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Mikis Theodorakis / Mίκης Θεοδωράκης

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[1974/75]
Testo: Poema di Pablo Neruda
Lyrics: A poem by Pablo Neruda
Texte: Poème de Pablo Neruda
Texto: Poema de Pablo Neruda
Λόγια: Ποίημα του Πάμπλο Νερούδα
Vortoj: Poemo de Pablo Neruda

Musica: Mikis Theodorakis
Music: Mikis Theodorakis
Musique: Mikis Theodorakis
Música: Mikis Theodorakis
Μουσική: Μίκης Θεοδωράκης
Muziko: Mikis Theodorakis

Prima esecuzione: Atene, 1975
First performance: Athens, 1975
Première exécution: Athènes, 1975
Primera ejecución: Atenas, 1975
Πρώτη εκτέλεση: Αθήνα, 1975
Unua reprezentado: Ateno, 1975

Prima esecuzione completa: Berlino, RDT, 1981
First complete performance: Berlin, DDR, 1981
Première exécution complète: Berlin, RDA, 1981
Primera ejecución completa: Berlín, RDA, 1981
Πρώτη, πλήρης εκτέλεση: Βερολίνο, ΛΔΓ, 1981
Unua plena reprezentado: Berlino, 1981

Interpreti: Maria Farandouri e Petros Pandis
Performers: Maria Farandouri and Petros Pandis
Interprètes: Maria Farandouri et Petros Pandis
Intérpretes: Maria Farandouri y Petros Pandis
Ερμηνεία: Μαρία Φαραντούρη και Πέτρος Πάντης
Interpretoj: Maria Farandouri kaj Petros Pandis



Il testo è stato reperito dal Sito italiano di Pablo Neruda e confrontato con quello della Biblioteca Virtual Miguel Cervantes (BVMC).
The text is reproduced from Pablo Neruda's Italian Website by previous comparison with the Biblioteca Virtual Miguel Cervantes (BVMC) edition.
Le texte du poème, reproduit d'après le Site italien de Pablo Neruda, a été comparé avec l'édition de la Biblioteca Virtual Miguel Cervantes (BVMC)
Se reproduce aqui el texto del Sitio italiano de Pablo Neruda, comparado con la edición de la Biblioteca Virtual Miguel Cervantes (BVMC)
Το ποίημα επανεκδίδεται από την Ιταλική ιστοσελίδα του Πάμπλο Νερούδα και συγκρίθηκε με την έκδοση της Biblioteca Virtual Miguel Cervantes (BVMC)






Il Canto General di Neruda e Theodorakis
Di Gian Piero Testa


Mikis Theodorakis, che è buon poeta egli stesso, ne ha incontrati tanti di poeti nel corso della sua vita. Cosa ben strana per un musicista, è stato sempre convinto che prima venga la parola. Da ragazzino componeva talora sulle liriche di Palamàs e di Karyotakis. Ma dopo l'incontro con la poesia di Yannis Ritsos, la sua musica ha sempre preso le mosse da un poeta. In questo sito il nome di Mikis è sempre associato a quello di un poeta vero, spesso di un grande poeta. Ritsos, Elytis, Seferis, Lorca, Gatsos, Varnalis, Anagnostakis...: la lista è lunga e significativa. In Grecia il consorzio di poesia e musica fondato da Theodorakis fece scuola, ed è, anzi, il tratto più significativo della musica popolare d'arte, la cui stagione gloriosa non è ancora interamente morta.

Theodorakis incontrò anche il grande cileno Pablo Neruda, nel 1971. Grazie a quell'incontro parigino tra l'esule greco, che aveva appena lasciato una patria incatenata dal colonnello Papadopoulos, e l'ambasciatore cileno in Francia, Pablo Neruda, il cui paese, pieno di speranze per il nuovo corso impresso dalla vittoria di Salvador Allende, stava andando verso la dittatura del generale Pinochet, nacque, da una grande opera poetica, un'insigne composizione musicale. Non poteva non accadere un simile incontro. C'erano troppe cose in comune nelle esperienze artistiche e umane dei due, che solo la differenza anagrafica, e dunque una parte dei rispettivi quadri storici, rendeva distanti. C'era Lorca, c'era il comunismo, c'era lo slancio per la vita, la simbiosi con gli ultimi e i calpestati, c'erano le guerre civili, c'erano l'antifascismo, c'erano le peripezie dell'esilio. C'erano i loro due paesi amati e infelici, divergenti solo nella speranza. Della vicenda di Theodorakis, in questo sito si torna a parlare frequentemente e alle note già esistenti rimandiamo. Di quella di Neruda vale la pena di dire qualcosa, per quanto il poeta sia assai amato e conosciuto nel mondo, Italia compresa.

Per molti questa nota, che affastella dati tratti da wikipedia in spagnolo, dal sito della Biblioteca Virtual Miguel Cervantes, e da qualche altro girovagare nel web, risulterà inutile o insufficiente. Per altri valga come una piccola comodità.
Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto (Parral, Cile, 12 luglio 1904 – Santiago de Chile, 23 settembre 1973), universalmente noto con lo pseudonimo di Pablo Neruda, adottato nel 1946 anche come nome legale, è stato uno dei massimi poeti mondiali del XX secolo. Ha avuto il Premio Nobel per la letteratura nel 1971.
Il padre, José de Carmen Reyes, era un contadino trasformatosi in manovale nel porto di Talcahuano e poi in ferroviere a Temuco. La madre, Rosa Basoalto, morì di tisi soltanto un mese dopo la nascita di Ricardo.

La possibilità di percorrere in treno, durante l'infanzia, il suo selvoso pequeño pais frío araucano, che era stato scenario di asperrima contesa tra i nativi e i conquistadores, gli consente di venire presto coinvolto da due delle quattro radicali passioni che daranno alimento lavico e fluviale alla sua poesia: quella della natura primigenia del suo continente e quello della storia anteriore alla Conquista. Gli altri due saranno il comunismo e l'eros. Ma lo slancio che lo spinse a provare tutti i territori e le chiavi del vivere: i grandi quadri della storia e della geografia accanto all'amore per le cose minime, come un gatto o una cipolla, lo scavo dentro se stesso accanto alla con-fusione con l'intera umanità, il sentirsi indio araucano e nello stesso tempo spagnolo e nello stesso tempo residente sulla Terra, e il viverli tutti senza mezze misure talora in disperazione, talora in esaltazione (al punto che sulla soglia della vecchiaia, che poi non raggiunse, attestò: "confesso di avere vissuto") fece di lui un poeta tutt'altro che monocorde.

Dotato di una nuova e amata madre (la mamadre Trinidad) al posto di quella a lui sconosciuta, Ricardo frequenta brillantemente il Liceo di Temuco e viene precocemente catturato dal demone della scrittura e della poesia: cosa che non garba per niente al padre.
E' all'incirca sedicenne quando ha la ventura di conoscere, per essersi piazzato onorevolmente nel concorso letterario nazionale Juegos Floreales, la poetessa cilena Gabriela Mistral (1889- 1957), futuro premio Nobel 1945, che coglie in lui la buona vena e gli svela le grandi letterature, quella russa soprattutto. E come già aveva fatto la sua illustre guida che, vinto anni addietro lo stesso premio, aveva adottato lo pseudonimo con cui è immortale, anche Ricardo adotta il suo, per potere pubblicare versi senza suscitare le ire di papà José. Ma mentre la poetessa aveva ricavato il suo nuovo nome da due affermati poeti, Gabriele d'Annunzio e Frédéric Mistral, il ragazzo sceglie quello di un oscuro narratore boemo, Jan Neruda, un racconto del quale lo aveva fortemente impressionato.
Continua gli studi a Santiago, frequentando l'Istituto Pedagogico dell'Università del Cile e nello stesso periodo esce vincitore da una seconda partecipazione al Premio Juegos Floreales, con la poesia Cancion de fiesta. Di lì a poco dà alle stampe la prima raccolta poetica, Crepusculario (1923), che attira l'attenzione della critica e del mondo letterario; mentre l'anno successivo i Veinte poemas de amor y una canción desesperada lo introducono definitivamente nel pantheon poetico cileno. Altre pubblicazioni e gli studi compiuti permettono al giovane Neruda di entrare in diplomazia, secondo il buon uso della repubblica cilena di allora, di farsi rappresentare all'estero da persone di cultura rispettabile: uso di cui beneficiava anche Gabriela Mistral la quale, grazie agli incarichi consolari, poté visitare numerosi paesi del mondo, tra i quali l'Italia e la Grecia, e conoscere le loro culture.

Nel 1927 Neruda è console a Rangoon in Birmania e di lì intrattiene importanti rapporti epistolari con lo scrittore argentino Ettore Eandi (1895 - 1965). Poi la carriera si sviluppa con frequenti cambiamenti di luogo, che danno come frutto poetico una raccolta dal titolo assai significativo: Residencia en la tierra. Troviamo Neruda, sposato con Maria Antonieta ("Maruca") e padre di una sfortunata bambina ammalata, a Ceylon, a Giava, a Singapore, a Buenos Aires (dove incontra Federico García Lorca), a Barcellona, (dove incontra Rafael Alberti), e a Madrid, dove si mescola alle correnti artistiche del surrealismo, ma dove anche lo coglie la guerra civile scoppiata per il putsch di Francisco Franco e degli altri generali fascisti di stanza nel Marocco spagnolo. A Madrid lo raggiunge la sconvolgente notizia dell'assassinio, a Viznar, dell'amico poeta Federico García Lorca, fatto che contribuisce a spingere Neruda a prendere aperta posizione per la causa dei repubblicani e a comporre, dapprima a Madrid e poi a Parigi, la famosa raccolta España en el corazón (1937), esplicitamente intesa a sostenere la lotta dei rojos.

La Spagna e la sua guerra civile rappresentano una svolta decisiva: gli umori surrealistici, che di per sé prorompevano da un'ansia di rinnovamento totale, si sposano con la rivelazione diretta dell'ingiustizia che domina il mondo e di quanto sangue dei poveri e degli umiliati siano disposte a versare le classi e le nazioni potenti per perpetuarla. Il poeta, sceso a Madrid "en la calle", come Rafael Alberti, nella strada continua a sentirsi anche dopo il ritorno in patria. E nella veste, che non ha abbandonato, di diplomatico ormai orientato politicamente e socialmente per il riscatto degli ultimi e degli sconfitti, molto opportunamente viene incaricato dal presidente Aguirre Cerda di realizzare il progetto, da lui stesso caldeggiato, di trasferire in Cile duemilacinquecento spagnoli riparati in Francia dopo la caduta della Repubblica e là rinchiusi in campi di concentramento in condizioni miserevoli. Un'impresa che il poeta considerava la sua opera migliore, pur riconoscendo l'aiuto decisivo del ministro Abraham Ortega: "che la critica cancelli tutta la mia poesia, se così le pare, ma questo poema, che oggi affido alla memoria, non potrà cancellarlo nessuno", scrisse salpando dal porticciolo francese di Trompeloup alla volta di Valparaíso il 4 agosto 1939 con duemiladuecento laceri repubblicani per attraversare due oceani su di un barcone - per usare un termine oggi in voga - riadattato a "nave", la "Winnipeg".

[Tra i "salvati", sbarcati dopo circa un mese di navigazione, c'erano anche tre ex combattenti dell 'E.P.R. (Esercito Popolare Repubblicano) i cui nipoti fondarono poi il gruppo rock italiano E.R.P. (Exit Refugium Peccatorum), che dedicò a quei nonni valorosi e a tutti i combattenti repubblicani le canzoni "C.N.T." (Confederación Nacional del Trabajo) e "F.A.I." (Federación Anarquista Ibérica )].

Ha messo intanto mano, sin dal 1938, a un Canto General de Chile, che tuttavia, dopo la nomina a Console generale in Messico, poco prima dello scoppio della guerra mondiale, riscrive ed amplia, in modo che la visione si allarghi all'intera America, a partire da un primo nucleo, Las alturas de Macchu Picchu, visitate di persona nel 1945, che è uno degli episodi più alti della poesia in castigliano di ogni tempo. L'opera, che il poeta considera il culmine del suo sforzo espressivo, e che verrà continuamente ripresa e ampliata, fino alla pubblicazione avvenuta nel 1950 a Città del Messico, prende lentamente la forma di un'imponente costruzione o, se si vuole, di una immensa pittura murale in versione verbale, di quelle che negli stessi anni impegnavano i grandi pittori messicani, i Siqueiros, gli Orozco, i Rivera, dalle quali tutta l'America nativa grida il suo desiderio di riscatto, la sua accusa contro l'espropriazione e la devastazione dei popoli, della natura e della cultura perpetrate dall'avidità degli europei e dei loro epigoni nordamericani. Nel 1943 Neruda , che dal Messico ha seguito con apprensione l'andamento della guerra paventando la replica su scala mondiale della tragedia spagnola appena sofferta, e che ha "tifato" per l'Unione Sovietica, la quale di Stalingrado ha fatto la Madrid dei popoli del mondo, versandovi oceani di sangue, ma che anche, persa la figlioletta uccisa dall'idrocefalia, ha tentato un divorzio da "Maruca", non riconosciuto dalle autorità del suo paese, per sposare Delia de Carril (la "Hormiguita"), rientra in patria.

Le idee sociali e antifasciste ormai consolidate, la consapevolezza dello stato di soggezione economica e politica in cui versano le popolazioni dell'America centro-meridionale, l'eco dell'eroica lotta condotta dai popoli sovietici guidati da Giuseppe Stalin per schiacciare il mostro nazista, lo indirizzano, nel 1945, a iscriversi al Partito Comunista, nel quale peraltro non avrà vita facile per la rivalità di altri intellettuali suoi compagni di fede, come i poeti Vicente Huidobro e Pablo de Rocha, anche se immediatamente consegue un seggio di senatore. Nel 1946, alle elezioni presidenziali, una coalizione di centro-sinistra, l'Alleanza Democratica, che comprende anche i comunisti, porta al vertice della Repubblica Gabriel Gonzáles Videla, con il quale Neruda è disposto a collaborare, avendo costui in programma obiettivi di riforma agraria. Ma sono gli anni in cui anche nell'America Latina soffiano gelidi i venti della guerra fredda; e Videla coglie l'occasione di uno sciopero dei minatori, che fa reprimere con brutale ferocia, per mettere in difficoltà i comunisti e liberarsi di loro. Neruda attacca il presidente senza mezzi termini dai banchi del Senato con un j'accuse che implica la rottura totale, politica e personale. Di lì a poco - siamo nel settembre 1948 - Videla fa mettere fuori legge il Partito Comunista.

[Nota: Si noti che il dittatore cileno reca lo stesso cognome dell'omologo argentino che fece parte della "junta" golpista del 1976. Esistono cognomi da dittatori? [RV]]

Nei mesi seguenti il poeta diventa la testa d'ariete dell'opposizione a Videla, che attacca a testa bassa con tutti gli strumenti di cui dispone: la tribuna di senatore, i giornali nazionali e stranieri, l'autorevolezza di poeta ormai laureato e di fama internazionale. Svela gli ambigui trascorsi di Videla ambasciatore a Parigi durante l'occupazione tedesca, le mene di sua moglie per occultare la propria origine ebraica mentre gli Ebrei francesi senza appoggi altolocati venivano avviati ai campi, la svendita della ricchezza nazionale ai capitalisti nordamericani, le politica matrimoniale della famiglia presidenziale per imparentarsi con le oligarchie sudamericane. Tanto insiste contro Videla, che ha insegnato ai Cileni a chiamare col nomignolo di rata, che, accusando il colpo di un articolo pubblicato in Venezuela sulla crisi democratica del Cile, indicata come campanello d'allarme per tutto il continente, e passato alla storia col nome di Carta íntima para millones de hombres, il Governo ottiene dal Tribunale la revoca dell'immunità al senatore fastidioso e la sua messa in stato di accusa per "la denigrazione del Cile all'estero e per le calunnie al presidente della Repubblica". Ritenendosi inseguito da mandato di cattura, nell'ottobre del 1949 Neruda dapprima si nasconde qua e là nel proprio paese e poi, appena gli riesce, con pericolo attraversa a cavallo le Ande al passo di Lipela per riparare in Argentina. Da lì raggiunge Parigi nell'aprile del 1950, si collega a Pablo Picasso e visita assiduamente le repubbliche "popolari" dell'Est europeo e l'URSS, partecipa intensamente al Movimento dei partigiani della pace, di ispirazione sovietica, ma visita anche l'Italia e altri paesi del campo occidentale. In Italia la poetessa Sibilla Aleramo traduce, tra alte grida democristiane, da quel Que despierte el Leñador ("Si desti il Taglialegna", che poi sarebbe Lincoln e lo spirito democratico del Nordamerica), che a Varsavia ha procurato all'autore (e a Picasso e Paul Robeson) il Premio Internazionale della Pace, proprio i famigerati versi di sperticata lode al tiranno sovietico e ai suoi terribili complici, Molotov, Vorošilov & Co. : En tres habitaciones del viejo Kremlín/ vive un hombre llamado José Stalìn...".

[Io, gpt che scrivo, aggiungo e confesso di avere amato a sangue questa sezione del Canto General e ancor oggi, rileggendolo un po' nel testo a fronte e un po' nella traduzione di Salvatore Quasimodo (edizioni Einaudi e illustrazioni di Renato Guttuso, di quando il mondo e la storia giravano senza disseminare dubbi...), lo ritrovo in tutto il suo valore di buona poesia e di ottima retorica, tale da non essere inficiato dalla pur deprimente fantasticheria del poeta sulla gran bontà del mondo sovietizzato e della sua raggiunta capacità di risposta atomica a un attacco imperialista: sensazioni squisitamente personali, ovviamente, cui non chiamo anima viva a partecipare].

