Il fut un temps où j'étais un homme-fleur
Jeune, insouciant et beau
À séduire jusqu'aux femmes-oiseaux
Mais un matin, dans les premières lueurs
Quand les jeux de l'amour s'épuisent
Au jour nouveau
Je fus ensorcelé par erreur
Je voulais être homme-oiseau
Je mis l'onguent et surprise
Me voici sans plumes, petit et poilu
Me voici âne trapu.
Je suis toujours Lucien, le porteur de lumière
Ce qui en grec se dit à peu près Loukyphoros
Je suis l'Âne d'Or, têtu et fier
Venu du pays de l'Olympe de Lesbos,
Et qui cherche les fleurs de la libération
Les Roses d'anarchie aux corolles d'or
Afin de les manger sans façon
Et d'initier l'Âge d'Or.
J'avance en éclairant mon chemin
Je suis à la fois jeune et ancien
Je suis à l'aube de l'histoire et du temps
Je suis l' Ante Christ, j'étais enfant
Tout à la fois de l'Europe, de l'Asie, de l'Afrique
Avant de traverser les océans
Vers les Amériques
Pourtant,
Moi, Lucien,
L'Âne d'Or aux petits pas
Je ne suis rien
J'existe et je n'existe pas
Je suis et je ne suis pas
Je suis l'âne qui marche derrière son nez
Patient et obstiné
Je trouverai ces roses-là
Je mangerai ces roses-là
Et notre Âge alors
Sera l'Âge d'Or.
Jeune, insouciant et beau
À séduire jusqu'aux femmes-oiseaux
Mais un matin, dans les premières lueurs
Quand les jeux de l'amour s'épuisent
Au jour nouveau
Je fus ensorcelé par erreur
Je voulais être homme-oiseau
Je mis l'onguent et surprise
Me voici sans plumes, petit et poilu
Me voici âne trapu.
Je suis toujours Lucien, le porteur de lumière
Ce qui en grec se dit à peu près Loukyphoros
Je suis l'Âne d'Or, têtu et fier
Venu du pays de l'Olympe de Lesbos,
Et qui cherche les fleurs de la libération
Les Roses d'anarchie aux corolles d'or
Afin de les manger sans façon
Et d'initier l'Âge d'Or.
J'avance en éclairant mon chemin
Je suis à la fois jeune et ancien
Je suis à l'aube de l'histoire et du temps
Je suis l' Ante Christ, j'étais enfant
Tout à la fois de l'Europe, de l'Asie, de l'Afrique
Avant de traverser les océans
Vers les Amériques
Pourtant,
Moi, Lucien,
L'Âne d'Or aux petits pas
Je ne suis rien
J'existe et je n'existe pas
Je suis et je ne suis pas
Je suis l'âne qui marche derrière son nez
Patient et obstiné
Je trouverai ces roses-là
Je mangerai ces roses-là
Et notre Âge alors
Sera l'Âge d'Or.
envoyé par Marco Valdo M.I - 28/6/2009 - 22:12
Cher Lucien,
D'abord je veux te dédier cette chanson grecque qui parle d'un âne; ou plutôt, ce n'est pas la chanson qui parle de l'âne, mais c'est l'âne même qui parle et raconte sa vie et sa rage. J'espère bien que Marco Valdo M.I. va la traduire en français, parce que c'est vraiment l'hymne de nous autres les ânes. Vraiment tertous. Je vous dis, Lucien, Marco Valdo: on va faire, un très beau jour, la révolution des ânes, η επανάσταση των γαιδαριών. Je vous salue pour le moment, il faut que je fasse la vaisselle...
D'abord je veux te dédier cette chanson grecque qui parle d'un âne; ou plutôt, ce n'est pas la chanson qui parle de l'âne, mais c'est l'âne même qui parle et raconte sa vie et sa rage. J'espère bien que Marco Valdo M.I. va la traduire en français, parce que c'est vraiment l'hymne de nous autres les ânes. Vraiment tertous. Je vous dis, Lucien, Marco Valdo: on va faire, un très beau jour, la révolution des ânes, η επανάσταση των γαιδαριών. Je vous salue pour le moment, il faut que je fasse la vaisselle...
