànnu scifratu;
Nè la cosa è chiù confusa:
Deu, di l'arma è nnammuratu;
Deu la vasa, e si la spusa!

Di stu Deu lu Figghiuolu
Si spusai - a stuolo a stuolo
Chiesi, santi e virgineddi,
Nta catuoi e nta li ceddi:
Iddu sulu ànnui d'amari,
Robbi e sanctu ànnu a lassari;
E' hilusi, ed è sdignusi
Pi nu menti... Uh Deu crimenti!

Picuzzieddi, ca sintiti
Di stu Deu l'opri 'nfiniti,
Via! Faciti atti d'amuri,
Di spiranza e di duluri:
Prupunìti a nun piccari,
A vulirvi cunfissari;
Pirdunati a chidd'arpia, -
E diciti appriessu a mia:

«Nui cridimu firmamenti
Ca sit’uni e siti trii;
Tutti trii unniputenti,
Unu, Deu nun già tri Dii».
Diciarannu li marmotti,
Ch’è nu juocu a bussolotti...
Nui pirò strillamu tutti:
«Viva Deu di Sabautti!»
[Coro ad alta voce]
Laudamu, laudamu
Lu Deu d’Abramu!
[Coro a bassa voce]
E lu Figghiu di Deu, Peppi e Maria,
Li Santi e li Prufeti… E accussì sia!

Contributed by Bernart Bartleby - 2015/10/26 - 15:49



Language: Italian

Traduzione italiana da La storia di Bella, documento non firmato presente sul sito dello spettacolo “Mille e ancora mille” patrocinato dal Comune di Bella e realizzato da Claudio Paternò e altri.
IL TE DEUM DEI CALABRESI

[Parte prima, 1787]

Grande Dio, Te lodiamo,
ed a Te ci confessiamo.
Tu creasti dal niente
Cieli, stelle e firmamenti,
Terre, mari, pesci, uccelli,
Uomo forte e donne belle;
E per Tua somma clemenza,
Tu ci dai la Provvidenza.
[Coro ad alta voce]
Lodiamo, lodiamo
Il Dio di Abramo!
[Coro a bassa voce]
Oh chi esalta i Santi e i Profeti?
Invece di andare avanti, io vado indietro!

Tutti gli Angeli beati,
Cherubini, Serafini,
Cieli, Terra e Potestà,
Grande Dio, Ti fanno inchini;
Con il suono e con il canto?
Allargando i condotti della gola,
Grida ognuno: “Santo, Santo,
Santo Dio di Sabaoth!”

Quello Dio ci fai vedere
Tante cose da stupire.
Noi vediamo che questo Dio
Ti rende grande il plebeo;
Chi non ha uno stuzzicadenti,
Per questo Dio diventa ricco.
Chierichetti avanti, gridiamo:
“Viva Dio, il Dio di Abramo!”

Per esempio: uno scrivano,
che non ha nemmeno la camicia,
alza il capo, piano piano,
Finché arriva al denaro;
Si permette un calesse,
veste bene, e va ai bagordi,
Va cianciando, questo fariseo…
Oh miracolo di Dio!

Noi vediamo questi fuoriusciti, (in senso dispregiativo, rifiuti)
Di diverse nazioni,
Con donne titolate
Fare i belli e gli stalloni;
E colui che stava alla calura,
E un affitto zebedeo
Star con l’aria di signori…
Oh grandezze di questo Dio!

Una donnaccia forestiera
Arriva scalza e nuda;
Un signor cavaliere
Ciuco – ciuco s’innamora,
La mantiene con i cocchi.
Ella, poi, fino a dentro gli occhi
Si fa fottere da tutti…
Viva Dio di Sabaoth!

Una cantante da teatro,
Un castrone puzzolente,
Un usuraio fino ladro,
E i cornuti contenti,
Cortigiani falsi cani,
Spioncelli, giovincelle,
Fanno certe cose! Uh figlio mio,
Che devo dire? Evviva Dio!

Un trattore Dio ingrandisce,
Che, con un rotolo di pesci
E di carne e vermicelli
Fa tremila piatticelli:
Con un poco di farina,
zeppole fine fine
Te ne sforna a milioni…
Oh miracolone di Dio!