L'esilio - che lo porta anche a Napoli e a Capri in compagnia di Matilde Urrutia, nuova compagna che sposerà nel 1966, dopo la separazione (1955) dalla moglie illegittima, la "Hormiguita", e la morte di quella legittima, "Maruca" Reyes - continua fino al 1952, quando gli viene formalmente notificata l'inesistenza di mandati d'arresto a suo carico. Nel 1951 il governo italiano aveva tentato di espellerlo come indesiderabile: ma il tentativo era fallito perché gli intellettuali romani, allertati da Alberto Moravia, Elsa Morante, Carlo Levi e Renato Guttuso fecero un muro umano alla stazione di Termini per impedire ai poliziotti di caricarlo sul treno, e, pur violentemente manganellati dagli "scelbini", ottennero lo scopo. Il rientro in patria, il 12 agosto 1952, è trionfale e da quel momento il poeta riceve onori e riconoscimenti sia dall'Est che dall'Ovest: il Premio Stalin nel 1953, la laurea honoris causa a Oxford (1965), la cooptazione onoraria nell'Accademia Linguistica Cilena (1969), fino al premio Nobel del 1971.



La produzione poetica continua ampia e fluente: sono gli anni di Los versos del Capitán (nati a Capri e segnati dal nuovo amore per Matilde), di Las uvas y el viento (con un recidivo elogio di Stalin) e delle bellissime Odas elementales, seguite da una nuova fase sperimentale e intimistica suggellata da Estravagario (1958). E anche continua la militanza politica nel partito comunista cileno, nonostante lo choc del XX Congresso del PCUS. Nel 1969, il partito lo indica come suo candidato alle elezioni presidenziali. L'opportunità di dar vita a una coalizione più ampia con i socialisti, l' Unidad Popular, per la quale egli stesso si impegna con tutte le sue forze, lo fa risolvere per la rinuncia a favore di Salvador Allende, il quale, come è arcinoto, uscì vittorioso dal voto del 1970. Dopo la vittoria, Neruda viene nominato ambasciatore in Francia.



Ed è appunto a Parigi, nel 1971, che il poeta incontra per la prima volta Mikis Theodorakis, sfuggito da poco alla lunga persecuzione dei colonnelli golpisti. Le loro rispettive esperienze di artisti, di combattenti e di esuli si traducono in un naturale impulso alla collaborazione. E' così che, anche con la "benedizione" di Allende, nasce il progetto di musicare alcuni frammenti del vastissimo Canto General. Nel 1973 il lavoro del compositore greco è a buon punto, tanto che si possono fare le prime prove per la sua esecuzione, prevista nello stadio di Santiago. Il poeta è già ammalato; ma non sarà la morte imminente a impedirgli di ascoltare la sua opera reinterpretata da Theodorakis. A troncare il progetto provvedono i generali felloni manovrati dalla Casa Bianca, che non sopporta un altro governo indipendente e popolare negli spazi "manifestamente" assegnatile dal "Destino". L'11 di settembre lo stadio di Santiago viene sequestrato dall'esercito e trasformato in campo di concentramento. Il 19 settembre Neruda viene urgentemente ricoverato in una clinica di Santiago, dove muore il giorno 23 per un cancro alla prostata. La sua casa di Isla Negra viene saccheggiata e i suoi libri dati alle fiamme. L'opera massima del poeta, che si sentì il cantore delle due culture della sua immensa America, e la musica del compositore venuto da una antica terra, piccola e lontana, madre di quella "civiltà occidentale" in nome della quale i loro due Paesi erano stati abbattuti come buoi al macello uno dopo l'altro in ordinata sequenza (1967-1973 la Grecia; 1973 - 1990 il Cile), fu ascoltata la prima volta dai cileni, nello stadio di Santiago affollato dai vivi e dai morti, solo nel 1993. Dirigeva Theodorakis.

Nel frattempo il Canto General era stato eseguito in Grecia (1975) nella versione primitiva e, poi, ampliato con altri sei brani, nella DDR (1981). Impossibile enumerare tutti i luoghi del mondo in cui sono risuonate queste note e questi versi affascinanti. (gpt)




1. Algunas Bestias*
*Naturalmente no referido a los dos señores que van acima (ndr)



Era el crepúsculo de la iguana.
Desde la arcoirisada crestería
su lengua como un dardo
se hundía en la verdura,
el hormiguero monacal pisaba
con melodioso pie la selva,
el guanaco fino como el oxígeno
en las anchas alturas pardas
iba calzando botas de oro,
mientras la llama abría cándidos
ojos en la delicadeza
del mundo lleno de rocío.
Los monos trenzaban un hilo
interminablemente erótico
en las riberas de la aurora,
derribando muros de polen
y espantando el vuelo violeta
de las mariposas de Muzo.
Era la noche de los caimanes,
la noche pura y pululante
de hocicos saliendo del légamo,
y de las ciénagas soñolientas
un ruido opaco de armaduras
volvía al origen terrestre.
El jaguar tocaba las hojas
con su ausencia fosforescente,
el puma corre en el ramaje
como el fuego devorador
mientras arden en él los ojos
alcohólicos de la selva.
Los tejones rascan los pies
del río, husmean el nido
cuya delicia palpitante
atacarán con dientes rojos.
 
Y en el fondo del agua magna,
como el círculo de la tierra,
está la gigante anaconda
cubierta de barros rituales,
devoradora y religiosa.

2. Voy a vivir


Yo no voy a morirme. Salgo

ahora, en este día lleno de volcanes

hacia la multitud, hacia la vida.

Aquí dejo arregladas estas cosas

hoy que los pistoleros se pasean

con la "cultura occidental" en brazos,

con las manos que matan en España

y las horcas que oscilan en Atenas

y la deshonra que gobierna a Chile

y paro de contar.


3. Los Libertadores


Aquì viene el árbol, el árbol
de la tormenta, el árbol del pueblo.
De la tierra suben sus héroes
como las hojas por la savia,
y el viento estrella los follajes
de muchedumbre rumorosa,
hasta que cae la semilla
del pan otra vez a la tierra.
 
Aquí viene el árbol, el árbol
nutrido por muertos desnudos,
muertos azotados y heridos,
muertos de rostros imposibles,
empalados sobre una lanza,
desmenuzados en la hoguera,
decapitados por el hacha,
descuartizados a caballo,
crucificados en la iglesia.
 
Aquí viene el árbol, el árbol
cuyas raíces están vivas,
sacó salitre del martirio,
sus raíces comieron sangre
y extrajo lágrimas del suelo:
las elevó por sus ramajes,
las repartió en su arquitectura.
Fueron flores invisibles,
a veces, flores enterradas,
otras veces iluminaron
sus pétalos, como planetas.
 
Y el hombre recogió en las ramas
las caracolas endurecidas,
las entregó de mano en mano
como magnolias o granadas
y de pronto, abrieron la tierra,
crecieron hasta las estrellas.
 
Éste es el árbol de los libres.
El árbol tierra, el árbol nube,
el árbol pan, el árbol flecha,
el árbol puño, el árbol fuego.
Lo ahoga el agua tormentosa
de nuestra época nocturna,
pero su mástil balancea
el ruedo de su poderío.
 
Otras veces, de nuevo caen
las ramas rotas por la cólera
y una ceniza amenazante
cubre su antigua majestad:
así pasó desde otros tiempos,
así salió de la agonía
hasta que una mano secreta,
unos brazos innumerables,
el pueblo, guardó los fragmentos,
escondió troncos invariables,
y sus labios eran las hojas
del inmenso árbol repartido,
diseminado en todas partes,
caminando con sus raíces.
Éste es el árbol, el árbol
del pueblo, de todos los pueblos
de la libertad, de la lucha.
 
Asómate a su cabellera:
toca sus rayos renovados:
hunde la mano en las usinas
donde su fruto palpitante
propaga su luz cada día.
Levanta esta tierra en tus manos,
participa de este esplendor,
toma tu pan y tu manzana,
tu corazón y tu caballo
y monta guardia en la frontera,
en el límite de sus hojas.
 
Defiende el fin de sus corolas,
comparte las noches hostiles,
vigila el ciclo de la aurora,
respira la altura estrellada,
sosteniendo el árbol, el árbol
que crece en medio de la tierra.
Aquí me quedo
con palabras y pueblos y caminos

que me esperan de nuevo, y que golpean

con manos consteladas en mi puerta.

4. A mi partido


Me has dado la fraternidad hacia el que no conozco. 


Me has agregado la fuerza de todos los que viven. 


Me has vuelto a dar la patria como en un nacimiento. 


Me has dado la libertad que no tiene el solitario. 


Me enseñaste a encender la bondad, como el fuego. 


Me diste la rectitud que necesita el árbol. 


Me enseñaste a ver la unidad y la diferencia de los hombres. 


Me mostraste cómo el dolor de un ser ha muerto en la victoria de todos. 


Me enseñaste a dormir en las camas duras de mis hermanos. 


Me hiciste construir sobre la realidad como sobre una roca. 


Me hiciste adversario del malvado y muro del frenético. 


Me has hecho ver la claridad del mundo y la posibilidad de la alegría. 


Me has hecho indestructible porque contigo no termino en mí mismo. 



5. Lautaro


Lautaro era una flecha delgada.

Elástico y azul fue nuestro padre.

Fue su primera edad sólo silencio.

Su adolescencia fue dominio.

Su juventud fue un viento dirigido.

Se preparó como una larga lanza.

Acostumbró los pies en las cascadas. 

Educó la cabeza en las espinas.

Ejecutó las pruebas del guanaco.

Vivió en las madrigueras de la nieve.

Acechó las comidas de las águilas.

Arañó los secretos del peñasco.


Entretuvo los pétalos del fuego.
Se amamantó de primavera fría.

Se quemó en las gargantas infernales.

Fue cazador entre las aves crueles.

Se tiñeron sus manos de victorias.

Leyó las agresiones de la noche.

Sostuvo los derrumbes del azufre.

Se hizo velocidad, luz repentina.

Tomó las lentitudes del otoño.

Trabajó en las guaridas invisibles.

Durmió en las sábanas del ventisquero.

Igualó las conductas de las flechas.



Bebió la sangre agreste en los caminos.

Arrebató el tesoro de las olas.

Se hizo amenaza como un dios sombrío.

Comió en cada cocina de su pueblo.

Aprendió el alfabeto del relámpago.

Olfateó las cenizas esparcidas.

Envolvió el corazón con pieles negras.

Descifró el espiral hilo del humo.

Se construyó de fibras taciturnas.

Se aceitó como el alma de la oliva.

Se hizo cristal de transparencia dura.

Estudió para viento huracanado.

Se combatió hasta apagar la sangre.
 
Sólo entonces fue digno de su pueblo.



6. Vienen los pájaros


Todo era vuelo en nuestra tierra.

Como gotas de sangre y plumas

los cardenales desangraban

el amanecer de Anáhuac.

El tucán era una adorable

caja de frutas barnizadas,

el colibrí guardó las chispas

originales del relámpago

y sus minúsculas hogueras

ardían en el aire inmóvil.

Los ilustres loros llenaban

la profundidad del follaje

como lingotes de oro verde

recién salidos de la pasta

de los pantanos sumergidos

y de sus ojos circulares

miraban una argolla amarilla,

vieja como los minerales.

Todas las águilas del cielo

nutrían su estirpe sangrienta

en el azul inhabitado,

y sobre las plumas carnívoras

volaba encima del mundo

el cóndor, rey asesino,

fraile solitario del cielo,

talismán negro de la nieve,

huracán de la cetrería.

La ingeniería del hornero

hacia del barro fragante

pequeños teatros sonoros

donde aparecía cantando.

El atajacaminos iba

dando su grito humedecido

a la orilla de los cenotes.

La torcaza araucana

hacía ásperos nidos matorrales

donde dejaba el real regalo

de sus huevos empavonados.

La Loica del Sur, fragante,

dulce carpintera de otoño,

mostraba su pecho estrellado

de constelación escarlata,

y el austral chingolo elevaba

su flauta recién recogida

de la eternidad del agua.

Más, húmedo como un nenúfar,

el flamenco abría sus puertas

de sonrosada catedral,

y volaba como la aurora,

lejos del bosque bochornoso

donde cuelga la pedrería

del quetzal, que de pronto despierta,

se mueve, resbala y fulgura

y hace volar su brasa virgen.

Vuela una montaña marina

hacia las islas, una luna

de aves que van hacia el Sur,

sobre las islas fermentadas del Perú.

Es un río vivo de sombra,

es un cometa de pequeños

corazones innumerables

que oscurecen el sol del mundo

como un astro de cola espesa

palpitando hacia el archipiélago.

Y en final del iracundo mar,

en la lluvia del océano

surgen las alas del albatros

como dos sistemas de sal

estableciendo en el silencio

entre las rachas torrenciales,

con su espaciosa jerarquía

el orden de las soledades.

7. Sandino


Fue cuando en tierra nuestra
se enterraron
las cruces, se gastaron
inválidas, profesionales.
Llegó el dólar de dientes agresivos
a morder territorio,
en la garganta pastoril de América.
Agarró Panamá con fauces duras,
hundió en la tierra fresca sus colmillos,
chapoteó en barro, whisky, sangre,
y juró un Presidente con levita:
«Sea con nosotros el soborno
de cada día.»
Luego, llegó el acero,
y el canal dividió las residencias,
aquí los amos, allí la servidumbre.
Corrieron hacia Nicaragua.
Bajaron, vestidos de blanco,
tirando dólares y tiros.
Pero allí surgió un capitán
que dijo: «No, aquí no pones
tus concesiones, tu botella.»
Le prometieron un retrato
de Presidente, con guantes,
banda terciada y zapatitos
de charol recién adquiridos.
Sandino se quitó las botas,
se hundió en los trémulos pantanos,
se terció la banda mojada
de la libertad en la selva,
y, tiro a tiro, respondió
a los «civilizadores.»
La furia norteamericana
fue indecible: documentados
embajadores convencieron
al mundo que su amor era
Nicaragua, que alguna vez
el orden debía llegar
a sus entrañas soñolientas.
Sandino colgó a los intrusos.
Los héroes de Wall Street
fueron comidos por la ciénaga,
un relámpago los mataba,
más de un machete los seguía,
una soga los despertaba
como una serpiente en la noche,
y colgando de un árbol eran
acarreados lentamente
por coleópteros azules
enredaderas devorantes.
Sandino estaba en el silencio,
en la Plaza del Pueblo, en todas
partes estaba Sandino,
matando norteamericanos,
ajusticiando invasores.
Y cuando vino la aviación,
la ofensiva de los ejércitos
acorazados, la incisión
de aplastadores poderíos,
Sandino, con sus guerrilleros,
como un espectro de la selva,
era un árbol que se enroscaba
o una tortuga que dormía
o un río que se deslizaba.
Pero árbol, tortuga, corriente
fueron la muerte vengadora,
fueron sistemas de la selva,
mortales síntomas de araña.
(En 1948
un guerrillero
de Grecia, columna de Esparta,
fue la urna de luz atacada
por los mercenarios del dólar.
Desde los montes echó fuego
sobre los pulpos de Chicago,
y como Sandino, el valiente
de Nicaragua, fue llamado
«bandolero de las montañas.»)
Pero cuando fuego, sangre
y dólar no destruyeron
la torre altiva de Sandino,
los guerreros de Wall Street
hicieron la paz, invitaron
a celebrarla al guerrillero,
y un traidor recién alquilado
le disparó su carabina.
Se llama Somoza. Hasta hoy
está reinando en Nicaragua:
los treinta dólares crecieron
y aumentaron en su barriga.
Ésta es la historia de Sandino,
capitán de Nicaragua,
encarnación desgarradora
de nuestra arena traicionada,
dividida y acometida,
martirizada y saqueada.



8. Neruda requiem æternam


Lacrimae para los vivientes
América esclavizada
esclavos de todos los pueblos
lacrimosa
tú fuiste él último sol
ahora dominan los duendes
la tierra
está huérfana
NERUDA REQUIEM ÆTERNAM

9. La United Fruits Co.


Cuando sonó la trompeta, estuvo
todo preparado en la tierra,
y Jehova repartió el mundo
a Coca-Cola Inc., Anaconda,
Ford Motors, y otras entidades:
la Compañía Frutera Inc.
se reservó lo más jugoso,
la costa central de mi tierra,
la dulce cintura de América.
 
Bautizó de nuevo sus tierras
como "Repúblicas Bananas,"
y sobre los muertos dormidos,
sobre los héroes inquietos
que conquistaron la grandeza,
la libertad y las banderas,
estableció la ópera bufa:
enajenó los albedríos
regaló coronas de César,
desenvainó la envidia, atrajo
la dictadora de las moscas,
moscas Trujillos, moscas Tachos,
moscas Carías, moscas Martínez,
moscas Ubico, moscas húmedas
de sangre humilde y mermelada,
moscas borrachas que zumban
sobre las tumbas populares,
moscas de circo, sabias moscas
entendidas en tiranía.
 
Entre las moscas sanguinarias
la Frutera desembarca,
arrasando el café y las frutas,
en sus barcos que deslizaron
como bandejas el tesoro
de nuestras tierras sumergidas.
 
Mientras tanto, por los abismos
azucarados de los puertos,
caían indios sepultados
en el vapor de la mañana:
un cuerpo rueda, una cosa
sin nombre, un número caído,
un racimo de fruta muerta
derramada en el pudridero.



10. Vegetaciones


A las tierras sin nombres y sin números
bajaba el viento desde otros dominios,
traía la lluvia hilos celestes,
y el dios de los altares impregnados
devolvía las flores y las vidas.
 
En la fertilidad crecía el tiempo.
 
El jacarandá elevaba espuma
hecha de resplandores transmarinos,
la araucaria de lanzas erizadas
era la magnitud contra la nieve,
el primordial árbol caoba
desde su copa destilaba sangre,
y al Sur de los alerces,
el árbol trueno, el árbol rojo,
el árbol de la espina, el árbol madre,
el ceibo bermellón, el árbol caucho,
eran volumen terrenal, sonido,
eran territoriales existencias.
 