Riccardo Venturi - 28/6/2009 - 23:00
Un raglio e un fischio
de Riccardo Venturi
Il faro che, ancora, sta in cima al Capo Poro e che segnala alle imbarcazioni l'ingresso al golfo di Campo, è da anni completamente automatico. Si accende e spegne a una data ora, a seconda delle stagioni, con un dispositivo di temporizzazione; ma fino almeno alla metà degli anni '80 non era così. Ogni giorno qualcuno doveva andare a accenderlo e a spegnerlo alle ore previste; ci andava, finché non è morto, il Soldatino col suo somaro.
Dico somaro perché non so se fosse un asino vero e proprio, un mulo, un bardotto o cosa. Non sono mai stato capace di distinguerli bene, ma c'è quella parola, somaro, che serve per tutti. Il Soldatino era un vecchio senza figlioli, mai stato sposato e secco come un giunco; a una cert'ora lo si vedeva partire da casa, su una delle salite che dal Vapelo vanno al Crino e poi a Galenzana, e poi tornare una volta svolto il suo compito. Doveva essere pagato, credo, dalla Capitaneria di Porto o da qualche altro organismo militare; il Capo Poro sarebbe tuttora zona militare a causa dei ruderi di alcuni bunker e di qualche batteria contraerea della II guerra mondiale. Per andarci c'è un sentiero che, nell'ultima parte, sale non dico in verticale ma quasi; in tutta la mia vita mi sono azzardato solo due volte a farmelo a piedi, e quando ci avevo non molti anni. Ora ci avrei dei grossi problemi, per usare un eufemismo.
Ci volevano un uomo secco e un somaro, per andarci ogni giorno, lassù. Il somaro, a un certo punto, doveva prendere l'uomo secco in groppa; e era una femmina. Una somarina più secca di lui, che sapeva la strada a memoria, e non solo quella. Siccome lui la lasciava libera, già in tempi di macchine con lo stereo, di discomusic e di tv commerciali la si vedeva girare da sola per il paese, dov'era diventata una specie di attrazione. Una volta fece epoca, vicino all'ufficio postale, fermandosi alle strisce pedonali per fare attraversare una comitiva di tedeschi esterrefatti; magari, chissà, avranno pensato che all'Elba i somari erano più educati degli automobilisti.
Il Soldatino, invece, manco mi ricordo come si chiamasse per davvero. Era il Soldatino, e basta. Quando aveva diciott'anni era dovuto andare a fare il servizio militare, e alla prima licenza era tornato a casa vestito da soldato; cosicché le donne e le ragazze del paese, a furia di dirgli "oh bellino il soldatino! Carino il soldatino! Ma guarda che bel soldatino!", lo avevano fatto rimanere il Soldatino per sempre. Nei paesi, un soprannome conta molto di più del nome vero; ancora oggi, mi capita di vedere i manifesti mortuari affissi ai muri con dei nomi del tutto sconosciuti finché qualcuno non passa e dice: "Oh, è morto il Gringo! E' morta la Mezzasoma!"; allora capisco subito chi sia passato a miglior vita. E' successo così per tutti e per tutte.
Il Soldatino, come milioni di soldatini, a un certo punto era dovuto andare a fare la guerra. Mi raccontavano che era stato in Africa, a Tobruk, a Giarabub, a El Alamein. Contrariamente all'uso dei posti di mare, se n'era andato in fanteria; ma certuni assicurano che si vedevano degli elbani, di Marciana o del Poggio, persino negli alpini. Finita la guerra, non era tornato subito a casa; lo si rivide mesi e mesi dopo, e s'era riportato due cose. Una fotografia assieme al feldmaresciallo Rommel mentre gli stringeva la mano in mezzo al deserto, e una ragazza dalla carnagione olivastra, che non parlava l'italiano. Veniva dalle Isole Canarie, e dio solo sa dove mai, e in quale circostanza, l'avesse conosciuta. Ma ci devono essere, al mondo, di quegli amori che davvero non conoscono barriere; e così, dalle Canarie era approdata all'Elba assieme al suo Soldatino. Si chiamava Conchita.
