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L'orologio del ferroviere

Alberto Marchetti
Lingua: Italiano


Alberto Marchetti


Usciva a sera verso la Stazione
per attaccare alle 21 in punto,
e non gli risultava un’infrazione,
lui, in ritardo, non era mai giunto,
merito del suo Roskopf da taschino,
un orologio di cui si fidava
sin dalla sua assunzione al Tiburtino,
e quello di un secondo non sbagliava.

A luglio la compagna, al Prenestino,
in quel terribile bombardamento,
non tornò a casa, lui prese Peppino
e Rosa, trovò un altro appartamento,
nascose lo sgomento tra i binari,
nel buio, alla Stazione Tiburtina,
visibili le stelle, spenti i fari,
coi treni assenti sin quasi a mattina.

La Notte del 18 ottobre c’era
un treno merci sul binario uno,
curioso s’accostò, nell’aria nera
gli giunse, piano, il pianto di un bambino.
Capì, aveva udito degli ebrei
retati al ghetto e negli altri quartieri,
delle violenze dei nazisti e dei
fascisti, vili servi di stranieri.

Si ricordò di un avo di Orbetello
che visto Garibaldi a Talamone
lasciò la madre e il giovane fratello
per aiutarlo a fare una nazione.
Se è il mezzo che giustifica ogni fine
che fine avrebbe fatto quel bambino?
Al buio, spaventato e col magone,
riuscì a spiombare proprio quel vagone.

Era un giusto Michele il ferroviere,
di quelli che non ricorda nessuno,
e mentre lavorava, certe sere,
tenendo d’occhio quel binario uno,
scopriva un altro treno da trasporto
e al buio, senza farsi mai scoprire,
spiombava un carro, risoluto e accorto,
e i deportati riuscivano a fuggire.

Fu catturato a Piazza Cinquecento
e in carcere conobbe il suo destino,
rese possibile il riconoscimento
un orologio Roskopf nel taschino
di un corpo ritrovato senza testa
alle Fosse Ardeatine, massacrato,
quell’orologio, nell’ora funesta,
quando Michele morì, s’era fermato.



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