Un nuevo aroma propagado
llenaba, por los intersticios
de la tierra, las respiraciones
convertidas en humo y fragancia:
el tabaco silvestre alzaba
su rosal de aire imaginario.
Como una lanza terminada en fuego
apareció el maíz, y su estatura
se desgranó y nació de nuevo,
diseminó su harina, tuvo
muertos bajo sus raíces,
y luego, en su cuna, miró
crecer los dioses vegetales.
Arruga y extensión, diseminaba
la semilla del viento
sobre las plumas de la cordillera,
espesa luz de germen y pezones,
aurora ciega amamantada
por los ungüentos terrenales
de la implacable latitud lluviosa,
de las cerradas noches manantiales,
de las cisternas matutinas.
Y aun en las llanuras
como láminas del planeta ,
bajo un fresco pueblo de estrellas,
rey de la hierba, el ombú detenía
el aire libre, el vuelo rumoroso
y montaba la pampa sujetándola
con su ramal de riendas y raíces.
 
América arboleda,
zarza salvaje entre los mares,
de polo a polo balanceabas,
tesoro verde, tu espesura.
 
Germinaba la noche
en ciudades de cáscaras sagradas,
en sonoras maderas,
extensas hojas que cubrían
la piedra germinal, los nacimientos.
Útero verde, americana
sabana seminal, bodega espesa,
una rama nació como una isla,
una hoja fue forma de la espada,
una flor fue relámpago y medusa,
un racimo redondeó su resumen,
una raíz descendió a las tinieblas.

11. Amor América


Antes de la peluca y la casaca
fueron los ríos, ríos arteriales,
fueron las cordilleras, en cuya onda raida
el cóndor o la nieve parecían inmóviles:
fue la humedad y la espesura, el trueno
sin nombre todavía, las pampas planetarias.
 
El hombre tierra fue, vasija, párpado
del barro trémulo, forma de la arcilla,
fue cantaro caribe, piedra chibcha,
copa imperial o silice araucana.
Tierno y sangriento fue, pero en la empunadura
de su arma de cristal humedecido,
las iniciales de la tierra estaban escritas.
 
Nadie pudo
recordarlas después: el viento
las olvidó, el idioma del agua
fue enterrado, las claves se perdieron
o se inundaron de silencio o sangre.
 
No se perdió la vida, hermanos pastorales.
Pero como una rosa salvaje
cayo una gota roja en la espesura
y se apagó una lámpara de tierra.
 
Yo estoy aquí para contar la historia.
Desde la paz del búfalo
hasta las azotadas arenas
de la tierra final, en las espumas
acumuladas de la luz antártica,
y por las madrigueras despenadas
de la sombría paz venezolana,
te busque, padre mío,
joven guerrero de tiniebla y cobre
o tú, planta nupcial, cabellera indomable,
madre caimán, metálica paloma.
 
Yo, incásico del legamo,
toqué la piedra y dije:
¿Quién me espera? Y aprete la mano
sobre un punado de cristal vacío.
Pero anduve entre flores zapotecas
y dulce era la luz como un venado,
y era la sombra como un párpado verde.
 
Tierra mía sin nombre, sin América,
estambre equinoccial, lanza de púrpura,
tu aroma me trepó por las raíces
hasta la copa que bebía, hasta la más delgada
palabra aún no nacida de mi boca.

12. Emiliano Zapata


Cuando arreciaron los dolores
en la tierra, y los espinares desolados
fueron la herencia de los campesinos,
y como antaño, las rapaces
barbas ceremoniales, y los látigos,
entonces, flor y fuego galopado.
 
«Borrachita me voy
hacia la capital...»
 
se encabritó en el alba transitoria
la tierra sacudida de cuchillos,
el peón de sus amargas madrigueras
cayó como un elote desgranado
sobre la soledad vertiginosa.
 
«a perdirle al patrón
que me mandó llamar»
 
Zapata entonces fue tierra y aurora.
la multitud de su semilla armada.
En un ataque de aguas y fronteras
el férreo manantial de Coahuila,
las estelares piedras de Sonora:
todo vino a su paso adelantado,
a su agraria tormenta de herraduras.
 
«que si se va del rancho
muy pronto volverá»
 
Reparte el pan, la tierra:
te acompaño.
Yo renuncio a mis párpados celestes.
Yo, Zapata, e voy con el rocio
de las caballerias matutinas,
en un disparo desde los nopales
hasta las casas de pared rosada.
 
«... cintitas pa tu pelo
no llores por tu Pancho...»
 
La luna duerme sobre las monturas.
La muerte amontonada y repartida
yace con los soldados de Zapata
El sueño esconde bajo los baluartes
de la pesada noche su destino,
su incubadora sábana sombria.
La hoguera agrupa el aire desvelado:
grasa, sudor y pólvora nocturna.
 
«...Borrachita me voy
para olvidarte...»
 
Pedimos patria para el humillado.
Tu cuchillo divide el patrimonio
y tiros y corceles amedrentan
los castigos, la barba del verdugo.
La tierra se reparte con un rifle.
No esperes, campesino polvoriento,
después de tu sudor la luz completa
y el cielo parcelado en tus rodillas.
Levántate y galopa con Zapata.
 
«...Yo la quise traer
dijo que no...»
 
México, huraña agricultura, amada
tierra entre los oscuros repartida:
de las espadas del maiz salieron
al sol tus centuriones sudorosos.
De la nieve del Sur vengo a cantarte
y Ilenarme de pólvora y arados.
 
«...Que si habrá de Ilorar
pa' qué volver...»



13. América insurrecta


Nuestra tierra, ancha tierra, soledades,
se pobló de rumores, brazos, bocas.
Una callada sílaba iba ardiendo,
congregando la rosa clandestina,
hasta que las praderas trepidaron
cubiertas de metales y galopes.
 
Fue dura la verdad como un arado.
 
Rompió la tierra, estableció el deseo,
hundió sus propagandas germinales
y nació en la secreta primavera.
Fue callada su flor, fue rechazada
su reunión de luz, fue combatida
la levadura colectiva, el beso
de las banderas escondidas,
pero surgió rompiendo las paredes,
apartando las cárceles del suelo.
El pueblo oscuro fue su copa,
recibió la substancia rechazada,
la propagó en los límites marítimos,
la machacó en morteros indomables.
Y salió con las páginas golpeadas
y con la primavera en el camino.
Hora de ayer, hora de mediodía,
hora de hoy otra vez, hora esperada
entre el minuto muerto y el que nace,
en la erizada edad de la mentira.
 
Patria, naciste de los leñadores,
de hijos sin bautizar, de carpinteros,
de los que dieron como un ave extraña
una gota de sangre voladora,
y hoy nacerás de nuevo duramente
desde donde el traidor y el carcelero
te creen para siempre sumergida.
 
Hoy nacerás del pueblo como entonces.
 
Hoy saldrás del carbón y del rocío.
Hoy llegarás a sacudir las puertas
con manos maltratadas,con pedazos
de alma sobreviviente, con racimos
de miradas que no extinguió la muerte,
con herramientas hurañas
armadas bajo los harapos.

Contributed by CCG - Ελληνικό Τμήμα - 2011/4/7 - 20:24




Language: Italian

La versione italiana integrale di Cristina Martin
Full Italian translation by Cristina Martin
Traduction intégrale en italien de Cristina Martin
Traducción integral italiana de Cristina Martin
Πλήρες ιταλικἠ μετάφραση της Κριστίνα Μαρτέν
Plena itala traduko de Maria Cristina Martin




Cristina Martin, amica personale di Gian Piero Testa e traduttrice dal castigliano, ha eseguito questa traduzione integrale del Canto General di Pablo Neruda appositamente per Canzoni Contro la Guerra. Tutto lo staff delle CCG la ringrazia veramente di cuore, anche perché non dev'essere stata una fatica indifferente. [CCG/AWS Staff]




1. Alcune bestie*
*Naturalmente senza nessun riferimento ai due signori qua sopra (ndr)



Era il crepuscolo dell’iguana
Dall’iridescente cresta
la sua lingua come un dardo
sprofondava nel verde,
il monacale formichiere pestava
con melodioso piede la selva,
il guanaco leggero come l’ossigeno
nelle vaste oscure alture
andava calzando stivali d’oro,
mentre il lama apriva candidi
occhi sulla soavità
del mondo pieno di rugiada.
Le scimmie intrecciavano un filo
interminabilmente erotico
sul ciglio dell’aurora,
abbattendo muri di polline
e spaventando il volo violetto
delle farfalle di Muzo.
Era la notte dei caimani,
la notte pura e pullulante
di musi uscenti dal fango,
e dalle paludi sonnolente
un rumore sordo di armature
ritornava all’origine della terra.
Il giaguaro sfiorava le foglie
con la sua assenza fosforescente,
il puma corre nelle fronde
come il fuoco divoratore
mentre in lui ardono gli occhi
spiritati della selva.
I tassi grattano il fondo
del fiume, fiutano il nido
la cui delizia palpitante
attaccheranno con denti rossi.

E nel fondo dell’acqua grande,
come la circonferenza della terra,
sta il gigantesco anaconda
coperto di fanghi rituali,
divoratore e religioso.

2. Vivrò


Io non vado a morire. Esco
ora, in questo giorno pieno di vulcani
verso la moltitudine, verso la vita.
 
Qui lascio sistemate queste cose
Oggi che i pistoleri passeggiano
Con la “cultura occidentale” nelle braccia,
con le mani che uccidono in Spagna
e le forche che oscillano ad Atene
e il disonore che governa in Cile
e smetto di enumerare.

3. I Liberatori


Qui viene l’albero, l’albero
della tormenta, l’albero del popolo.
Dalla terra si alzano i suoi eroi
come le foglie per la linfa,
e il vento sbatte il fogliame
di rumorosa moltitudine,
finché cade il seme
del pane un’altra volta alla terra.
 
Qui viene l’albero, l’albero
nutrito dai morti spogliati,
morti frustati e feriti,
morti dai volti impossibili,
impalati sopra una lancia,
fatti a pezzi nel rogo,
decapitati dall’ascia,
squartati dai cavalli,
crocefissi in chiesa.
 
Qui viene l’albero, l’albero
le cui radici sono vive,
estrasse salnitro dal martirio,
le sue radici si nutrirono di sangue
e strappò lacrime dal suolo:
le innalzò per i suoi rami,
le distribuì nella sua architettura.
Furono fiori invisibili,
a volte fiori sotterrati
altre volte illuminarono
i loro petali, come pianeti.
 
E l’uomo raccolse nei rami
Le chiocciole indurite,
le consegnò di mano in mano
come magnolie o melograni
e d’un tratto aprirono la terra
e crebbero fino alle stelle.
 
Questo è l’albero,  l’albero dei liberi.
L’albero terra, l’albero nube,
L’albero pane, l’albero freccia,
l’albero pugno, l’albero fuoco.
 
Lo sommerge l’acqua tormentosa
della nostra epoca notturna,
però il suo tronco diritto bilancia
il cerchio del suo dominio.
 
Altre volte, di nuovo cadono
i rami spezzati dalla collera
e una cenere minacciosa
copre la sua antica maestà:
così avvenne da altri tempi,
così venne fuori dall’agonia
finché una mano segreta,
e delle braccia innumerevoli,
il popolo custodì i frammenti,
nascose tronchi immutabili,
e le sue labbra erano le foglie
dell’immenso albero diviso,
disseminato per ogni parte,
che cammina con le sue radici.
Questo è l’albero, l’albero
del popolo, di tutti i popoli
della libertà, della lotta.
 
Sporgiti dalla sua chioma:
tocca i suoi raggi rinnovati:
affonda la mano nella sua fabbrica
da cui il suo frutto palpitante
propaga ogni giorno la sua luce.
Solleva questa terra nelle tue mani,
partecipa di questo splendore,
prendi il tuo pane e la tua mela,
il tuo cuore e il tuo cavallo
e monta la guardia alla frontiera
al limitar delle sue foglie.
 
Difendi il confine delle sue corolle,
condividi le notti ostili,
vigila il ciclo dell’aurora,
respira la sommità stellata,
sostenendo l’albero, l’albero
che cresce nel mezzo della terra.
Qui resto con parole e popoli e cammini
Che mi aspettano di nuovo e che battono
Con mani stellate alla mia porta.

4. Al mio partito


Mi hai dato la fraternità verso colui che non conosco.
Mi hai unito la forza di tutti coloro che vivono.
Mi hai ridato la patria come in una nascita.
 
Mi hai dato la libertà che non ha il solitario.
Mi insegnasti ad accendere la bontà come il fuoco.
Mi desti la rettitudine che necessita all’albero.
Mi insegnasti a vedere l’unità e la differenza fra gli uomini.
Mi mostrasti come il dolore di un essere è morto nella vittoria di tutti.
Mi insegnasti a dormire nei letti duri dei miei fratelli.
Mi facesti costruire sopra la realtà come sopra una rupe.
Mi facesti nemico del malvagio e barriera al frenetico.
Mi hai fatto vedere la chiarezza del mondo e la possibilità di allegria.
Mi hai reso indistruttibile perché con te non finisco in me stesso.

5. Lautaro


Lautaro era una freccia sottile.
Elastico e azzurro fu nostro padre.
Fu la sua prima età solo silenzio.
La sua adolescenza fu dominio.
La sua gioventù fu  un vento diretto.
Si preparò come una lunga lancia.
Abituò i piedi nelle cascate.
Educò la testa nelle spine.
Eseguì le prove del guanaco.
Visse nei ricetti delle nevi.
Spiò i pasti dell’aquila.
Raggranellò i segreti della roccia.
 
Trattenne i petali del fuoco.
Si nutrì di fredda primavera.
Si bruciò nelle gole infernali.
Fu cacciatore fra gli uccelli crudeli.
Le sue mani si tinsero di vittorie.
Lesse le aggressioni della notte.
Sostenne il rovinare dello zolfo.
Si fece velocità, luce improvvisa.
Assunse le lentezze dell’autunno.
Lavorò nei recessi invisibili.
Dormì nelle lenzuola del ghiacciaio.
Uguagliò la condotta delle frecce.
 
Bevve il sangue agreste nei sentieri.
Strappò il tesoro delle onde.
Si fece minaccia come un dio ombroso.
Mangiò in ogni cucina del villaggio.
Apprese l’alfabeto del lampo.
Fiutò le ceneri sparse.
Avvolse il cuore con pelli nere.
Decifrò il filo a spirale del fumo.
Si costruì con fibre taciturne.
Si oliò come l’anima dell’oliva.
Si fece cristallo di dura trasparenza.
Studiò da vento di uragano.
Si combattè fino a placare il sangue.
 
Solo allora fu degno del suo popolo.
 


6. Vengono gli uccelli


Tutto era volo nella nostra terra.
Come gocce di sangue e piume
i cardinali dissanguavano l’albeggiare di Anahuac.
Il tucano era un adorabile
cassa di frutta verniciata,
il colibrì custodì le scintille
originarie del lampo
e i suoi minuscoli roghi
ardevano nell’aere immobile.
Gli illustri pappagalli affollavano
le profondità del fogliame
come lingotti d’oro verde
appena usciti dall'impasto
delle paludi sommerse
e dai loro occhi tondi
scrutava un anello giallo,
vecchio come i minerali.
Tutte le aquile del cielo
nutrivano la loro prole sanguinaria
nell’azzurro inabitato,
e sopra le piume carnivore
volava sopra il mondo
il condor delle Ande, re assassino,
frate solitario del cielo,
talismano nero della neve,
uragano della falconeria.
L’ingegneria del fornaio rosso
faceva dell’argilla fragrante
piccoli teatri sonori
dove appariva cantando.
Il pauraque andava
emettendo il suo grido inumidito
al bordo dei cenoti.
La paloma araucana
costruiva rudi nidi di sterpaglia
dove lasciava il real regalo
delle sue uova turchine.
La loica del sud, fragrante,
dolce falegname dell’autunno,
mostrava il suo petto costellato
di stelle scarlatte,
e lo zigolo australe elevava
il suo flauto appena raccolto
dall’eternità dell’acqua.

In più, umido come una ninfea,
il fenicottero andino apriva le sue porte
di rosea cattedrale,
e volava come l’aurora,
lontano dal bosco afoso
dove pendono le gemme
del quetzal splendido, che all’improvviso si sveglia,
si muove, scivola e sfavilla
e fa volare la sua brace pura.
Vola una montagna marina
verso le isole, una luna
di uccelli che vanno verso il Sud,
sopra le isole fermentate del Perù.
E’ un fiume vivo d’ombra,
è una cometa di piccoli
infiniti cuori
che oscurano il sole del mondo
come una stella dalla densa coda
che palpita verso l’arcipelago.
E al limite dell’iracondo mare,
nella pioggia dell’oceano
s’innalzano le ali dell’albatros
come due sistemi di sale
che stabiliscono nel silenzio
tra le raffiche torrenziali,
con la loro spaziosa gerarchia
l’ordine delle solitudini

7. Sandino


Fu quando nella nostra terra
si seppellirono
le croci, si sprecarono
senza valore, professionali.
Arrivò il dollaro dai denti aggressivi
a addentare il territorio
nella gola pastorale dell’America.
Afferrò Panama con fauci crudeli,
affondò nella terra fresca i suoi canini,
sguazzò nel fango, whisky, sangue
e giurò un Presidente con levita:
“Sia con noi la corruzione quotidiana.”
Dopo arrivò l’acciaio
E il canale divise le dimore
qui i padroni, là la servitù.
Corsero verso il Nicaragua.
Scesero vestiti di bianco,
tirando dollari e colpi.
Però li sorse un capitano
Che disse: “no, qui non poni
le tue concessioni, la tua bottiglia.”
Gli promisero un ritratto
da Presidente, con guanti,
fascia a tracolla e scarpette
di vernice appena comprate.
Sandino si tolse gli stivali,
si immerse nelle tremule paludi,
si mise a tracolla la fascia bagnata
della libertà nella selva
e, colpo su colpo, rispose
ai “civilizzatori”.
La furia nordamericana
fu indicibile: documentati
ambasciatori convinsero
il mondo che il Nicaragua era
il loro amore, che una buona volta
l’ordine doveva giungere
alle sue viscere sonnolente.
Sandino impiccò gli intrusi.
Gli eroi di Wall Steet
furono inghiottiti dalla palude
un lampo li uccideva,
più di un machete li inseguiva,
una corda li svegliava
come un serpente nella notte,
e pendendo da un albero erano
trascinati lentamente
da coleotteri azzurri
rampicanti divoratori.
Sandino stava nel silenzio
Nella piazza del Popolo,
dappertutto stava Sandino,
uccidendo nordamericani,
giustiziando invasori.
E quando venne l’aviazione,
l’offensiva degli eserciti
corazzati, l’incisione
di potenze schiaccianti,
Sandino, con i suoi guerriglieri,
come uno spettro della foresta,
era un albero che si attorcigliava,
o una tartaruga che dormiva,
o un fiume che scorreva.
Però albero, tartaruga, corrente
furono la morte vendicatrice,
furono i sistemi della selva,
mortali sintomi di ragno.
(nel 1948
un guerrigliero
della Grecia, colonna di Sparta
fu l’urna di luce attaccata
dai mercenari del dollaro.
Dalle montagne gettò fuoco
sopra le piovre di Chicago,
e come Sandino, il valoroso,
del Nicaragua, fu chiamato
“bandito delle montagne”.)
Però quando fuoco, sangue
e dollaro non riuscirono a distruggere
la superba torre di Sandino,
i guerriglieri di Wall Street
fecero la pace, invitarono
a celebrarla il guerrigliero,
e un traditore appena assoldato
gli sparò con il fucile.
Si chiama Somoza. Fino a ancora oggi
sta regnando in Nicaragua:
i trenta dollari crebbero
e aumentarono nella sua pancia.
Questa è la storia di Sandino
Capitano condottiero del Nicaragua,
incarnazione straziante
della nostra arena tradita,
divisa e aggredita,
martirizzata e saccheggiata.