Negra non era. Era, probabilmente, una guanchi, una discendente dell'antichissima popolazione delle Canarie, famosa per il suo "linguaggio fischiato" che poteva intendersi a chilometri di distanza, e con il quale, a forza di particolari modulazioni, gli isolani erano capaci di comunicarsi notizie importanti sulla caccia, sul tempo, su tutto quel che poteva servire. L'italiano lo aveva poi imparato, anche se aveva sempre mantenuto l'accento spagnolo; andava a servizio nelle case, dove era nota per la sua velocità nello sbrigare tutte le faccende. Le domandavano come facesse, e lei, seduta sull'uscio di casa, cominciava a parlare di un paesino dal nome strano dove, quando aveva sette anni, i genitori la lasciavano sola in casa a occuparsi di fare da mangiare e di badare a due fratellini di due e tre anni. Aveva imparato alla svelta a fare le cose.
Lui aveva lavorato per un po' come tuttofare. Uno di quelli che, quando si guasta la luce, s'intasa lo scarico o qualsiasi altra cosa, sapeva sempre come fare. Poi gli avevano offerto di occuparsi del faro del Poro, e s'era dovuto prendere il somaro. Io mi ricordo degli ultimi tre che aveva avuto. La somarina è l'ultima; nel frattempo Conchita faceva le sue faccende e, ogni tanto, diceva che le sarebbe piaciuto rivedere le Canarie anche per una volta sola. Non fu accontentata.
Un pomeriggio che stava sull'uscio di casa, disse che aveva mal di testa e s'alzò per andare a prendere un bicchiere d'acqua in cucina. Si sentì un tonfo; una trombosi fulminante. E così è rimasta per sempre all'Elba, in un cimitero dove le fanno compagnia altre ragazze capitate lì per chissà cosa. C'è un'irlandese, che a quarant'anni o poco più era volata di sotto da un burrone con la macchina. Una norvegese, o danese, che aveva un'edicola di giornali vicino alla Foce. E una slava, che la chiamavano "Zorro" perché di cognome faceva Zgrno; la cosa più pronunciabile che avesse un senso, insomma. A volte mi chiedo come ci si possa sentire, da donna, ad essere chiamata Zorro; ma non se ne dev'essere fatta un problema. Un giorno o l'altro tanto me la fo, la mia Spoon River personale; l'Antologia della Grotta, visto che il cimitero si chiama così. La Grotta.
Il Soldatino continuò a andare a accendere e spegnere il faro anche il giorno dei funerali della sua donna. Già, perché non s'erano mai sposati. Mai stato sposato, come ho detto all'inizio; si erano accompagnati, come si diceva allora. Stavano bene così. Nessun figliolo. C'era il somaro, e poi un altro, e poi la somarina che si fermava alle strisce pedonali. Come farà, come farà quando moio, diceva sempre; non ce l'ha fatta. Il Soldatino è morto e l'hanno sotterrato vicino a Conchita, ma non accanto perché il posto era già occupato e non si può dirgli certo, a un morto, di farsi in là. La somarina è morta esattamente dodici giorni dopo di lui. Me la ricordo che ci stava a guardare, in riva al mare, mentre io e un mio amico s'aiutava il Soldatino a costruire il moletto di Galenzana. O meglio, l'ha fatto lui, da solo; noi gli si portava gli attrezzi e gli s'andava in paese a prendere qualcosa se gli serviva. Però mi garba sempre dire che quel moletto l'ho fatto un po' anch'io, anche se non è vero.