Chi meriterebbe di essere impiccato,
o di essere colpito da ferro, fuoco, fulmine e tuono,
Tu ingrandisci e Tu perdoni,
Grande Dio, perché dei buono!
Poi tanti uomini onorati,
che Tu stesso hai creato.
Li mantieni afflitti e distrutti…
Viva Dio Di Sabaoth!
[Coro ad alta voce]
Lodiamo, lodiamo
Il Dio di Abramo!
[Coro a bassa voce]
Perché se è questo di Dio l’alto decreto,
Diciamo: “Santo, Santo”…, e andiamo indietro!


[Parte seconda, 1800]

Nei tuoi libroni santi
Scritto c’è senza mistero,
Che di tutti i furfanti
Perirà il desiderio.
Ora gli empi ed i tiranni
Fanno sacco, strazio e danni;
fanno strazio d’innocenti…
Viva Dio Onnipotente!
[Coro ad alta voce]
Lodiamo, lodiamo
Il Dio di Abramo!
[Coro a bassa voce]
Oh chi innalza i Santi e i Profeti?
Invece di andare avanti, io vado indietro!

C’è scritto, che talora
Tu folleggi sulla Terra;
E per farci favori,
Ci mandi peste, fame e guerra:
Tu correggi, abbatti e schianti
Quegli amici a Te più cari.
Ma i tuoi santi giudizi
Non si possono giudicare!

Tu fai dire ai sapienti,
Che a questo mondo non c’è male.
Tutto è buono? E non è niente
Guidobaldo e Speziale,
La Regina, Monsignor Actuni,
Il signor Fabio pecorone? (cattive persone dell’epoca)
Manco è niente sua Eminenza?
Viva Dio, somma sapienza!

Tu dicesti che ai bricconi
Bisogna accorciare l’esistenza;
Poi cambiando opinione,
Tu l’aspetti penitenza.
Ma tu vuoi che quella troia
Or si penta – alla vecchiaia?
Grande Dio, ci vuole il boia –
Con un ferro e una cavezza!

San Matteo ci ha detto e scritto:
“Se tu stai scalzo ed afflitto,
Non chiedere a Dio mai niente
Per il cibo e vestimenti;
Ma di Dio i regni immensi
Cerca prima, e poi avrai
(Quando meno te lo pensi)
Quelle cose, che non hai”.

Viva sempre questo scrittore,
Che da noi fu abbracciato!
Ma or siamo alla calura,
Peggio di prima e senza fiato;
Poi una tigre, in veste umana,
Quando chiede – ottiene da Dio…
Persuadiamoci: è puttana;
La protegge S. Matteo!

Tu sei l’ottimo pastore,
Che conosci tutte le pecore;
Le pasci e ti interessi
Che il lupo non le divori:
Mercenario mai sei stato;
E volendoti addormentare,
Dai santi vecchi giusti
Le facevi custodire.

Poi per farti un’ora di sonno,
A S. Antonio di Padova
Desti in guardia quel gregge,
Che dicevi di proteggere:
Quel bastardo ai burroni
Ci portò, in bocca ai lupi!
Adesso non vedi – adesso non senti?!
Vuoi dormire eternamente?!

Tu prometti, che ci dài
Tanta neve quanta lana.
Ma una scrofa ci spogliò,
Si nutrì di carne umana:
Spogliò banche, chiese e chiostri;
Non trattò che con furie e mostri;
Spira veleno e vendetta…
Non le scagli una saetta?!

Il marito pecorone (cornuto)
Non cerca altro che l’Astrone
Il Fusaro, il Carditello, (qualità di vino)
Cibo buono e bordello:
Caccia il fumo per il naso,
E lo aspira adagio adagio,
Finché gli occhi solamente
Non ci lascia – bui e piangenti!

Tu che gli uomini hai fatto
Tali e quali a Te,
E che dopo Ti pentisti
D’aver fatto questa genia;
Poi creasti i Neroni,
I tiranni a milioni.
E a questi assomigli?
Che bellezze, che consigli!