8. Neruda requiem æternam


Lacrimæ per i viventi
America schiavizzata
schiavi di tutti i popoli
lacrimosa
tu fosti l’ultimo sole
ora dominano gli gnomi
la terra
è orfana
NERUDA REQUIEM ÆTERNAM

9. La United Fruit Co.


Quando suonò la tromba, era
tutto preparato sulla terra
e Jehova distribuì il mondo
a Coca Cola Inc., Anaconda,
Ford Motors e altre entità:
la Compagnia della Frutta Inc.
si riservò la parte più succulenta
la costa centrale della mia terra
la vita soave dell’America.

Battezzò nuovamente le sue terre
come “Repubblica delle Banane”
e sopra i morti addormentati,
sopra gli eroi inquieti
che conquistarono la grandezza,
la libertà e le bandiere
instaurò l’opera buffa:
alienò il libero arbitrio
regalò corone di Cesare,
sguainò l’invidia, attrasse
la dittatura delle mosche,
mosche Trujillos, mosche Tachos,
mosche Carìas, mosche Martinez,
mosche Ubico, mosche umide
di sangue umile e marmellata,
mosche da circo, mosche sapienti
esperte in tirannia.

Tra le mosche sanguinarie
la Compagnia della Frutta sbarca
trascinando il caffè e la frutta
nelle sue barche che come vassoi
fecero scivolare il tesoro
delle nostre terre sommerse.

Nel frattempo, negli abissi
zuccherati dei porti,
cadevano indios sepolti
nel vapore del mattino:
un corpo ruota, una cosa
senza nome, un numero caduto,
un grappolo di frutta morta
versata nel marcitoio.



10. Vegetazioni


Sulle terre senza nomi e senza
numeri
scendeva il vento da altri
domini,
portava la pioggia fili celesti,
e il dio degli altari impregnati
restituiva i fiori e le vite.

Nella fertilità cresceva il tempo.

La jacaranda innalzava schiuma
fatta di bagliori oltremarini,
l’araucaria dalle lance erette
era la grandezza contro la neve,
il primordiale albero del mogano
dalla sua chioma distillava sangue,
e al Sud dei cipressi di Patagonia,
l’albero tuono, l’albero rosso,
l’albero della spina, l’albero madre,
il ceibo vermiglio, l’albero caucciù,
erano volume terreno, suono
erano territoriali esistenze.

Un nuovo aroma diffuso
riempiva, attraverso gli interstizi
della terra, le respirazioni
trasformate in fumo e in fragranza:
il tabacco silvestre innalzava
il suo roseto di aria immaginaria.
Come una lancia culminante in fuoco
apparve il mais, e la sua statura
si sgranò e nacque nuovamente,
disseminò la sua farina, tenne
i morti sotto le sue radici,
e poi, nella sua cuna, vide
crescere gli dei vegetali.
Ruga ed estensione, disseminava
la semenza del vento
sopra le piume della cordigliera,
spessa luce di germogli e piccioli,
aurora cieca allattata
dagli unguenti terreni
dell’implacabile latitudine piovosa,
delle cisterne mattutine.
E ancora nelle pianure
come lamine del pianeta,
sotto un fresco popolo di stelle,
re dell’erba, il bambù tratteneva
l’aria libera, il volo rumoroso
e cavalcava la pampa assoggettandola
con la sua cavezza di redini e radici.

America albereto,
rovo selvatico tra i mari,
da un polo all’altro dondolavi,
tesoro verde, la tua folta boscaglia.

Germogliava la notte
in città di cascara sagrada,
in legni sonori,
vaste foglie che coprivano
la pietra germinale, le nascite.
Utero verde, americana
savana germinale, vasta cantina,
un ramo nacque come un’isola,
una foglia prese la forma della spada,
un fiore fu folgore e medusa,
un grappolo rese tondi i suoi succhi
una radice discese nelle tenebre.

11. Amor America


Prima della parrucca e della casacca
furono i fiumi, fiumi arteriali,
furono le cordigliere, sulla cui onda
consumata
il condor e la neve apparivano
immobili:
fu l’umidità e la fitta boscaglia
il tuono
ancora senza nome, la pampa planetaria.

L’uomo fu terra, vaso, palpebra
del fango tremula, forma dell’argilla,
fu cantaro caraibico, pietra chibcha,
coppa imperiale o silice araucana.
Tenero e sanguinario fu, ma
nell’impugnatura
della sua arma di cristallo inumidito,
le iniziali della terra erano
iscritte.

Nessun poté
ricordarle dopo: il vento
le obliò, la lingua dell’acqua
fu sepolta, si persero le chiavi
o s’inondarono di silenzio e sangue.
Non si perse la vita, fratelli
pastorali
Ma come una rosa selvatica,
cadde una goccia rossa nella macchia
e si spense una lampada di terra.

Io sono qui per raccontar la storia.
Dalla pace del bufalo
Fino alle sferzate spiagge
della terra finale, nelle spume
accumulate della luce antartica,
e nei covi disillusi dell’oscura pace venezuelana,
ti cercai, padre mio,
giovane guerriero di tenebra e rame
o tu, pianta nuziale, chioma
indomabile,
madre caimano, metallica colomba.

Io incaico dell’argilla,
toccai la pietra e dissi:

chi mi aspetta? E strinsi la mano
sopra un di cristallo vuoto.
Ma camminai tra fiori zapotechi
E dolce era la luce come un cervo
E l’ombra era come una verde palpebra.

Terra mia senza nome, senza America,
stame equinoziale, lancia di
porpora,
il tuo aroma mi salì dalle radici
fino alla coppa che bevevo, fino alla più
sottile
parola non ancor nata dalla mia bocca.

12. Emiliano Zapata


Quando aumentarono i dolori
sulla terra e i roveti desolati
furono l’eredità dei contadini,
e, come un tempo, le rapaci
barbe cerimoniali e le sferze
allora fiore e fuoco galoppante.

«Come ubriaca me ne vado
verso la capitale…»

si impennò nell’alba fugace
la terra scossa da coltelli,
il bracciante dai sui tristi covi
Cadde come pannocchia di granata
Sopra la solitudine vertiginosa.

«A chiedere al padrone
Che mi mandò a chiamare»

Zapata allora fu terra e aurora
La moltitudine della sua semenza armata
In un attacco di acque e frontiere
La ferrea sorgente di Coahuila,
Le sideree pietre di Sonora:
Tutto venne al suo passo anticipatore
Alla sua agraria tempesta di ferrature

« Chi se ne va via dal rancho
Più presto tornerà»

Ripartisci il pane, la terra:
Ti accompagno.
Io rinuncio alle mie palpebre celesti.
Io, Zapata, e vado con la rugiada
Delle cavalcate mattutine,
In uno sparo dai fichi d’India
Fino alle case dalle pareti rosate.

«….Nastrini per i tuoi capelli
Non piangere per il tuo Pancho»

La luna dorme sopra i finimenti.
La morte ammucchiata e sparsa
Giace con i soldati di Zapata
Il sonno nasconde sotto i baluardi
Della pesante notte il suo destino,
Il suo cupo lenzuolo incubatore.
Il falò condensa l’aria insonne:
Grasso, sudore e polvere notturna

«...Come ubriaca me ne vado
Per dimenticarti»

Chiediamo patria per l’umiliato.
Il tuo coltello divide il patrimonio
E spari e destrieri spaventano
I castighi, la barba del boia.
La terra si spartisce con un fucile.
Non aspettare contadino polveroso,
Dopo il tuo sudore, la luce completa
E il cielo suddiviso nelle tue ginocchia.
Alzati e galoppa con Zapata.

«..Io la volli portare
Disse di no»

Messico, scontrosa agricoltura, amata
terra fra gli oscuri suddivisa:
dalle spade del mais uscirono
al sole i tuoi centurioni sudati.
Dalla neve del Sud vengo a cantarti
e riempirmi di polvere e aratri.

«...che se dovrà piangere
perché tornare…»



13. America insorta


Nostra terra, vasta terra,
solitudini,
si popolò di voci, braccia, bocche.
Una silenziosa sillaba ardeva
Aggregando la rosa clandestina,
fino a che le praterie trepidarono
coperte di metalli e di galoppi
Fu dura la verità come un aratro

Spezzò la terra, stabilì il desiderio,
affondò le sue propagande germinali
e nacque nella segreta primavera.
Fu ridotto al silenzio il suo fiore, fu rifiutata
la sua riunione di luce, fu combattuto
il lievito collettivo, il bacio
delle bandiere nascoste,
però si sollevò abbattendo le pareti
allontanando le carceri dal suolo.
Il popolo oscuro fu il suo calice,
ricevette la sostanza rifiutata,
la propagò nei limiti marini,
la pestò in mortai indomabili.
E uscì con le pagine ammaccate
e con la primavera sul cammino.
Ora di ieri, ora di mezzogiorno,
ora di oggi ancora, ora attesa
tra il minuto morto e quello che nasce,
nella irta età della menzogna.

Patria, nascesti dai taglialegna,
da figli senza battesimo, da falegnami,
da coloro che dettero come un uccello
strano
una goccia di sangue volante,
e oggi nascerai di nuovo duramente
da dove il traditore e il carceriere
ti credono per sempre seppellita.

Oggi nascerai dal popolo come allora.

Oggi uscirai dal carbone e dalla rugiada.
Oggi arriverai a scuotere le porte
con mani maltrattate, con pezzi
di anima sopravvissuta, con grappoli
di sguardi che la morte non estinse,
con attrezzi scontrosi
armati sotto gli stracci.

Contributed by CCG - Ελληνικό Τμήμα - 2011/4/8 - 00:53



Le Note di Gian Piero Testa


Notes by Giampiero Testa
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La notoj de Gian Piero Testa


Più che di semplici note, Gian Piero ha qui compilato un vero e proprio piccolo Reading Companion to the Webpage, per dirla in modo "very British". Contrariamente all'uso di questo sito, per non appesantire la pagina della traduzione con troppi link di rimando, riportiamo tali note nella suddivisione originale e senza "asterischi", come fossero appunto un compagno di lettura. Qua e là sono state integrate dove necessario; le integrazioni appaiono in corsivo. (CCG/AWS Staff)



1. Alcune bestie


- Iguana (Iguana iguana). Il nome le deriva dal taìno iwana. Particolarmente ghiotta di fiori di ibisco rosso e di foglioline di basilico. Altre speci di iguanidi recano i suggestivi nomi di "Iguana delicatissima" e "Iguana meditans". (Cfr. anche questa pagina Google)



- Formichiere gigante (Myrmecophaga tridactyla). Chi conosce almeno un po' il greco ha nel suo nome scientifico tutte le informazioni salienti: "mangiaformiche con tre dita". Vive in Sud America e ha abitudini solitarie.



- Guanaco (Lama guanicoe): Camelide simile al lama, diffuso soprattutto in Argentina e Cile. Il guanaco è stato praticamente sterminato a causa della caccia spietata. Si calcola che quando gli europei giunsero in Sudamerica, ne esistessero circa cinquecento milioni di esemplari; adesso ne sopravvivono non più di 600.000 in tutto il continente.



- Scimmie: Le scimmie sudamericane sono Platirrine (dal naso piatto), dalla coda prensile e per lo più arboree.

- Farfalla di Muzo (Morpho cypris): La farfalla azzurra endemica del distretto colombiano di Muzo (Boyacá), conquistato dagli Spagnoli nel 1559 e sfruttato per le sue vene smeraldifere. Sulle farfalle, oggi in pericolo di estinzione, e sugli smeraldi i Muzos avevano elaborato la leggenda della cacicca Furatena.




- Giaguaro (Panthera onca). "Il nome «giaguaro» deriva dal nome attribuito a questo animale dagli indios del Sudamerica: «Yaguar» o «Yaguara» ("colui che uccide con un balzo"); ma in tutta l'area di lingua spagnola in cui vive il giaguaro è chiamato «el tigre». Non si tratta di una tradizione errata come può sembrare: infatti, pur venendo spesso confuso con il leopardo dai non-esperti, il giaguaro per forma e ruolo ecologico è molto più simile alla tigre, tanto da esserne considerato l'equivalente americano." (it:wikipedia)



- Puma (Puma concolor, Felis concolor). Ne esistono differenti specie, ma quella più diffusa è il concolor: l'espressione latina scientifica significa "Felino a tinta unita". Tra i felidi, è quello più probabilmente simile al gatto domestico: non ha stretti parentele con i grandi felini (leone, tigre, giaguaro ecc.) ma è definito, con una punta di scientifica ironia, "il più grande dei piccoli felini".



- Tasso (spagnolo: tejón): Si tratta probabilmente del procionide detto Coati rosso o Nasua Nasua, diffuso in tutta l'America del Sud.



- Anaconda, o Anaconda Verde (Eunectes murinus): Specie endemica del Sudamerica, è il più grande serpente conosciuto. Nel 1944 ne fu catturato un esemplare in Venezuela, nel fiume Orinoco, che misurava le seguenti rispettabili dimensioni: lunghezza metri 11,44, peso 285 kg, circonferenza metri 1,23. Non è assolutamente velenoso (e a che je servirebbe, er veleno...) ma stritola le sue prede avvolgendosi in pochi secondi attorno ad esse; poi le inghiotte intere. Per digerire una preda di grosse dimensioni (tapiro, capibara...) impiega settimane durante le quali se ne sta praticamente in catalessi. Usualmente sterminato a causa della sua pelle; i serpenti potranno anche non stare simpatici a tutti, ma non è un buon motivo per farne borsette e portafogli. Il suo nome scientifico è un ibrido greco-latino: εὐνἠκτης "buon nuotatore" murinus "che caccia i topi". L'origine del nome "anaconda" sembra essere invece assai curiosa: pur essendo una specie tipica del Sudamerica, gli inglesi le applicarono (probabilmente per errore) il nome di un grosso pitone dello Sri Lanka (all'epoca Ceylon), nell'anno 1768. Il nome potrebbe essere sia un adattamento del cingalese "henacandaya" ("serpente a forma di frusta") o, più probabilmente, del participio tamil "anaikkonda", "che ha ucciso un elefante". Nelle lingue sudamericane "di competenza" ha un nome totalmente differente: "sucuriuba" in tupí, "kuriju" in guaraní, ecc.




5. Lautaro




Lautaro (adattamento spagnolo dal mapuche Lef-traru o Lev-traru, "caracara veloce", Caracara plancus: un falco sudamericano ), (n. Trehuaco, ca. 1534 – Peteroa, 1557) fu un importante capo militare mapuche nella Guerra di Arauco nel corso della prima conquista spagnola. Sconfisse e sterminò le forze del conquistatore Pedro Valdivia, ma cadde successivamente in battaglia.


6. Vengono gli uccelli


Alcuni degli uccelli citati:


Cardinalis cardinalis (Cardinale)


Ramphastos toco (Tucano)


Archilochus colubris (Colibrì)


Geranoætus melanoleucus (Aquila mora, o Aquila Chilena, o Gavilán)


Vultur gryphus (Condor delle Ande)


Furnarius rufus (Fornaio Rosso), simbolo dell'Argentina


Nyctidromus albicollis (Pauraque)


Patagioenas columba araucana (Paloma Araucana)


Sturnella loyca (Loica del Sud)


Zonotrichia capensis (Zigolo Australe, o Chincol)

Me voy por un senderito
semblado de blancos yuyos,
en árboles en capullo,
ya cantan los chincolitos...

(Violeta Parra, La muerte, da Canto para una semilla)

Phoenicopterus andinus (Fenicottero Andino)


Pharomachrus moci(n)no (Quetzal splendente), simbolo del Guatemala


Cephalopetrus Metaphrastes (Gian Piero Testa)


Diffuso esclusivamente nelle regioni montane del Comos y Comascos, Briancia y Llarios.
Di media taglia, ha abitudini notturne e assai singolari; il suo canto è generalmente in lingua greca.




7. Sandino




Augusto César Calderón Sandino, chiamato anche il generale degli uomini liberi (Niquinohomo 1895 – Larreynaga 1934), è stato un rivoluzionario nicaraguense, nonché uno dei conduttori della resistenza rivoluzionaria alla presenza militare statunitense in Nicaragua tra il 1927 e il 1933. Fu un leader della resistenza nicaraguese contro l'esercito d'occupazione degli Stati Uniti e uno dei precursori della guerriglia contro gli eserciti professionali. Dopo la ritirata delle forze armate statunitensi, affrontò la ferrea opposizione del Generale Anastasio Somoza García, detto Tacho, capo della guardia Nacional e nuovo dittatore del paese. Sorpreso a tradimento con i suoi luogotenti generali Francisco Estrada y Juan Pablo Umanzor e catturato dalla Guardia Nacional, fu trucidato il 21 febbraio del 1934 nei pressi di Managua. Nella stessa notte cadeva anche il fratello di Sandino, Sòcrates, colonnello della Sicurezza, durante un attacco dei somozisti alla casa del ministro Salvatierra.