Subito dopo fu messo, al faro, il dispositivo automatico. Lo avrebbero potuto mettere anche prima, ma si vede che, nei luoghi preposti, c'era ancora qualcuno che ci pensava due volte prima di levare due soldi a un vecchio. Sarà per questo che, ogni volta che lo vedo accendersi e baluginare nella notte, sento un raglio, e un fischio.
de Riccardo Venturi
Il faro che, ancora, sta in cima al Capo Poro e che segnala alle imbarcazioni l'ingresso al golfo di Campo, è da anni completamente automatico. Si accende e spegne a una data ora, a seconda delle stagioni, con un dispositivo di temporizzazione; ma fino almeno alla metà degli anni '80 non era così. Ogni giorno qualcuno doveva andare a accenderlo e a spegnerlo alle ore previste; ci andava, finché non è morto, il Soldatino col suo somaro.
Dico somaro perché non so se fosse un asino vero e proprio, un mulo, un bardotto o cosa. Non sono mai stato capace di distinguerli bene, ma c'è quella parola, somaro, che serve per tutti. Il Soldatino era un vecchio senza figlioli, mai stato sposato e secco come un giunco; a una cert'ora lo si vedeva partire da casa, su una delle salite che dal Vapelo vanno al Crino e poi a Galenzana, e poi tornare una volta svolto il suo compito. Doveva essere pagato, credo, dalla Capitaneria di Porto o da qualche altro organismo militare; il Capo Poro sarebbe tuttora zona militare a causa dei ruderi di alcuni bunker e di qualche batteria contraerea della II guerra mondiale. Per andarci c'è un sentiero che, nell'ultima parte, sale non dico in verticale ma quasi; in tutta la mia vita mi sono azzardato solo due volte a farmelo a piedi, e quando ci avevo non molti anni. Ora ci avrei dei grossi problemi, per usare un eufemismo.
Ci volevano un uomo secco e un somaro, per andarci ogni giorno, lassù. Il somaro, a un certo punto, doveva prendere l'uomo secco in groppa; e era una femmina. Una somarina più secca di lui, che sapeva la strada a memoria, e non solo quella. Siccome lui la lasciava libera, già in tempi di macchine con lo stereo, di discomusic e di tv commerciali la si vedeva girare da sola per il paese, dov'era diventata una specie di attrazione. Una volta fece epoca, vicino all'ufficio postale, fermandosi alle strisce pedonali per fare attraversare una comitiva di tedeschi esterrefatti; magari, chissà, avranno pensato che all'Elba i somari erano più educati degli automobilisti.
Il Soldatino, invece, manco mi ricordo come si chiamasse per davvero. Era il Soldatino, e basta. Quando aveva diciott'anni era dovuto andare a fare il servizio militare, e alla prima licenza era tornato a casa vestito da soldato; cosicché le donne e le ragazze del paese, a furia di dirgli "oh bellino il soldatino! Carino il soldatino! Ma guarda che bel soldatino!", lo avevano fatto rimanere il Soldatino per sempre. Nei paesi, un soprannome conta molto di più del nome vero; ancora oggi, mi capita di vedere i manifesti mortuari affissi ai muri con dei nomi del tutto sconosciuti finché qualcuno non passa e dice: "Oh, è morto il Gringo! E' morta la Mezzasoma!"; allora capisco subito chi sia passato a miglior vita. E' successo così per tutti e per tutte.
Il Soldatino, come milioni di soldatini, a un certo punto era dovuto andare a fare la guerra. Mi raccontavano che era stato in Africa, a Tobruk, a Giarabub, a El Alamein. Contrariamente all'uso dei posti di mare, se n'era andato in fanteria; ma certuni assicurano che si vedevano degli elbani, di Marciana o del Poggio, persino negli alpini. Finita la guerra, non era tornato subito a casa; lo si rivide mesi e mesi dopo, e s'era riportato due cose. Una fotografia assieme al feldmaresciallo Rommel mentre gli stringeva la mano in mezzo al deserto, e una ragazza dalla carnagione olivastra, che non parlava l'italiano. Veniva dalle Isole Canarie, e dio solo sa dove mai, e in quale circostanza, l'avesse conosciuta. Ma ci devono essere, al mondo, di quegli amori che davvero non conoscono barriere; e così, dalle Canarie era approdata all'Elba assieme al suo Soldatino. Si chiamava Conchita.