Di David solamente
Tu dichiarasti, grande Dio:
“Ho trovato un vivente
Come vuole il mio cuore”.
Questo, poi, fece per follia
Omicidi e tradimenti.
Tu questo empio perdonasti...
E i sudditi impestati!

Ad un birbone, che è infelice,
Quando è morto poi gli dici:
“Tu i beni hai ricevuto
Nella tua vita, or sei perduto”
Quando poi un uomo onorato
Campa afflitto e rovinato,
Tu lo premi nell’altra vita…
Oh di Dio bontà infinita!

Un profeta Tu lo mandi
a trovar le meretrici
Per far figli; e poi comandi
a noi uomini infelici
Di fuggir persino il pensarci:
Chè ci vogliono le mogli
Per far l’amore, chè c’è l’inferno..
Oh di Dio giudizio eterno!

Quando Adamo e la moglie
Quella mela hanno inghiottito,
La giustizia Tua severa
Tutti gli uomini ha fottuto;
E entro tanti milioni,
Che hai redento, Tu perdoni
A quei pochi battezzati
Confessati… Oh che pietà!

Chiami Tu popolo eletto
Quello Ebreo, che per dispetto
Ti ha negato e compromesso,
Trucidato e crocifisso…
Noi crediamo, ai tempi nostri,
Che gli eletti sono i mostri,
Una scrofazza, che ci uccide,
Lazzaroni e Sanfedisti!

L’uomo stupido e mortale,
A seguire il senso letterale
Della Bibbia, si stordisce;
I misteri non capisce:
Né sa quella profezia,
Che predice il Messia
Da un colombo generato;
Da una Vergine partorita!

Resta l’uomo più confuso
(Ma però solo i cretini)
Al cantico famoso
Del Savio Salomone.
Là si parla di bellezza,
Di occhi, labbra, petti e seni;
Là si dice, “cuore mio”
Ma chi parla? Parla Dio!

Dio con l’anima sta facendo
Un discorso affettuoso,
Mentre poi le sta mettendo
Un ditino nel buchetto:
Quella freme nella pancia. –
Questo Dio poi la portò,
Sola sola, a un angolino (sotto il noce);
S’infuocarono, e s’abbracciarono!

Io vi parlo del senso
Letterale; ma gli immensi
Espositori, gran dottori,
Padri santi, i sessanta –
quattro sensi decifrarono;
Né la cosa è più confusa:
Dio, dell’anima è innamorato;
Dio la bacia, e se la sposa!

Di questo Dio il Figliolo
Si sposò – a stuoli a stuoli
Chiese, santi e verginelle,
Nelle cantine e nelle celle:
Lui solo devono amare,
Roba e parenti devono lasciare;
E’ geloso, ed è collerico
Per un niente… Oh Dio clemente!

Chierichetti, che sentite
Di questo Dio le opere infinite,
Via! Fate atti d’amore,
Di speranza e di dolore:
Proponete di non peccare,
Di volervi confessare;
Perdonate a quell’arpia, -
E dite insieme a me:

“Noi crediamo fermamente,
Che siete uno e trino;
Tutti e tre onnipotenti,
Un sol Dio, non già tre Dii”.
Diranno i marmocchi,
Che è un gioco a bussolotti…
Noi però strilliamo tutti:
“Viva Dio di Sabaoth”
[Coro ad alta voce]
Lodiamo, lodiamo,
Il Dio d’Abramo!
[Coro a bassa voce]
E il figlio di Dio, Giuseppe e Maria,
I Santi e i Profeti… e così sia!

Contributed by Bernart Bartleby - 2015/10/26 - 21:14


La schizofrenia ideologica della narrazione di regime tende ad escludere un dettaglio importantissimo: i giacobini e i loro amichetti francesi uccisero più di 60.000 napolitani! Forse è per questo che i cosiddetti "lazzari" per qualche strano motivo decisero di combatter per il Trono e per l'Altare?!
Che siano per sempre maledetti tutti i giacobini e tutti i pennivendoli di regime.

Aniello Balestrieri - 2018/5/14 - 13:17




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