Il guerrigliero greco del 1948 potrebbe essere identificato nel comunista Μάρκος Βαφειάδης (Markos Vafiadis) (1906 - 1992), comandante dell' Esercito Democratico durante la guerra civile greca, e nel 1947 Primo Ministro del Governo Provvisorio delle zone ancora controllate dai ribelli (monti Grammos).




9. La United Fruit Co.


Alcune delle "mosche":



Rafael Leónidas Trujillo Molina (1891 - 1961) è stato un politico dominicano, dittatore per oltre trent'anni del suo paese, che dominò come un padrone assoluto la scena politica (e soprattutto le finanze) della Repubblica Dominicana. Morì in un attentato dell'opposizione il 30 maggio 1961, a bordo della sua automobile. Bucherellato da oltre 150 colpi.





Anastasio Somoza Debayle
(1925 –1980) è stato un politico nicaraguense. Presidente dal 1967 al 1979. Come capo della Guardia Nacional, fu in effetti un feroce dittatore del suo paese. Fu l'ultimo membro della famiglia Somoza a diventare Presidente del Nicaragua, chiudendo una dinastia rimasta al potere dal 1936.Era il secondo figlio di Anastasio Somoza García, Presidente del Nicaragua dal 1937, e, di fatto, dittatore. Il giovane Somoza, soprannominato "Tachito" (il padre era detto "Tacho") studiò negli Stati Uniti d'America e si laureò all'Accademia Militare di West Point il 6 giugno, 1946.Dopo l'assassinio di suo padre il 21 settembre 1956, il fratello maggiore, Luis Somoza Debayle, ne prese il posto. Anastasio prese comunque parte al governo. Il 1º maggio 1967, poco prima della morte del fratello, Anastasio Somoza fu eletto presidente per la prima volta. Pare che la famiglia Somoza abbia intascato quasi tutti gli aiuti internazionali del catastrofico terremoto del dicembre 1972 ed effettivamente ancora oggi intere parti di Managua non sono state ricostruite. Nonostante questo, Somoza fu rieletto presidente nelle elezioni del 1974, anche perché dichiarò illegali nuovi partiti d'opposizione. A questo punto, anche la Chiesa cattolica nicaraguense divenne contraria al regime. Uno dei critici più decisi di Somoza fu proprio Ernesto Cardenal, prete e poeta assertore della teologia della liberazione, che sarebbe poi diventato ministro della cultura nel governo sandinista. Alla fine degli anni settanta, le organizzazioni impegnate nel campo dei diritti umani erano unanimi nella condanna del governo Somoza, mentre il Frente Sandinista de Liberación Nacional si faceva sempre più forte e stringeva alleanze anche con altri oppositori del regime, più moderati, quali Pedro Chamorro o il "Comandante Zero" (Eden Pastora). Quando Jimmy Carter ritirò ogni aiuto americano al regime fu l'inizio della fine. Nel 1979 i Somoza abbandonarono il paese e si rifugiarono a Miami. Anastasio Somoza Debayle fu assassinato ad Asunción, Paraguay, da un commando guidato dall'argentino Enrique Gorriarán Merlo.




Il reportage della televisione spagnola sull'uccisione del dittatore nicaraguese Anastasio Somoza jr., avvenuto il 17 settembre 1980 a Asunción, Paraguay. Curiosamente, l'attentato avvenne nella "Calle Francisco Franco".


Tiburcio Carías Andino (1876 - 1969) fu un militare honduregno, fondatore nel 1918 del Partito Nazionale Honduregno e Presidente fino all'aprile del 1924.



Maximiliano Hernández Martínez (1882, 1966), Presidente di El Salvador dal 1931 al 1944. Asceso al potere con un colpo di stato, ne fu a sua volta rovesciato dopo 13 anni di potere dittatoriale. Esiliato in Honduras, fu assassinato con 17 pugnalate dal suo autista; a suo nome sono stati "intitolati" vari squadroni della morte e una "brigata anticomunista" del Salvador.



Jorge Ubico Castañeda (1878 –1946) fu Presidente (= dittatore) del Guatemala dal 1931 al 1944. Si definiva un "liberale autoritario"; fu rovesciato da una sollevazione popolare e andò in esilio a New Orleans, dove morì nel 1946.

Anáhuac, regione storica del Messico,centro delle memorie azteche. Il nome di Anáhuac (in Nahuatl: "Terra al bordo delle acque") indicò quella parte della Nuova Spagna che si rese indipendente nel 1821 con il nome di Messico. Quando gli Spagnoli la conquistarono nel 1519, la grande valle, punteggiata da ben cinque laghi, aveva come centro principale Tenochtitlán (nel sito dell'attuale Città del Messico). Il nome originale della "Valle del Messico" era derivato dall'estesissimo lago Texcoco, che la occupava per buona parte; la stessa capitale dell'impero azteco, Tenochtitlán, era stata costruita sulle sue rive. Il lago (più una laguna che un vero e proprio lago) fu poi interrato; al suo posto sorge oggi Città del Messico.


12. A Emiliano Zapata




Emiliano Zapata Salazar. L'universalmente noto rivoluzionario messicano. Nato nel 1879 a San Miguel Anenecuilco, Morelos, e assassinato il 10 aprile 1919 a Chinameca, Morelos. Noto come "el Caudillo del Sur", fu uno dei leader più importanti durante la rivoluzione messicana come comandante dell' Esercito di Liberazione del Sud. Nella provincia d'origine, Morelos, diede vita a esperienze comunitarie di conduzione delle terre strappate con la lotta ai latifondisti e restituite ai contadini poveri.

Nel testo sono inseriti versi della nostalgica canzone popolare messicana di Ignacio Fernández Esperón detto Tata Nacho (1894 - 1968) "La Borrachita", dedicata alla tristezza delle ragazze di campagna che lasciavano il rancho per andare a fare le domestiche in città, che si può qui ascoltare in una bella interpretazione di Regina Orozco:



Borrachita me voy para olvidarte,
te quiero mucho, también me quieres.

Borrachita me voy hasta la capital,
p'a servirle al patrón
que me mandó llamar anteayer.

Yo la quise traer, dijo que no,
que si había de llorar, p'a qué volver.

Borrachita me voy hasta la capital,
p'a servirle al patrón
que me mandó llamar anteayer.



13. America insorta


Nell'album Chile Resistencia, del 1977, gli Inti-Illimani hanno interpretato, come canzone autonoma, i versi di questo brano a partire da Patria naciste de los leñadores. Il titolo della canzone è, appunto, Naciste de los leñadores.



L'intero album è scaricabile da Perrerac - La canción, un arma de la revolución

CCG/AWS Staff - 2011/4/10 - 00:52




Language: French

Version intégrale en langue d'oïl moderne de Marco Valdo M.I., aydé par la precyëuse asneté de Lucyien l'Asne
Full French translation by Marco Valdo M.I., yholpen by þe precyouse donkeietee of Lucyien l'Asne
Versione integrale in lingua d'oïl moderna di Marco Valdo M.I., aiutato da la prezïosa asinitade di Lucyien l'Asne
Traducción integral a la lengua d'oïl moderna de Marco Valdo M.I., con la preciosa ayuda de Lucyien l'Asne
Πλήρες γαλλικἠ μετάφραση του Μάρκου Βάλντου Μ.Ι., τῇ πολύτιμῃ βοηθείᾳ τοῦ Λουκιάνου τοῦ Ὄνου
Plena franca traduko de Marco Valdo M.I., per la grandvalora helpo de Lukiano la Azeno





Le Canto General de Neruda et Theodorakis
De Gian Piero Testa


En 1970, Theodorakis abandonne la Grèce pour l'exil auquel le contraignent les Colonels; après avoir connu au Chili le président Salvador Allende, met la main à la grande œuvre de Pablo Neruda, le « Canto general », comme trame de morceaux de musique. L'œuvre de Neruda a elle-même été composée durant un exil du poète en Argentine, auquel l'avait contraint le président chilien Gabriel Gonzales Videla,brusquement converti à l'anticommunisme et à la répression des mineurs, qui avait suscité le « J'accuse » du poète. L'œuvre de Neruda avait été publiée à Mexico en 1950. celle de Theodorakis était prête – même si six morceaux furent ajoutés quelques années plus tard – en 1971; et entre les deux artistes étaient en cours les accords pour l'exécuter sur la terre du poète, au stade de Santiago, quand tout le projet fut bouleversé par le coup d'état de Pinochet (11 septembre 1973), suivi quelques jours plus tard de la mort de Neruda lui-même. À la chute de la dictature grecque, l'œuvre put être exécutée. Avec d'autres ajouts, qui portèrent à 13 morceaux musiqués, elle fut exécutée en République Démocratique Allemande en 1981. En 1993, elle put être exécutée également au Chili, dirigée personnellement par Mikis (gpt).

Cristina Martin, amie personnelle de Gian Piero Testa et traductrice du castillan, a réalisé cette traduction intégrale du Canto General de Pablo Neruda spécialement pour les Chansons contre la guerre. Tout le staff des CCG la remercie vraiment de tout cœur, car ce n'a pas dû être un mince effort. [CCG/AWS Staff]


1. Quelques bêtes


C'était le crépuscule de l'iguane
À la crête iridescente
Sa langue comme un dard
S'enfonçait dans le vert,
Le tamanoir monacal écrasait
De son pas mélodieux la forêt;
Le guanaco léger comme l'oxygène
Dans les vastes hauteurs obscures
S'en allait chaussé de bottes d'or,
Pendant que le lama ouvrait
Des yeux candides sur la délicatesse
Du monde couvert de rosée.
Les singes tressaient un fil
Interminablement érotique
Aux rives de l'aurore;
Abattant des murs de pollen
Et affolant le vol violet
Des papillons de Muzo.
C'était la nuit des caïmans
La nuit pure et pullulante
De museaux sortant de la boue,
Et des marais somnolents,
Un bruit sourd de charpentes
Renvoie à l'origine terrestre.
Le jaguar touchait les feuilles
De son absence phosphorescente.
Le puma court dans les frondes
Comme le feu dévorant
Tandis qu'en lui brûlent les yeux
Alcooliques de la forêt.
Les blaireaux grattent le fond
De la rivière, ils flairent le nid
Dont ils attaquent de leurs dents rouges
Le délice palpitant.

Et dans le fond de la grande eau,
Comme le cercle de la terre,
Se tient le gigantesque anaconda
Couvert des boues rituelles,
Dévoreur et religieux.

2. Je vivrai


Je ne m'en vais pas mourir. Je sors
Maintenant, en ce jour plein de volcans
Vers la multitude, vers la vie.
Je laisse se faire ces choses ici
Aujourd'hui que les pistoleros se promènent
Avec la « culture occidentale » dans leurs bras,
Avec leurs mains qui tuent en Espagne
Et les gibets qui oscillent à Athènes
Et le déshonneur qui gouverne le Chili
Et j'arrête mon énumération.

3. Les Libérateurs


Voici ici l'arbre, l'arbre
De la tourmente, l'arbre du peuple.
De la terre se dressent ses héros
Comme les feuilles sous la sève,

Et le vent fracasse les feuillages
D'une foule bruissante,
Jusqu'à ce que la graine
Du pain à nouveau aille à terre.

Voici ici l'arbre, l'arbre
Nourri des morts dénudés,
Des morts battus et blessés,
Morts aux visages impossibles,
Empalés sur une lance,
Équarris sur le bûcher,
Décapités à la hache,
Écartelés par des chevaux,
Crucifiés dans l'église.

Voici ici l'arbre, l'arbre
Dont les racines sont vivantes,
Il soutire le salpêtre du martyr,
Ses racines se nourrissent de sang
Et il arrache des larmes du sol.
Les monte dans ses branches,
Les répartit dans sa ramure.
Il y eut des fleurs invisibles,
Parfois des fleurs souterraines,
D'autres fois, elles illuminèrent
Leurs pétales, comme des planètes.

Et l'homme cueille dans ses branches
Les escargots indurés,
Il les passe de main en main
Comme des magnolias ou des grenades
Et soudain, ils ouvrirent la terre
Et crurent jusqu'aux étoiles.

Tel est l'arbre des libres.
L'arbre terre, l'arbre nue
L'arbre pain, l'arbre flèche
L'arbre poing, l'arbre feu.

De son eau tourmentée le noie,
Notre époque nocturne
Mais son tronc équilibre
Le cercle de son domaine.

D'autres fois, à nouveau tombent
Les branches brisées par la colère
Et une cendre menaçante
Couvre son antique majesté;
Ainsi il passa à d'autres temps,
Ainsi il échappa à son agonie,
Jusqu'à ce qu'une main secrète,
Des bras innombrables
Le peuple garda ses fragments
Cacha des troncs immuables,
Et ses lèvres étaient les feuilles
de l'immense arbre réparti,
Disséminé de toutes parts,
Marchant sur ses racines.
Tel est l'arbre, l'arbre
Du peuple, de tous les peuples
De la liberté, de la lutte.

Penché sur sa chevelure,
Il touche ses rayons renouvelés;
Il plonge la main dans ses usines
Où son fruit palpitant
Propage sa lumière chaque jour.
Soulève cette terre entre tes mains,
Participe de cette splendeur,
prends ton pain et ta pomme
Ton cœur et ton cheval
Et monte la garde à la frontière,
Dans les limites de tes feuilles.

Défends les bouts de tes corolles,
Partage les nuits hostiles,
Veille au cycle de l'aurore,
Respire la hauteur stellaire,
En soutenant l'arbre, l'arbre
Qui croît au milieu de la terre.
Là, je reste avec des mots, des peuples, des chemins
Qui m'attendent à nouveau et qui frappent
De leurs mains étoilées à ma porte.

4. À mon parti


Tu m'as donné la fraternité envers celui que je ne connais pas
Tu m'as apporté la force de tous ceux qui vivent.
Tu m'as rendu la patrie comme une seconde naissance.
Tu m'as donné la liberté que ne détient pas le solitaire
Tu m'as appris à allumer la bonté comme le feu ,
Tu m'as donné la droiture nécessaire à l'arbre
Tu m'as appris à voir l'unité et la différence entre les hommes
Tu m'as montré comment la douleur d'un être meurt dans la victoire de tous.
Tu m'as appris à dormir dans les lits durs de mes frères.
Tu m'as fait construire sur la réalité comme sur un rocher.
Tu m'as fait ennemi du mal et mur face au fanatique.
Tu m'as fait voir la clarté du monde et la possibilité de la joie.
Tu m'as rendu indestructible de sorte qu'avec toi, je ne finisse pas en moi-même.

5. Lautaro




Lautaro était une flèche subtile.
Élastique et azur fut notre père.
Seule sa prime jeunesse fut silencieuse.
Son adolescence fut maîtresse.
Sa jeunesse fut un un vent orienté
Il se prépara comme une longue lance.
Il entraîna ses pieds dans les cascades.
Il éduqua sa tête dans les épines.
Il accomplit les épreuves du guanaco.
Il vécut dans les refuges de la neige.
Il marauda les repas des aigles
Il grappilla les secrets du roc.

Il manipula les pétales du feu
Il se nourrit de printemps froid
Il se brûla dans les gorges infernales.
Il fut chasseur parmi les oiseaux cruels.
Ses mains se teignirent de victoires
Il lut les agressions de la nuit.
Il soutînt les avalanches de soufre.
Il fut vitesse, il fut la foudre.
Il connut les lenteurs de l'automne.
Il travailla dans des repaires invisibles,
Il dormit dans les draps des congères
Il régit le parcours des flèches.

Il but le sang sauvage des chemins
Il arraisonna le trésor des ondes
Il se fit menace comme un dieu ombrageux
Il mangea dans chaque cuisine de son village
Il apprit l'alphabet de l'éclair
Il renifla les cendres éparses
Il enveloppa son cœur dans des peaux noires.
Il déchiffra la spirale du fil de la fumée
Il se construisit de fibres taciturnes
Il s'enduisit de l'âme de l'olive
Il se fit cristal à la transparence dure
Il étudia les ouragans
Il se battit jusqu'au sang

Alors seulement il fut digne de son peuple.

6. Les oiseaux arrivent


Tout était vol sur notre terre.
Comme des gouttes de sang et des plumes
Les cardinaux ensanglantaient
L'aurore d'Anáhuac.
Le toucan était une adorable
Caisse de fruits vernis,
Le colibri regarda les étincelles
Originales de l'éclair
Et ses bûchers minuscules
Brûlaient dans l'air immobile.
Les perroquets illustres emplissaient
La profondeur du feuillage
Comme des lingots d'or vert
Récemment sortis de la pâte
Des marais submergés
Et de leurs yeux ronds
Ils regardaient un anneau jaune,
Vieux comme les minéraux.
Tous les aigles du ciel
Nourrissaient leur descendance sanguinaire
Dans l'azur inhabité,
Et par-dessus les plumes carnivores
Volait au-dessus du monde,
Le condor, roi assassin,
Frère solitaire du ciel,
Talisman noir de la neige,
Ouragan de la fauconnerie.
L'ingénierie du four
Fait de la boue odorante
De petits théâtres sonores
Où il apparaissait en chantant.
L'engoulevent allait
Lançant son cri humecté
À l'oreille des cénotes.
Le pigeon du Chili
Faisait de rudes nids fourrés
Où il laissait le cadeau royal
De ses œufs irisés.
La Loica du sud, parfumée,
Doux charpentier de l'automne,
Montrait son poitrail constellé
D'étoiles écarlates,
Et le chingolo austral élevait
Son chant à peine recueilli
De l'éternité de l'eau.
De plus, humide comme un nénuphar,
Le flamant ouvrait les portes
De sa cathédrale rose
Et volait comme l'aurore,
Loin du bois étouffant
Où pendent les pierres précieuses
Du quetzal, qui soudain se réveille,
Bouge, glisse et brille
Et fait voler sa braise vierge.
Une montagne marine explose
Elle crée des îles, une lune
Des oiseaux qui vont vers le Sud,
Par-dessus les îles fermentantes du Pérou.
C'est un fleuve vivant d'ombre,
C'est une comète de petits
Cœurs innombrables
Qui obscurcissent le soleil du monde
Comme un astre à la queue épaisse
Palpitant vers l'archipel.
Et au bout de la mer coléreuse
Dans la pluie de l'océan
Jaillissent les ailes de l'albatros
Comme deux systèmes de sel
Établissant dans le silence
Entre les rafales torrentielles
De leur spacieuse hiérarchie
L'ordre des solitudes.