Negra non era. Era, probabilmente, una guanchi, una discendente dell'antichissima popolazione delle Canarie, famosa per il suo "linguaggio fischiato" che poteva intendersi a chilometri di distanza, e con il quale, a forza di particolari modulazioni, gli isolani erano capaci di comunicarsi notizie importanti sulla caccia, sul tempo, su tutto quel che poteva servire. L'italiano lo aveva poi imparato, anche se aveva sempre mantenuto l'accento spagnolo; andava a servizio nelle case, dove era nota per la sua velocità nello sbrigare tutte le faccende. Le domandavano come facesse, e lei, seduta sull'uscio di casa, cominciava a parlare di un paesino dal nome strano dove, quando aveva sette anni, i genitori la lasciavano sola in casa a occuparsi di fare da mangiare e di badare a due fratellini di due e tre anni. Aveva imparato alla svelta a fare le cose.
Lui aveva lavorato per un po' come tuttofare. Uno di quelli che, quando si guasta la luce, s'intasa lo scarico o qualsiasi altra cosa, sapeva sempre come fare. Poi gli avevano offerto di occuparsi del faro del Poro, e s'era dovuto prendere il somaro. Io mi ricordo degli ultimi tre che aveva avuto. La somarina è l'ultima; nel frattempo Conchita faceva le sue faccende e, ogni tanto, diceva che le sarebbe piaciuto rivedere le Canarie anche per una volta sola. Non fu accontentata.
Un pomeriggio che stava sull'uscio di casa, disse che aveva mal di testa e s'alzò per andare a prendere un bicchiere d'acqua in cucina. Si sentì un tonfo; una trombosi fulminante. E così è rimasta per sempre all'Elba, in un cimitero dove le fanno compagnia altre ragazze capitate lì per chissà cosa. C'è un'irlandese, che a quarant'anni o poco più era volata di sotto da un burrone con la macchina. Una norvegese, o danese, che aveva un'edicola di giornali vicino alla Foce. E una slava, che la chiamavano "Zorro" perché di cognome faceva Zgrno; la cosa più pronunciabile che avesse un senso, insomma. A volte mi chiedo come ci si possa sentire, da donna, ad essere chiamata Zorro; ma non se ne dev'essere fatta un problema. Un giorno o l'altro tanto me la fo, la mia Spoon River personale; l'Antologia della Grotta, visto che il cimitero si chiama così. La Grotta.
Il Soldatino continuò a andare a accendere e spegnere il faro anche il giorno dei funerali della sua donna. Già, perché non s'erano mai sposati. Mai stato sposato, come ho detto all'inizio; si erano accompagnati, come si diceva allora. Stavano bene così. Nessun figliolo. C'era il somaro, e poi un altro, e poi la somarina che si fermava alle strisce pedonali. Come farà, come farà quando moio, diceva sempre; non ce l'ha fatta. Il Soldatino è morto e l'hanno sotterrato vicino a Conchita, ma non accanto perché il posto era già occupato e non si può dirgli certo, a un morto, di farsi in là. La somarina è morta esattamente dodici giorni dopo di lui. Me la ricordo che ci stava a guardare, in riva al mare, mentre io e un mio amico s'aiutava il Soldatino a costruire il moletto di Galenzana. O meglio, l'ha fatto lui, da solo; noi gli si portava gli attrezzi e gli s'andava in paese a prendere qualcosa se gli serviva. Però mi garba sempre dire che quel moletto l'ho fatto un po' anch'io, anche se non è vero.
Subito dopo fu messo, al faro, il dispositivo automatico. Lo avrebbero potuto mettere anche prima, ma si vede che, nei luoghi preposti, c'era ancora qualcuno che ci pensava due volte prima di levare due soldi a un vecchio. Sarà per questo che, ogni volta che lo vedo accendersi e baluginare nella notte, sento un raglio, e un fischio.
Cette histoire du Soldatino est véritablement remplie de tendresse, d'amitié et d'un sens profond de l'humanité; en somme, elle est fort belle. Et Lucien l'âne aux yeux plus noirs et plus luisants que le diamant d'Afrique australe a voulu que je la traduise. Il était si ému par la fin de l'ânesse... Honneur aux ânes mortes !
Comment refuser cela à l'auteur lui-même de la canzone ?
Ainsi parlait Marco Valdo M.I.
Comment refuser cela à l'auteur lui-même de la canzone ?
Ainsi parlait Marco Valdo M.I.
Un braiment et un sifflement
de Riccardo Venturi
Le phare qui se trouve encore à la cime du Cap Poro et qui signale aux embarcations l'entrée du golfe de Campo, est depuis des années entièrement automatique. Il s'allume et s'éteint à une heure fixée, selon les saisons, au moyen d'un dispositif de temporisation; mais jusqu'à la fin des années 80, il n'en était pas ainsi. Chaque jour quelqu'un devait aller l'allumer et l'éteindre aux heures prévues; y allait, jusqu'à sa mort, le Soldatino avec son âne.
Je dis âne car je ne sais si c'était un vrai âne ou un mulet ou un bardot. Je n'ai jamais été capable de les distinguer, mais c'est ce mot âne qui sert pour tous. Le Soldatino était un vieux sans enfant, jamais marié et sec comme un jonc; à une certaine heure, on le voyait quitter sa maison, par une des côtes qui du Valpelo vont au Crino puis à Galenzana, et puis revenir une fois son travail accompli. Il devait être payé, je crois, par la Capitainerie du Port ou un organisme militaire; le Cap Poro est toujours à présent une zone militaire à cause des ruines de bunkers et d'une batterie anti-aérienne de la Seconde Guerre mondiale. Pour y aller, il y a un sentier qui, dans sa dernière partie, monte je ne dis pas à la verticale mais presque; dans toute ma vie, je ne m'y suis hasardé que deux fois à le faire à pieds et quand j'avais peu d'années. À présent, j'aurais de gros problèmes, pour user d'un euphémisme.
Il fallait un homme sec et un âne pour y aller chaque jour là haut. L'âne, à un certain endroit, devait prendre l'homme sec en croupe. C'était une femelle, une ânesse plus sèche que lui, qui connaissait la route par cœur et pas seulement celle-là. Comme lui la laissait libre, à une époque déjà remplie de stéréos, de musique disco et de TV commerciale, on la voyait qui se promenait seule dans le pays, où elle était devenue une espèce d'attraction. Une fois elle fit sensation, devant le bureau de poste, en s'arrêtant au passage piéton pour faire traverser une bande d'Allemands stupéfaits. Peut-être, qui sait, ont-ils pensé qu'à l'Elbe, les ânes sont mieux éduqués que les automobilistes.
Le Soldatino, par contre, je ne me souviens plus comment il s'appelait vraiment. C'était le Soldatino, et basta. Quand il avait dix-huit ans, il avait dû aller faire son service militaire, et à la première permission, il était rentré à la maison vêtu en soldat; de sorte que les femmes et les filles du pays, à force de lui dire "oh bellino il soldatino! Carino il soldatino! Ma guarda che bel soldatino!", l'avaient transformé en Soldatino pour toujours. Dans les villages, un surnom compte beaucoup plus que le vrai nom; encore aujourd'hui, il m'arrive de voir des faire-part collés aux murs avec des noms totalement inconnus jusqu'à ce que quelqu'un passe et dise : « Oh, è morto il Gringo! E' morta la Mezzasoma! »; alors je comprends subitement qui est passé à une vie meilleure. Il en est ainsi pour toutes et pour tous.
Le Soldatino, comme des milliers de soldats, à un certain moment a dû aller faire la guerre. On m'a raconté qu'il était allé en Afrique à Tobrouk, à Djaraboub, à El Alamein. Contrairement à l'usage des pays de mer, il était allé dans l'infanterie; mais certains affirment qu'on a vu des Elbois, de Marciana ou de Poggio, jusque dans les Alpins. La guerre finie, il n'était pas revenu immédiatement chez lui; on le revit des mois et des mois après et il avait rapporté deux choses. Une photographie en compagnie du Maréchal Rommel tandis qu'il lui serrait la main au milieu du désert et une fille à la carnation olivâtre, qui ne parlait pas l'italien. Elle venait des Îles Canaries et dieu seul sait où et dans quelles circonstances, il l'avait connue. Mais il doit y avoir au monde de ces amours qui vraiment ne connaissent pas de barrières; et ainsi, des Canaries, elle était atterrie à Elbe avec son Soldatino. Elle s'appelait Conchita.