7. Sandino




Ce fut quand dans notre terre
Les croix s'implantèrent
Elles se consommèrent
Dévaluées, professionnelles.
Arriva le dollar aux dents agressives
Pour arracher du territoire,
De la gorge pastorale de l'Amérique.
Il attrapa Panama dans ses mâchoires dures,
Il enfonça ses canines dans la terre fraîche
Il barbota dans la fange, le whisky, le sang,
Et un président en redingote jura :
« Donne chaque jour notre pot de vin
Quotidien ».
Rapidement, arriva l'acier,
Et le canal divisa les résidences,
Ici, les maîtres; là, les serviteurs.
Ils coururent au Nicaragua
Ils descendirent, vêtus de blanc,
Tirant des dollars et des coups.
Mais là se dressa un capitaine
Qui dit : « Non, ici tu ne poses pas
Tes concessions, ni ta bouteille ».
Ils lui promirent un portrait
De Président, avec des gants,
Un ruban en bandoulière et des souliers
Vernis achetés récemment.
Sandino quitta ses bottes,
S'enfonça dans les marais mouvants,
Se mit en bandoulière la banderole trempée
De la liberté dans la forêt
Et, coup par coup, répondit
Aux « civilisateurs »
La furie nordaméricaine
Fut indicible : de documentés
Ambassadeurs convainquirent
Le monde que le Nicaragua était
Leur amour, qu'une bonne fois
L'ordre devait régner
Sur ses entrailles somnolentes.
Sandino pendit les intrus.
Les héros de Wall-Street
Furent mangés par le marais,
Un éclair les tuait,
Plus d'une machette les poursuivait,
Une corde les réveillait
Comme un serpent dans la nuit
Et pendant d'un arbre étaient
Emmenés lentement
Par des coléoptères bleus
Rampants dévorants.
Sandino se tenait en silence
Sur la Place du Peuple, tout
Partout était Sandino,
Tuant les Nordaméricains
Justiciant des envahisseurs.
Et quand vînt l'aviation,
L'offensive des armées
Blindées, l'intervention
De forces écrasantes,
Sandino, avec ses guérilleros,
Comme un spectre de la forêt,
Était un arbre qui s'enroulait
Ou une tortue qui dormait
Ou un ruisseau qui coulait.
Cependant arbre, tortue, courant
Furent la mort vengeresse,
Furent les armes de la forêt,
Symptômes mortels de l'araignée.
( En 1948,
De Grèce, colonne de Sparte,
Fut la vitrine de lumière attaquée
Par les mercenaires du dollar.
des montagnes il lança le feu
Sur les pieuvres de Chicago
Et comme Sandino, le vaillant
Du Nicaragua, il fut appelé
« Le bandit des montagnes. »)
Cependant quand feu, sang
Et dollar ne détruisirent pas
La tour d'orgueil de Sandino
Les guerriers de Wall Street
Firent la paix, invitèrent
Le guérillero à la célébrer.
Et un traître à peine acheté
Le flingua à la carabine.
Il s'appelle Somoza. Encore aujourd'hui
Il règne sur le Nicaragua;
Les trente dollars crurent
Et multiplièrent dans sa panse.
Telle est l'histoire de Sandino,
Capitaine du Nicaragua,
Incarnation déchirante
De notre arène trahie
Divisée et attaquée,
Martyrisée et pillée.

8. Neruda requiem æternam


Lacrimae pour les vivants
Amérique esclavagée
Esclaves de tous les peuples
Lacrimosa
Tu fus le dernier soleil
À présent dominent les gnomes
La terre
Est orpheline
NERUDA REQUIEM ÆTERNAM

9. La United Fruits Co.


Quand sonna la trompette, tout
Était prêt sur la terre,
Et Jéhovah répartit le monde
Entre Coca-Cola Inc., Anaconda,
Ford Motors, et autres sociétés;
La United Fruits Co.
Se réserva le plus juteux,
La côte centrale de ma terre,
La douce ceinture de l'Amérique.

Elle rebaptisa ses terres
En « Républiques bananières »
Et sur les morts endormis,
Sur les héros inquiets
Qui avaient conquis la grandeur,
La liberté et les drapeaux,
Elle installa son opéra bouffe :
Elle aliéna le libre arbitre,
Elle offrit des couronnes aux Césars;
Elle déchaîna l'envie, elle attira
La dictature des mouches :
Mouches Trujillos, mouches Tachos,
Mouches Carías, mouches Martínez,
Mouches Ubico, mouches humides
De sang humble et de confiture,
Mouches soûles qui bourdonnent
Sur les tombes populaires
Mouches de cirque, mouches savantes
Expertes en tyrannie.

Au milieu des mouches sanguinaires
La United Fruits débarqua
Raflant le café et les fruits
Dans ses barques qui enlevèrent
Comme sur des plateaux le trésor
De nos terres submergées.

Entretemps, dans les abîmes
Sucrés de nos ports,
Tombaient les Indiens ensevelis
Dans la vapeur du matin :
Un corps brisé, une chose
Sans nom, un numéro tombé,
Une rafle de fruits morte
Jetée au pourrissoir.



10. Végétations


Sur les terres sans nom et sans numéro
Descendait le vent d'autres lieux,
La pluie apportait ses fils célestes,
Et le dieu des autels imprégnés
Rendait des fleurs et des vies.

Le temps crut dans la fertilité.
La jacaranda élevait une écume
Faite de splendeurs ultramarines
L'araucaria hérissé de lances
Opposait sa grandeur à la neige,
L'acajou, arbre primordial
De sa cime distillait du sang,
Et au Sud des cèdres
L'arbre tonnerre, l'arbre rouge,
L'arbre à l'épine, l'arbre mère,
L'érythrine vermillon, l'arbre caoutchouc,
Étaient des volumes terrestres, du son
Étaient des territoires d'existence.

Un nouveau parfum diffus
Emplissait, par les interstices
De la terre, les respirations
Converties en fumée et en parfum.
Le tabac sylvestre élevait
Son rosier d'air imaginaire.
Comme une lance au bout de feu
Apparut le maïs, et sa silhouette
S'égrena et il renaquit ensuite,
Dissémina sa farine, prit
Les morts sous ses racines
Et ensuite, dans son berceau, regarda
Grandir les dieux végétaux.
Ride et excroissance, il disséminait
La semence du vent,
Sur les plumes de la cordillère,
La lumière épaisse de germes et de brins,
Aurore aveugle nourrie
Par les onguents terreux
De l'implacable latitude pluvieuse,
Des sombres nuits surgissantes,
Des citernes matutinales,
Et bien que dans les plaines
Comme des tranches de la planète,
Sous un frais village d'étoiles,
Roi de l'herbe, l'ombù retient
Son air libre, son vol bruyant
Et il montait la pampa en l'enserrant
De sa ramification de branches et de racines.

Amérique boisée,
Ronce sauvage entre les mers,
De pôle à pôle tu balances,
Trésor vert, ta broussaille.

La nuit germait
Dans des villes d'écorces sacrées
En bois sonores,
Feuilles étendues que couvraient
La pierre germinale, les naissances.
Vert utérus, américaine
Savane séminale, magasin comble
Une branche naquit comme une île,
Une feuille prit la forme de l'épée,
Une fleur fut éclair et méduse,
Une grappe arrondit son résumé
Une racine descendit dans les ténèbres.

11. Amor América


Avant la perruque et la casaque,
Il y eut les rivières, rivières artérielles
Il y eut les cordillères, sur la vague desquelles
Le condor et la neige paraissent immobiles.
Il y eut l'humidité et la luxuriance, le tonnerre
Toujours sans nom, les pampas planétaires.

L'homme fut terre, pot, paupière
De boue tremblant, forme d'argile,
Il fut cruche caraïbe, pierre chibcha,
Coupe impériale ou silice araucan.
Il fut tendre et sanguinaire, cependant dans la poignée
De son arme de cristal embuée,
Les initiales de sa terre étaient écrites.

Depuis personne ne put
S'en rappeler : le vent
Les oublia, la langue de l'eau
Fut enterrée, les clés se perdirent
Ou s'inondèrent de silence ou de sang.

La vie ne se perdit pas, frères pastoraux
Mais comme une rose sauvage
Tomba une goutte de sang dans la masse
Et s'éteignit une lampe de terre.

Je suis ici pour conter l'histoire.
Depuis la paix du buffle
Jusqu'aux sables fouettés
De la terre finale, dans les écumes
Accumulées de la lumière antarctique,
Et par les tanières perdues
De la sombre paix vénézuelienne,
Je te cherchai, mon père,
Jeune guerrier de ténèbres et de cuivre
Ou toi, plante nuptiale, chevelure indomptable,
Mère caïman, colombe métallique.

Moi, de descendance inca,
Je touchai la pierre et je dis :

Qui m'attend ? Et je serre la main
Sur une poignée de cristal vide.
Pourtant je me promenai parmi les fleurs zapotèques
Et la lumière était douce comme un cerf
Et l'ombre était comme une paupière verte

Ma terre sans nom, sans Amérique,
Étamine équinoxiale, lance de pourpre,
Ton arôme monte par mes racines
Jusqu'à la coupe que je buvais, jusqu'à la plus menue
Parole qui soit jamais née de ma bouche.

12. Emiliano Zapata


Quand redoublèrent les douleurs
Sur la terre, et que les épinaies désolées
Furent l'héritage des paysans,
Et que comme autrefois, les rapaces
Barbes cérémonieuses, et leurs fouets,
Alors, fleur et feu galopant.

« Soûle je vais
Vers la capitale... »

Se cabra à l'aube fugace
La terre battue de couteaux,
Le péon de son repaire amer
Tomba comme un épi de maïs égrené
Sur ma solitude vertigineuse.

« Le dire au patron
Qui m'envoie chercher »

Alors Zapata fut terre et aurore
La multitude de sa semence armée
Dans une attaque d'eaux et de frontières
La source ferreuse de Coahuila,
Les pierres sidérales de Sonora;
Tout vint à son pas avancé,
À son orage agraire de fers à cheval.

« Qui quitte le rancho
Y reviendra bientôt »

Partage le pain, la terre;
Je t'accompagne.
Je renonce à mes paupières célestes.
Moi, Zapata, je m'en vais avec la rosée
Des cavalcades matutinales,
D'une traite depuis les nopales
Jusqu'aux maisons aux murs roses.

« … Petits nœuds pour tes cheveux
Ne pleure pas pour ton Pancho... »

La lune dort au-dessus des montures
La mort entassée et partagée
Gît avec les soldats de Zapata.
Le sommeil cache sous les bastions
De la nuit lourde son destin,
Sa sombre savane incubatrice.
Le bûcher concentre l'air insomniaque :
Gras, sueur et poussière nocturnes.

« Soûle, je m'en vais
Pour oublier. »

Nous demandons une patrie pour l'humilié
Ton couteau divise le patrimoine
Et des tirs et des coursiers effrayaient
Les punitions, la barbe du bourreau.
La terre se partage au fusil.
N'attends pas, paysan poussiéreux,
Après ta sueur, la lumière complète
Et le ciel en parcelles dans tes genoux.
Lève-toi et galope avec Zapata.

« … Moi, je veux l'emporter
Il dit que non... »

Mexico, agriculture sauvage, terrestres
Aimée répartie entre les obscurs :
Des épées de maïs sortirent
Au soleil tes centurions en sueur.
De la neige du Sud je viens te chanter
Et m'emplir de poussière et de charrues.

« … Car s'il faut pleurer
Pourquoi retourner... »



13. Amérique insurgée


Notre terre, large terre, solitudes,
Se peuple de bruits, de bras, de bouches.
Une syllabe silencieuse allait brûlant,
S'alliant la rose clandestine,
Jusqu'à ce que les prairies tremblent
Couvertes de métal et de galops.

La vérité fut dure comme un soc.

Il rompit la terre, établit le désir,
Il enfonça ses germes de propagande
Et il naquit dans le printemps secret.
Sa fleur fut silence, sa réunion de lumière
Fut rechassée, la levée collective
Fut combattue, le baiser
Des drapeaux cachés,
Pourtant il surgit rompant les parois,
Éloignant les prisons du sol.
Le peuple obscur fut sa coupe,
Reçut la substance rechassée,
Il la propagea dans les limites maritimes,
Il la pila dans des mortiers indomptables.
Et il sortit avec les pages martelées
Et avec le printemps sur le chemin.
Heure d'hier, heure de mi-journée,
Heure d'aujourd'hui encore, heure attendue
Entre la minute morte et celle qui naît,
Dans l'âge hérissé du mensonge.

Patrie, tu naquis des bûcherons,
De fils sans baptême, de charpentiers,
De ceux qui appelèrent oiseau étrange
Une goutte de sang volante,
Et aujourd'hui tu naîtras de nouveau durement
D'où le traître et le garde-chiourme
Te croient pour toujours plongée.

Aujourd'hui, tu naîtras du peuple comme alors.

Aujourd'hui, tu sortiras du charbon et du roc
Aujourd'hui tu arriveras à ébranler les portes
Avec des mains maltraitées, avec des morceaux
D'âme survivante, avec des grappes
De regards que la mort n'éteint pas,
Avec des outils sauvages
Armés sous tes haillons.

Contributed by Marco Valdo M.I. - 2011/4/13 - 23:16



Colophon

Κόλοφων




Questa pagina, tra le più impegnative di questo sito quanto a costruzione, è stata messa online tra il 7 e il 14 aprile 2011 in via dell'Argingrosso n° 65/C, a Firenze, a partire dal materiale grezzo inviatomi da Gian Piero Testa (ivi compresa la traduzione italiana di Cristina Martin). Per questo motivo, il page builder ha usato spesso la metafora del "blocco di marmo" sgrossato e scolpito con pazienza; nei limiti di ciò che è una pagina web, sia pure dedicata a un capolavoro della poesia moderna e della musica, la metafora ha una sua ragion d'essere. Si ringraziano Marco Valdo M.I. e Lucien l'Asino per la traduzione in lingua francese, e la gentilissima ancorché scontrosa Gatta Pampalea (Aἴλουρος μέλαινα ἐκ παμπαλαίων χρόνων, μέλαν φῶς ἐξ ὀνειράτων ἤνεγκον), che ha messo a disposizione il suo editor wysiwyg, senza il quale non sarebbero stati possibili gli "effetti speciali".


2011/4/14 - 12:28


Un'integrazione alla versione scaricabile indicata da Giorgio. Si tratta dell'edizione dei Berliner Instrumentalisten diretti da Lukas Karytinos, con le voci di Alexandra Papadjiakou e di Frangiskos Voutsinos e il Coro della Radio di Berlino.

Gian Piero Testa - 2011/4/9 - 09:48


That's right.

giorgio che conferma e che ringrazia :) - 2011/4/9 - 15:02




La maestà del popolo: Pablo Neruda e Firenze
scritto dalla Gatta Pampalea il 16 marzo 2010



Brutto inverno, cari miei. Massimamente per una gatta, nera o di qualsiasi altro colore. Noialtri gatti, che amiamo il sole, non saremmo fatti per inverni come questo che, fortunatamente e con accidenti vari, sta finendo; così prestiamo la nostra voce ad altri accidenti, spesso umani, che distolgono da quel che si vorrebbe fare. Ma tant'è, e quel che fatto è fatto e consegnato; intanto, timidamente, rispunta il sole. E allora si torna a fare qualche giro per la città, che poi sarebbe quel che è qui dichiarato: una gatta nera a giro per la città. E me ne sono andata a fare un giro a San Salvi.

Prima o poi se ne impossesserano, di San Salvi, i signori degli affari loschi e delle politiche scure. Se lo prenderanno, ci faranno case e palazzi, faranno finta di ristrutturare e di salvare dal degrado e festa finita. Già i progetti, come tutti sanno, ci sono. Tutti lo sanno e girano la testa dall'altra parte; e San Salvi può opporre ben poco, a parte i suoi alberi, le sue ville mezze diroccate, la sua storia di dolore e la sua socialità. C'è di tutto, ora, in quell'enorme area che fu un manicomio: centri diurni, strutture pubbliche, gli anarchici sotto costante minaccia di sgombero, il Social Bar, il teatro con quelli della Bilancia e i cantautori sotterranei, persino un giardino di educazione stradale costantemente deserto. E i viali, e la ferrovia che passa a lato, e un dolente grido di restituzione alle mille e mille attività di tutti e per tutti che un'area del genere imporrebbe ad una città che si dice civile. Ma se lo piglieranno lorsignori, con le loro galere e i loro avalli, coi loro beneplaciti e con i loro giornali che spargeranno, come sempre, menzogne. Ha un destino già segnato, San Salvi. Un giorno arriveranno le ruspe. Quel che farà loro comodo sarà salvato, e il resto verrà distrutto. Spunterà la parola prestigio. Spunteranno i soliti nomi.

A San Salvi, tra i suoi edifici diroccati, ne resiste uno sul quale, tanti e tanti anni fa, si volle dipingere un mural in stile "andino", con una grafica che ricordava quella dei dischi DICAP della Nueva Canción Chilena. C'era stato, da poco, il golpe militare di Pinochet. Gli Inti-Illimani, cui ancora non era stata consegnata ufficialmente la patente di noiosi per antonomasia, riempivano la Grande Piazza. Settantatré, settantaquattro, settantacinque. Il diciotto aprile 1975 ammazzarono un ragazzo, comunista, durante una manifestazione contro la repressione: si chiamava Rodolfo Boschi. Tempi in cui, nel mural andino dipinto in mezzo a quello che era ancora un manicomio e un lager, si dichiarava una brigata a nome di quel ragazzo morto.


Tempi in cui un certo giorno di primavera aveva un Valore, in tutte le accezioni di questo termine che sono state sconciate oggigiorno. Tempi in cui le parole del Gran Poeta, che del colpo di mano fascista in un lontano paese era stato fra le prime vittime, venivano non soltanto ricordate, ma associate a quel giorno d'Aprile e a un giovane ucciso per mano poliziotta. Le aveva scritte, il Grande Poeta cileno, quando nel primo dopoguerra era arrivato in questa città ed era stato ricevuto da un sindaco operaio, Mario Fabiani. Y cuando en el Palacio Viejo, bello como un ágave de piedra, yo subí los escalones consumados, pasé por los antiguos cuartos y vino darme el bienvenido un obrero, jefe de la Ciudad, del viejo río, de las casas talladas como en piedra de luna, no me surprendí: la maestad del Pueblo gobernaba. Quel poeta si chiamava Pablo Neruda, e parlava di questa città con le più belle parole che le siano forse mai state dedicate. Talmente belle, e vere, che sono state del tutto dimenticate; tranne che su quel mural, su quell'affresco popolare che si sta sgretolando sui muri di una casa rovinata in un luogo che scomparirà presto.


Non terminò di parlare, il Poeta. Disse ancora. Ed è bene leggerle queste parole finché resisteranno. È bene darne conto e tramandarle, anche se per mano d'una gatta girovaga e nera.

Ma dietro non c'era l'aureola del passato: il suo splendore era la semplicità del presente. Come un uomo, dal telaio o dall'aratro, dalla fabbrica oscura, salì le scale con il suo popolo e nel suo Palazzo Vecchio, senza spada, il popolo, lo stesso che valicò con me il freddo delle Cordigliere delle Ande, stava là. Per questo credo ogni notte nel giorno, e quando ho sete credo nell'acqua, perché credo nell'uomo. Credo che stiamo salendo fino all'ultimo gradino. Da lì vedremo la verità spartita, la semplicità restaurata sulla terra, il pane e il vino per tutti.


Avete letto e compreso quali parole riusciva ad ispirare ad un Poeta questa città? Avete letto della semplicità, della speranza e del pane e vino per tutti? Sta tutto scritto su dei muri sbrecciati, fatiscenti. E non si tratterebbe neppure di salvare quei muri, ma quelle parole. Si tratterebbe di riappropriarsene e di farne presente e avvenire. Si tratterebbe di un sacco di cose. Intanto battono le grancasse del degrado, e quando battono non è mai perché sia dato pane e vino a tutti. Battono sempre affinché non il pane e il vino, ma il denaro, venga accumulato nelle tasche di pochi. E allora fatevi gatti anche voi. Sgattaiolate, senza essere visti, dentro San Salvi. Andate a vedere quei muri e a guardare quell'affresco. Leggete quelle parole. La maestà del popolo ha smesso di governare da tempo. Ma quei muri resistono e dicono ancora. Sta a chi legge, allora, decidere.



Riccardo Venturi - 2011/4/14 - 12:57




La majesté du peuple del popolo: Pablo Neruda et Florence
écrit par la Chatte Pampalea le 16 mars 2010



Sale hiver, mes chers. Spécialement pour une chatte, noire ou de n'importe quelle couleur. Nous autres, chats, nous aimons le soleil, nous ne sommes pas faits pour des hivers comme celui que, par chance et avec des incidents divers, se termine, ainsi nous prêtons notre voix aux autres incidents, souvent humains, qui éloignent de ce qu'on voudrait faire. Mais quand même, et ce qui est fait est fait et archivé, parfois timidement, ressort le soleil. Et alors, on retourne faire un tour en ville, ce qui se révèlera ensuite ici dénommé : une chatte noire en balade en ville. Et je suis partie faire un tour à San Salvi.

Tôt ou tard, ils s'en empareront, San Salvi, ces messieurs aux affaires louches et aux politiques obscures. Ils s'en empareront, ils y feront des maisons et des immeubles, ils feront semblant de restructurer et de sauver de la dégradation et c'en sera fini . Les projets existent déjà, comme tout le monde le sait. Tous le savent et tournent la tête ailleurs; et San Salvi ne peut opposer que bien peu de choses à part ses arbres, ses villas à moitié en ruines, son histoire de douleurs et sa socialité. Il y a de tout à présent dans cette énorme aire qui fut un asile : des centres de jour, des bâtiments publics, les anarchistes qui sont sous la menace constante d'une expulsion, le Social Bar, le théâtre avec ceux de la Balance et les chantauteurs souterrains, jusqu'à un jardin d'éducation routière constamment désert. Et les allées, et le chemin de fer qui passe à côté, et un cri déchirant de restitution aux mille et mille activités de tous et pour tous qu'une aire de ce genre imposerait à une ville qui se dit civile. Mais ils la pilleront nos messieurs, avec leurs galères et les avals, avec leurs autorisations et leurs journaux qui répandront, comme à l'habitude, des mensonges. Il a son destin déjà tracé, San Salvi. Un jour, arriveront les pelles. Ce qui les intéressera sera sauvé et le reste sera détruit. Surgira le mot prestige. Surgiront les noms habituels.

À San Salvi, entre ses édifices en ruines, il y en a un qui résiste sur lequel, il y a tant et tant d'années, on a peint un mural de style andin, avec un graphisme qui rappelait celui des disques DICAP de la Nouvelle Chanson Chilienne (Nueva Canción Chilena). Il y avait eu le coup d'État militaire de Pinochet. Les Inti-Illimani, dont le brevet d'ennuyeux par antonomase n'avait pas encore été officiellement consacré, remplissaient la Grande Piazza. Octante-trois, septante-quatre, septante-cinq. Le dix-huit avril 1975 un garçon, communiste, fut tué dans une manifestation contre la répression; il s'appelait Rodolfo Boschi. Temps durant lesquels, sur le mural andin peint au milieu de ce qui était encore un asile et un lager, on donnait à une brigade le nom de ce garçon mort.


Temps auxquels un certain jour de printemps avait une Valeur, dans toutes les acceptions du terme qui sont dépréciées aujourd'hui. Temps durant lesquels les mots du grand poète, qui avait été une des premières victimes du coup d'état fasciste dans un pays lointain, étaient non seulement appelés, mais associés à ce jour d'avril et à un jeune tué des mains de la police. le grand Poète chilien les avaient écrits , quand lors de la première guerre mondiale, il était arrivé dans cette ville et avait été reçu par un maire ouvrier, Mario Fabiani. Y cuando en el Palacio Viejo, bello como un ágave de piedra, yo subí los escalones consumados, pasé por los antiguos cuartos y vino darme el bienvenido un obrero, jefe de la Ciudad, del viejo río, de las casas talladas como en piedra de luna, no me surprendí: la maestad del Pueblo gobernaba. ("Et quand dans le Vieux Palais, beau comme un agave de pierre, je descendis les escaliers usés, passa par les vieux tableaux et vint me donner la bienvenue un ouvrier, chef de la Ville, au vieux fleuve, aux maisons taillées dans la pierre de lune, cela ne me surprit pas : la majesté du peuple gouvernait.") Ce poète s'appelait Pablo Neruda et parlait de cette ville avec les plus beaux mots qui lui ont peut-être jamais été dédiés. Tellement beaux et tellement vrais, qu'ils ont été complètement oubliés, excepté sur ce mural, sur cette fresque populaire qui s'écaille sur les murs d'une maison en ruines dans un lieu qui disparaîtra bientôt.


Il n'avait pas fini de parler le poète. Il dit encore... Eh bien, lisez les ces mots tant qu'ils résisteront. Il est bel et bon d'en rendre compte et de les transmettre, fût-ce par les pattes d'une chatte vagabonde et noire.

Mais derrière, il n'y avait pas l'auréole du passé; sa splendeur était la simplicité du présent. Comme un homme, du métier à tisser ou de la charrue, de la fabrique sombre, il gravit les marches avec son peuple et dans son Palazzo Vecchio, sans épée, le peuple, le même qui franchit avec moi le froid des Cordillères des Andes, était là. Pour cela, je crois chaque nuit au jour, et quand j'ai soif, je crois à l'eau, car je crois à l'homme. Je crois que nous monterons jusqu'à l'ultime marche. De là, nous verrons la vérité partagée, la simplicité restaurée sur la terre, le pain et le vin pour tous.


Vous avez lu et compris quelles paroles cette ville réussissait à inspirer à un poète. Vous avez lu la simplicité, l'espérance et le pain et le vin pour tous. Tout est écrit sur les murs ébréchés, délabrés. Et il ne s'agirait même pas de sauver ces murs, mais ces mots. Il s'agirait de se les réapproprier et d'en faire un présent et un avenir. Il s'agirait d'un tas de choses. Et entretemps, on entend battre les grandes caisses de la « dégradation », et quand elles battent ce n'est jamais pour qu'on donne le pain et le vin à tous. Elles battent toujours pour que, non pas le pain ou le vin, mais l'argent s'accumule dans les poches de certains. Et alors, faites-vous chat, vous aussi. Glissez-vous, sans être vus, au-dedans de San Salvi. Allez voir ces murs et regarder cette fresque. lisez ces mots. la majesté du peuple a cessé de gouverner depuis longtemps. mais ces murs résistent et disent encore. C'est à qui lit, alors, de décider.

( Riccardo Venturi)

Marco Valdo M.I. - 2011/4/15 - 14:45


In margine, potrei anche dare alcune belle ancorché piccole notizie di periferia.

Prima di tutto, a distanza di un anno da quanto scritto dalla mia amica gatta Pampalea, i lavori di "ristrutturazione" (= speculazione edilizia) a San Salvi non solo non sono ancora iniziati, ma sembrano irrimediabilmente bloccati grazie anche all'opposizione tenace di gran parte della popolazione. Naturalmente stanno tentandoci ancora in tutti i modi, non ultimo servendosi della stampa locale che presenta l'area come una specie di "terra di nessuno" auspicando sgomberi e interventi polizieschi. In questo, va detto, si è distinto un finto quotidiano "progressista", in realtà strumento dei poteri forti né più e né meno degli altri. Ne parla ancora la gatta Pampalea.

Seconda cosa, come comunicato da "Chille de la Balanza" (Quelli della Bilancia), il mural sembra salvo; l'immobile in rovina verrà sí ristrutturato (il che non è in sé un male, a condizione che venga adibito ad attività sociali e pubbliche), ma l'affresco non verrà toccato e, anzi, rimesso un po' a nuovo. Per l'occasione, proprio presso il teatro di Chille de la Balanza si sono riuniti tutti gli autori dell'opera, la vecchia "Brigata Rodolfo Boschi" di Grassina (un paese dell'hinterland fiorentino da sempre noto per la sua forte tensione sociale).

Beh, speriamo che tutto sia vero. Anche in queste piccole cose c'è Resistenza, ora e sempre; e un paese che sa ancora esprimerle, seppure in modo sotterraneo, non è ancora del tutto morto.

Riccardo Venturi - 2011/4/20 - 01:37




Language: English

Testo inglese da : questo link
LA UNITED FRUIT CO.

When the trumpet sounded
everything was prepared on earth,
and Jehovah gave the world
to Coca-Cola Inc., Anaconda,
Ford Motors, and other corporations.
The United Fruit Company
reserved for itself the most juicy
piece, the central coast of my world,
the delicate waist of America.

It rebaptized these countries
Banana Republics,
and over the sleeping dead,
over the unquiet heroes
who won greatness,
liberty, and banners,
it established an opera buffa:
it abolished free will,
gave out imperial crowns,
encouraged envy, attracted
the dictatorship of flies:
Trujillo flies, Tachos flies
Carias flies, Martinez flies,
Ubico flies, flies sticky with
submissive blood and marmalade,
drunken flies that buzz over
the tombs of the people,
circus flies, wise flies
expert at tyranny.

With the bloodthirsty flies
came the Fruit Company,
amassed coffee and fruit
in ships which put to sea like
overloaded trays with the treasures
from our sunken lands.

Meanwhile the Indians fall
into the sugared depths of the
harbors and are buried in the
morning mists;
a corpse rolls, a thing without
name, a discarded number,
a bunch of rotten fruit
thrown on the garbage heap.

Contributed by emanuele ricciardi - 2011/9/17 - 11:05


Il link alla Leggenda della cacicca Furatena nella nota alla Farfalla di Muzo conduce a un pagina impropria: vediamo se funziona questo

Gian Piero Testa - 2012/2/4 - 10:03


Mikis Theodorakis, tra la figlia Margarita e il nipote Alexandros alla sua destra e, alla sua sinistra, la regista Tatiana Ligarki con il marito Yannis Manos, presidente del Mègaro Musikìs di Atene, prima dell'esecuzione del suo "Canto General" all' Erodio Attico lo scorso 17 luglio:

Gian Piero Testa - 2012/8/9 - 22:44




Language: Finnish

Traduzione finlandese di Pentti Saaritsa
Finnish translation by Pentti Saaritsa
Suomennos Pentti Saaritsa

A link to the song composed by Eero Ojanen and performed by Agit Prop:


THE UNITED FRUIT CO.

Kun pasuuna oli soinut
kaikki oli valmista maan päällä
ja Jahve jakoi maailman. Osansa saivat
Coca Cola Inc., Kaivosyhtiö Anaconda,
Ford Motors ja sen sellaiset:
The United Fruit Inc.
varasi itselleen mehevimmän,
minun maani keskirannikon,
Amerikan suloiset uumat.
Se risti alueensa uudelleen
Yhtyneiksi Banaanivalloiksi,
ja vainajien leposijoille,
laajan maan valloittaneiden
rauhattomien sankareiden
ja lippujen ja vapauden päälle
se perusti koomisen oopperansa:
polki maahan kirjoittamattomat lait,
jakeli Caesarinseppleitään,
lietsoi kateutta, houkutteli
puolelleen diktatuurin kärpäset,
kärpäs-Trujillot, kärpäs-Tachot,
kärpäs-Caríat, kärpäs-Martinezit,
kärpäs-Ubicot, köyhän veren
ja marmeladin tahrimat kärpäset,
juopuneet kärpäset jotka surisevat
kansan hautojen yllä,
sirkuskärpäset, viisaat
tyrannian viekastamat kärpäset.

Verenjanoiseen kärpäsparveen
purjehtii The United Fruit
ja ahtaa kahvin ja hedelmät
laivoihinsa jotka lipuvat tiehensä
kuin tarjottimet, kukkuroillaan
hukkuvan maamme aarteita.
Ja samanaikaisesti
satamien sokerikuiluissa
käpertyy intiaani elävältä
sarastuksen huuruihin:
ratasruumis, nimetön
esine, varissut numero,
kuolleen hedelmän
mätänemään viskattu terttu.

Contributed by Juha Rämö - 2015/4/1 - 17:56




Language: Finnish

Traduzione finlandese di Pentti Saaritsa
Finnish translation by Pentti Saaritsa
Suomennos Pentti Saaritsa
PUOLUEELLENI

(Al mio partito)

Olet antanut minulle veljeyden niitäkin kohtaan joita en tunne.
Olet tehnyt minut osaksi kaikkien elävien voimasta.
Olet antanut minulle takaisin kotimaani kuin olisin syntynyt uudestaan.
Olet antanut minulle vapauden jota yksinäisellä ei ole.
Olet opettanut minut sytyttämään hyvyyden kuin nuotiotulen.
Sinä annoit minulle sen suoraviivaisuuden jota puu tarvitsee.
Sinä opetit minut näkemään ihmisen ykseyden ja erilaisuuden.
Sinä osoitit minulle miten yhteinen voitto hälventää yhden ihmisen tuskan.
Sinä opetit minut nukkumaan veljieni kovilla vuoteilla.
Sinä opetit minut rakentamaan todellisuudelle kuin kalliopohjalle.
Sinä teit minusta roistojen vihollisen ja suojamuurin raivoa vastaan.
Olet saanut minut näkemään maailman kirkkauden ja ilon mahdollisuuden.
Olet tehnyt minut kukistumattomaksi koska sinuun kuuluen en pääty itseeni.

Contributed by Juha Rämö - 2015/4/5 - 11:08



Le Chant Général de Neruda et Theodorákis
par Gian Piero Testa

Mikis Theodorákis, qui est lui aussi un bon poète, a rencontré plein de poètes au cours de sa vie. Chose bien étrange pour un musicien, il a été toujours convaincu que le mot vient d’abord.Tout gamin, il composait parfois sur des textes de Palamàs et de Karyotakis. Après la rencontre avec la poésie de Yannis Ritsos, sa musique s’est toujours inspirée d’un poète. Dans ce site, le nom de Mikis est toujours associé à celui d’un vrai poète, souvent d’un grand poète. Ritsos, Elytis, Seferis, Lorca, Gatsos, Varnalis, Anagnostakis… : la liste est longue et significative.
En Grèce, le consortium de poésie et de musique fondé par Theodorákis fit école, et est, au contraire, le trait plus significatif de la musique populaire d’art, dont la saison glorieuse n’est pas encore entièrement morte.

Theodorákis rencontra aussi le grand Chilien Pablo Neruda, en 1971. Grâce à cette rencontre parisienne entre l’exilé grec, qui venait à peine de quitter une patrie enchaînée par le colonel Papadopoulos, et l’ambassadeur chilien en France, Pablo Neruda, dont le pays, empli d’espoir par le nouveau cours amorcé par la victoire de Salvador Allende, glissait vers la dictature du général Pinochet, naquit, d’une grande œuvre poétique, une éminente composition musicale. Une semblable rencontre ne pouvait pas ne pas arriver. Il y avait trop de choses en commun dans leurs expériences artistiques et humaines à tous deux, que seule la différence de nationalité, et donc une partie de leurs cadres historiques respectifs, éloignait. Il y avait Lorca, il y avait le communisme, il y avait l’élan pour la vie, la symbiose avec les derniers et les opprimés, il y avait les guerres civiles, il y avait l’antifascisme, il y avait les péripéties de l’exil. Il y avait leurs deux pays aimés et malheureux, différents seulement dans l’espoir. De l’aventure de Theodorákis, dans ce site, on en parle fréquemment et nous renvoyons aux notes déjà existantes. De celle de Neruda, il vaut la peine de dire quelque chose, bien que le poète soit beaucoup aimé et connu dans le monde, Italie comprise.