Elle n'était pas noire. Elle était, probablement, une Guanche, une descendante de l'ancienne population des Canaries, fameuse pour son « langage sifflé » qui pouvait se comprendre à des kilomètres de distance, et avec lequel, à force de modulations particulières, les îliens étaient capables de communiquer des nouvelles importantes sur la chasse, le temps, sur tout ce qui pouvait servir. L'italien, elle l'avait appris ensuite, même si elle avait toujours conservé l'accent espagnol; elle servait dans les maisons, où elle était connue pour sa vitesse dans la réalisation de toutes les tâches. On lui demandait comment elle faisait; et elle, assise sur le seuil de chez elle, commençait à parler d'un petit pays au nom étrange, où quand elle avait sept ans, ses parents la laissaient seule à la maison pour s'occuper de faire à manger et de regarder à ses deux petits frères de deux et trois ans. Elle avait appris très tôt à faire les choses.
Lui avait travaillé un peu comme homme à tout faire. Un de ceux qui, quand la lumière sautait, le chargement se bloquait ou n'importe quoi d'autre, savait comment faire. Puis, on lui avait offert de s'occuper du phare du Poro et il avait dû prendre un âne. Je me souviens des trois derniers qu'il a eus. La petite ânesse est la dernière; entretemps Conchita faisait ses affaires et elle, de temps en temps, qu'il lui aurait plu de revoir les Canaries même une seule fois. Elle ne fut pas contentée.
Un après-midi qu'elle était sur son seuil, elle dit qu'elle avait mal à la tête et se leva pour aller prendre un verre d'eau à la cuisine. On entendit un bruit; une thrombose fulgurante. Et elle est restée ainsi pour toujours à Elbe, dans un cimetière où lui tiennent compagnie des femmes tombées là on ne sait trop pourquoi. Il y a une Irlandaise, qui a quarante ans ou un peu plus avait volé dans un ravin avec sa voiture. Une Norvégienne, ou Danoise, qui avait un kiosque de journaux près de la Foce. Et une Slave, qu'on appelait « Zorro » car son nom était Zgrno; la chose la plus prononçable qui avait un sens, en somme. Parfois, je me demande comment elle pouvait se sentir comme femme d'être appelée Zorro; mais elle ne devait pas s'en être fait un problème. Un jour ou l'autre, je me la ferai ma Spoon River personnelle; l'Anthologie de la Grotte, vu que le cimetière s'appelle ainsi : la Grotte.
Le Soldatino continua à aller allumer et éteindre le phare, même le jour des funérailles de sa femme. D'abord, car ils n'étaient pas mariés. Jamais mariés, comme je l'ai dit au début, ils s'étaient « accompagnés », comme on disait alors. Ils étaient bien ainsi. Pas d'enfant. Il y avait eu l'âne, et puis un autre, et puis, l'ânesse qui s'arrêtait aux passages piétons. Comment fera-t-on, comment fera-t-on quand je mourrai, disait-il toujours.; on ne l'a plus fait. Le Soldatino est mort et on l'a enterré pas loin de Conchita, mais pas à côté car la place était déjà prise et on ne peut certes pas dire à un mort de se pousser. L'ânesse est morte exactement douze jours après lui. Je me la rappelle qui restait à regarder, sur le bord de la mer, tandis qu'un ami et moi, on aidait le Soldatino à construire le môle de Galenzana. Ou mieux, il l'a fait lui, seul; nous on lui portait ses outils et lui s'en allait au village chercher ce qu'il lui fallait. Pourtant, il me plaît toujours de dire que ce môle, je l'ai fait un peu moi aussi, même si ce n'est pas vrai.