Pour beaucoup, cette note, qui assemble des données tirées de Wikipédia en espagnol, du site de la Bibliothèque Virtual Miguel Cervantes, et quelques autres pêchées dans le web, paraîtra inutile ou insuffisante. Pour d'autres, ce sera une petite facilité.
Ricardo Eliécer Neftalí Reyes Basoalto (Parral, Chili, 12 Juillet 1904 – Santiago du Chili, 23 septembre 1973), universellement connu sous le pseudonyme de Pablo Neruda, qu'il adopta en 1946 comme nom légal, a été un des plus grands poètes mondiaux du XXième siècle. Il a eu le Prix Nobel de littérature en 1971.
Son père, José de Carmen Reyes, était un paysan qui est devenu manœuvre dans le port de Talcahuano et ensuite cheminot à Temuco. Sa mère, Rosa Basoalto, mourut de phtisie un mois seulement après la naissance de Ricardo.
La possibilité de parcourir en train, pendant son enfance, son petit pays boisé froid araucanien, qui avait été le théâtre de très âpres contestations entre les Amérindiens et les conquistadors, lui permit d'être très tôt marqué par deux des quatre passions radicales qui alimenteront les coulées magmatiques et les fleuves de sa poésie : celle de la nature originelle de son continent et celle de son histoire antérieure à la conquête. Les deux autres seront le communisme et l’éros. Mais l’élan qui le poussa à explorer tous les territoires et les clés de la vie : les grands cadres de l’histoire et de la géographie en même temps que l’amour pour les choses minimes, comme un chat ou un oignon, il le trouva en lui-même dans la co-fusion avec l’humanité toute entière, se sentir Indien araucanien et en même temps Espagnol et en même temps résidant sur la Terre, et vivre tout cela sans demi-mesures parfois dans le désespoir, parfois dans l'exaltation (au point qu'au seuil de la vieillesse, qu’il n’atteignit pas, il déclara : « Je confesse avoir vécu ») fit de lui un poète, qui est tout sauf tout monotone.

Doté d’une belle-mère aimée (la mamadre Trinidad) remplaçant la mère qu’il n’avait pas connue, Ricardo fréquente brillamment le Lycée de Temuco et est précocement pris par le démon de l’écriture et de la poésie : chose qui ne plut nullement à son père.
Il est âgé de seize ans environ quand il a la chance de connaître, pour s’être placé honorablement au concours littéraire national Juegos Floreales, la poétesse chilienne Gabriela Mistral (1889 – 1957), futur prix Nobel 1945, qui trouve chez lui la bonne inspiration et lui dévoile les grandes littératures, la russe surtout. Et comme l'avait fait son illustre guide qui, après avoir gagné des années avant lui le même prix, avait adopté le pseudonyme sous lequel elle est devenue immortelle, Ricardo aussi adopte le sien, pour pouvoir publier des vers sans susciter les colères de son papa José. Mais alors que la poétesse avait tiré son nouveau nom de deux poètes établis, Gabriele d’Annunzio et Frédéric Mistral, le garçon choisit celui d’un obscur narrateur bohémien, Jan Neruda, dont un récit l’avait fortement impressionné.

Il poursuivit ses études à Santiago, en fréquentant l' Istituto Pedagogico de l’Université du Chili et dans la même période, il sort victorieux d’une deuxième participation au Prix Juegos Floreales, avec le poème « Cancion de fiesta ». Peu après, il imprime son premier recueil poétique, « Crepusculario » (1923), qui attire l’attention de la critique et du monde littéraire ; tandis que l’année suivante « Veinte poemas de amor y una canción desesperada » l’introduisent définitivement dans le panthéon poétique chilien. D’autres publications et les études accomplies permettent au jeune Neruda d’entrer dans la diplomatie, selon le bon usage de la république chilienne d’alors, de se faire représenter à l’étranger par des personnes de culture respectable ; un usage dont bénéficiait aussi Gabriela Mistral laquelle, grâce à ses missions consulaires, put visiter de nombreux pays du monde, parmi lesquels l’Italie et la Grèce, et connaître leurs cultures.

En 1927, Neruda est consul à Rangoon en Birmanie et là, il entretient d'importants rapports épistolaires avec l’écrivain argentin Ettore Eandi (1895 - 1965). Ensuite, sa carrière se poursuit avec des fréquents changements de lieu, qui donnent comme fruit poétique un recueil au titre très significatif : « Residencia en la tierra ». Nous retrouvons Neruda, marié à Maria Antonieta (« Maruca ») et père d’une malheureuse enfant malade, à Ceylan, à Java, à Singapour, à Buenos Aires (où il rencontre Federico García Lorca), à Barcelone, (où il rencontre Rafael Alberti), et à Madrid, où il se mêle aux courants artistiques du surréalisme, mais où aussi le trouve la guerre civile déclenchée par le putsch de Francisco Franco et d’autre généraux fascistes en garnison au Maroc espagnol. À Madrid, lui parvient la bouleversante nouvelle de l’assassinat, à Viznar, de son ami le poète Federico García Lorca, fait qui contribue à pousser Neruda à prendre ouvertement position pour la cause des républicains et à composer, d’abord à Madrid et ensuite à Paris, la célèbre « España en el corazón» (1937), explicitement créée pour soutenir la lutte des « rojos » (« rouges »).
L’Espagne et sa guerre civile présentent un tournant décisif : les tendances surréalistes, qui provenaient d'une volonté de renouvellement total, se marient avec la révélation directe de l’injustice qui domine le monde et quelle quantité de sang des pauvres et des humiliés sont disposés à verser les classes et les nations puissantes pour la perpétuer. Le poète, descendu à Madrid « en le calle », comme Rafael Alberti, continue à se sentir aussi dans la rue après le retour au pays. Et dans sa fonction, qu’il n’a pas abandonnée, de diplomate maintenant orienté politiquement et socialement pour le sauvetage des derniers et des vaincus, il est chargé très opportunément par le président Aguirre Cerda de réaliser le projet, qu'il avait lui-même conçu, de transférer au Chili deux mille cinq cents Espagnols réfugiés en France après la chute de la République et qui, là sont enfermés dans des camps de concentration en des conditions pitoyables. Une entreprise que le poète considérait son œuvre la meilleure, tout en reconnaissant l’aide décisive du ministre Abraham Ortega : « que les critiques brûlent toute ma poésie, si bon leur semble, mais ce poème, qu’aujourd’hui je confie à la mémoire, personne ne pourra l’effacer », écrivit-il en appareillant du petit port français de Trompeloup pour Valparaiso, le 4 août 1939 avec deux mille cinq cents blessés républicains pour traverser deux océans sur un ponton – pour employer un terme aujourd’hui à la mode – retransformé en « bateau », le « Winnipeg ».
[Parmi les « rescapés », débarqués après environ un mois de navigation, il y avait aussi trois anciens combattants de l’E.P.R. (Armée Populaire Républicaine) dont les neveux fondèrent ensuite le groupe rock italien E.R.P. (Exit Refugium Peccatorum), qui dédia à ces grands-pères valeureux et à tous les combattants républicains, les chansons « C.N.T. » (Confederación Nacional du Trabajo) et « F.A.I. » (Federación Anarquista Ibérica)].
Entretemps, il a travaillé, jusqu’en 1938, à un « Canto General de Chile » (Chant général du Chili), que toutefois, après sa nomination comme Consul général à Mexico, peu avant qu’éclate la guerre mondiale, il le réécrit et l'élargit, de sorte que sa vision s’étende à l’Amérique entière, à partir d’un premier noyau, « Las alturas de Macchu Picchu » (Les Hauts du Machu Pichu), qu'il avait visités en 1945, qui sont un des épisodes plus hauts de la poésie en castillan de tous les temps. L’œuvre, que le poète considère le sommet de sa force expressive, et qui sera continuellement reprise et agrandie, jusqu’à la publication en 1950 à Mexico, prend lentement la forme d’une imposante construction ou, si on veut, d’une immense peinture murale en version verbale, dans les années où commençaient les grands peintres mexicains, Siqueiros, Orozco, Rivera, où toute l’Amérique amérindienne crie son désir de régénération, son accusation contre la dépossession et la dévastation des peuples, de la nature et de la culture perpétrée par l’avidité des Européens et de leurs épigones nord-américains. En 1943, Neruda, qui du Mexique a suivi avec appréhension le déroulement de la guerre craignant une réplique à l’échelle mondiale de la tragédie espagnole à peine endurée, et qui a « tifato » (pris fait et cause) pour l’Union soviétique, qui de Stalingrad a fait le Madrid des peuples du monde, en y versant des océans de sang, mais qui aussi, sa fillette emportée par une hydrocéphalie, a entamé un divorce d’avec « Maruca », divorce non reconnu par les autorités de son pays, pour épouser Delia de Carril (la « Hormiguita »), rentre au Chili.
Ses idées sociales et antifascistes à ce moment bien établies, sa conscience de l’état de sujétion économique et politique dans laquelle se trouvent les populations d’Amérique latine, l’écho de la lutte héroïque menée par les peuples soviétiques guidés par Joseph Staline pour écraser le monstre nazi, le poussent, en 1945, à s’inscrire au Parti Communiste, dans lequel par ailleurs, il n’aura pas la vie facile en raison de la rivalité d’autres intellectuels, ses camarades, comme les poètes Vicente Huidobro et Pablo de Rocha, même s’il emporte immédiatement un siège de sénateur. En 1946, aux élections présidentielles, une coalition de centre-gauche, l’Alliance Démocratique, qui comprend même les communistes, porte au sommet de la République Gabriel Gonzáles Videla, avec lequel Neruda est disposé à collaborer, ce dernier ayant un programme d'objectifs de réforme agraire. Mais ce sont les années où même en Amérique Latine soufflent les vents glacials de la guerre froide ; et Videla à l’occasion d’une grève des mineurs, qu'il fait réprimer avec brutale férocité, en profite pour mettre en difficulté les communistes et se débarrasser d’eux. Neruda attaque le président sans mâcher ses mots des bancs du Sénat avec un « J’accuse » qui implique la rupture totale, politique et personnelle. Peu après – nous sommes en septembre 1948 - Videla fait mettre hors la loi le Parti Communiste.

[Remarque : On remarquera que le dictateur chilien porte le même nom que son homologue argentin qui va faire partie de la « junte » putschiste de 1976. Existeraient-ils des noms de dictateurs ? [RV]]

Dans les mois qui suivent, le poète devient la tête de proue de l’opposition à Videla, qu’il attaque à tête basse avec tous les moyens dont il dispose : sa tribune de sénateur, les journaux nationaux et étrangers, son autorité de poète maintenant célébre et de renommée internationale. Il dévoile les errements ambigus de Videla, ambassadeur à Paris pendant l’occupation allemande, les menées de sa femme pour cacher son origine juive quand les Juifs français sans appuis haut placés étaient envoyés dans les camps, la liquidation de la richesse nationale aux capitalistes nord-américains, la politique matrimoniale de la famille présidentielle pour s’apparenter avec les oligarchies sud-américaines. Il insiste tellement contre Videla, qui a enseigné aux Chiliens à appeler avec le surnom de « rata », que, usant d’un article publié au Venezuela sur la crise démocratique du Chili, décrite comme sonnette d’alarme pour tout le continent, et passé à l’histoire avec le nom de « Carta íntima pare millones de hombres », le Gouvernement obtient du Tribunal qu'il révoque l’immunité du sénateur fastidieux et sa mise en état d’accusation pour « dénigrement du Chili à l’étranger et pour calomnie vis-à-vis du président de la République ». En se voyant poursuivi d'un mandat d’arrêt, en octobre 1949, Neruda se cache d’abord ici et là dans son pays et ensuite, dès qu'il le peut, bravant le danger, il traverse à cheval les Andes au pas de Lipela pour se réfugier en Argentine. De là, il rejoint Paris en avril 1950, il se rapproche de Pablo Picasso et visite assidûment les républiques « populaires » de l’Est européen et l’URSS, participe intensément au Mouvement des partisans de la paix, d’inspiration soviétique, mais il visite aussi l’Italie et d'autres pays du camp occidental. En Italie, la poétesse Sibilla Aleramo traduit, au milieu des hauts cris démocrate-chrétiens, ce « Que despierte el Leñador » (« Que s’éveille le Bûcheron », lequel serait Lincoln et l’esprit démocratique de l’Amérique du Nord), qui à Varsovie a procuré à l’auteur (et à Picasso et Paul Robeson) le Prix International de la Paix, justement pour les tristement célèbres vers de l'éloge ronflant au tyran soviétique et à ses terribles complices, Molotov, Vorošilov & Co. : En trois habitations du vieux Kremlin/vit un homme appelé Joseph Staline… ».

[Moi, gpt [Ce n'est pas Gepeto, mais Gian Piero Testa] qui écris, ajoute et confesse avoir aimé à sang cette partie du Canto General et encore aujourd’hui, en le relisant dans le texte et un peu dans la traduction de Salvatore Quasimodo (des éditions Einaudi et illustrations de Renato Guttuso, du temps où le monde et l’histoire tournaient sans répandre de doutes…), je le retrouve dans tout sa valeur de bonne poésie et d’excellente rhétorique, tel à ne pas être invalidé par la si déprimante rêverie du poète sur la grande bonté du monde soviétisé et de sa capacité de réponse atomique à une attaque impérialiste : sensations exquisement personnelles, évidemment, auxquelles je n’invite personne à participer].

Son exil – qui le conduit à Naples et à Capri en compagnie de Matilde Urrutia, nouvelle compagne qu'il épousera en 1966, après la séparation (1955) de sa femme illégitime « Hormiguita », et de la mort de sa légitime « Maruca » Reyes – continue jusqu’en 1952, quand est formellement notifiée l’inexistence de mandats d’arrestation à sa charge. En 1951, le gouvernement italien avait tenté de l’expulser comme indésirable ; mais la tentative avait échoué, car les intellectuels romains, alertés par Alberto Moravia, Elsa Morante, Carlo Levi et Renato Guttuso firent un mur humain à la station Termini pour empêcher les policiers de le charger sur le train, et, même violemment matraqués par les « scelbini » (le ministre italien de l'Intérieur, chef de la police est un certain Scelba de triste mémoire - n.d.t.), atteignirent leur but. Sa rentrée au pays, le 12 août 1952, est triomphale et à partir de ce moment le poète reçoit des honneurs et des reconnaissances tant de l’Est que de l’Ouest : le Prix Staline en 1953, docteur honoris causa à Oxford (1965), cooptation honoraire dans l’Académie Linguistique Chilienne (1969), jusqu’au prix Nobel de 1971.

Sa production poétique continue vaste et fluide : ce sont les années de «  Los versos del Capitán » (nés à Capri et marqués par son nouvel amour pour Matilde), de Las uvas y el viento (avec un hommage récidivé à Staline) et des très belles « Odas elementales », suit une nouvelle phase expérimentale et d’une intimiste scellée par « Estravagario » (1958). Et il continue son activité politique dans le parti communiste chilien, malgré le choc du XXe Congrès du PCUS. En 1969, le parti le désigne comme son candidat aux élections présidentielles. L’opportunité de donner vie à une coalition plus vaste avec les socialistes, l’Unidad Popular, pour lequel il s’engage également avec toutes ses forces, le conduit à enoncer en faveur de Salvador Allende, qui, comme c'est archi-connu, sortit victorieux du vote de 1970. Après la victoire, Neruda est nommé ambassadeur en France.

Et c'est justement à Paris, en 1971, que le poète rencontre pour la première fois Mikis Theodorákis, échappé peu à la longue persécution des colonels putschistes. Leurs respectives expériences d’artistes, de combattants et d’exilés se traduisent dans une naturelle impulsion à la collaboration. C'est ainsi que, avec la « bénédiction » d’Allende, naît le projet de mettre en musique quelques fragments du très grand Canto General. En 1973, le travail du compositeur grec est au point, de sorte qu’on peut procéder aux premières répétitions pour sa création, prévue dans le stade de Santiago. Le poète est déjà malade ; mais ce ne sera pas sa mort imminente qui l'empêchera d’écouter son œuvre réinterprétée par Theodorákis. À briser le projet pourvoient des généraux félons manipulés par la Maison Blanche, qui ne supporte pas un autre gouvernement indépendant et populaire dans les espaces qui lui sont « manifestement » assignés par le « Destin ». Le 11 septembre 1973, le stade de Santiago est réquisitionné par l’armée et transformé en camp de concentration. Le 19 septembre, Neruda est hospitalisé d’urgence dans une clinique de Santiago, où il meurt le 23 d'un cancer à la prostate. Sa maison d’Isla Negra est pillée et ses livres donnés aux flammes. La plus grande œuvre du poète, qui se voulait le chantre des deux cultures de son immense Amérique, et la musique du compositeur venu d’une ancienne terre, petite et lointaine, de la mère de cette « civilisation occidentale » au nom de laquelle leurs deux Pays étaient abattus comme des bœufs à abattoir l'un après l’autre en une séquence ordonnée (1967-1973 la Grèce ; 1973 – 1990 le Chili), fut entendu la première fois par les Chiliens, dans le stade de Santiago peuplé des vivants et des morts, seulement en 1993. Theodorákis dirigeait .

Entretemps, le Canto General avait été joué en Grèce (1975) dans la version primitive et, ensuite, agrandie avec autres six morceaux, en Allemagne démocratique (1981). Impossible d'énumérer tous les lieux du monde dans lequel ont résonné ces notes et ces vers fascinants. (gpt)

Marco Valdo M.I. - 2015/12/2 - 20:07




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