Immédiatement après fut mis en service, au phare, le dispositif automatique. On aurait pu le mettre même avant; mais on voit que, dans des lieux privilégiés, il y a encore quelqu'un qui y pense à deux fois avant d'enlever deux sous à un vieux. Ce doit être pour ça que, chaque fois que je le vois s'allumer et clignoter dans la nuit, j'entends un braiment et un sifflement.
de Riccardo Venturi
Le phare qui se trouve encore à la cime du Cap Poro et qui signale aux embarcations l'entrée du golfe de Campo, est depuis des années entièrement automatique. Il s'allume et s'éteint à une heure fixée, selon les saisons, au moyen d'un dispositif de temporisation; mais jusqu'à la fin des années 80, il n'en était pas ainsi. Chaque jour quelqu'un devait aller l'allumer et l'éteindre aux heures prévues; y allait, jusqu'à sa mort, le Soldatino avec son âne.
Je dis âne car je ne sais si c'était un vrai âne ou un mulet ou un bardot. Je n'ai jamais été capable de les distinguer, mais c'est ce mot âne qui sert pour tous. Le Soldatino était un vieux sans enfant, jamais marié et sec comme un jonc; à une certaine heure, on le voyait quitter sa maison, par une des côtes qui du Valpelo vont au Crino puis à Galenzana, et puis revenir une fois son travail accompli. Il devait être payé, je crois, par la Capitainerie du Port ou un organisme militaire; le Cap Poro est toujours à présent une zone militaire à cause des ruines de bunkers et d'une batterie anti-aérienne de la Seconde Guerre mondiale. Pour y aller, il y a un sentier qui, dans sa dernière partie, monte je ne dis pas à la verticale mais presque; dans toute ma vie, je ne m'y suis hasardé que deux fois à le faire à pieds et quand j'avais peu d'années. À présent, j'aurais de gros problèmes, pour user d'un euphémisme.
Il fallait un homme sec et un âne pour y aller chaque jour là haut. L'âne, à un certain endroit, devait prendre l'homme sec en croupe. C'était une femelle, une ânesse plus sèche que lui, qui connaissait la route par cœur et pas seulement celle-là. Comme lui la laissait libre, à une époque déjà remplie de stéréos, de musique disco et de TV commerciale, on la voyait qui se promenait seule dans le pays, où elle était devenue une espèce d'attraction. Une fois elle fit sensation, devant le bureau de poste, en s'arrêtant au passage piéton pour faire traverser une bande d'Allemands stupéfaits. Peut-être, qui sait, ont-ils pensé qu'à l'Elbe, les ânes sont mieux éduqués que les automobilistes.
Le Soldatino, par contre, je ne me souviens plus comment il s'appelait vraiment. C'était le Soldatino, et basta. Quand il avait dix-huit ans, il avait dû aller faire son service militaire, et à la première permission, il était rentré à la maison vêtu en soldat; de sorte que les femmes et les filles du pays, à force de lui dire "oh bellino il soldatino! Carino il soldatino! Ma guarda che bel soldatino!", l'avaient transformé en Soldatino pour toujours. Dans les villages, un surnom compte beaucoup plus que le vrai nom; encore aujourd'hui, il m'arrive de voir des faire-part collés aux murs avec des noms totalement inconnus jusqu'à ce que quelqu'un passe et dise : « Oh, è morto il Gringo! E' morta la Mezzasoma! »; alors je comprends subitement qui est passé à une vie meilleure. Il en est ainsi pour toutes et pour tous.
Le Soldatino, comme des milliers de soldats, à un certain moment a dû aller faire la guerre. On m'a raconté qu'il était allé en Afrique à Tobrouk, à Djaraboub, à El Alamein. Contrairement à l'usage des pays de mer, il était allé dans l'infanterie; mais certains affirment qu'on a vu des Elbois, de Marciana ou de Poggio, jusque dans les Alpins. La guerre finie, il n'était pas revenu immédiatement chez lui; on le revit des mois et des mois après et il avait rapporté deux choses. Une photographie en compagnie du Maréchal Rommel tandis qu'il lui serrait la main au milieu du désert et une fille à la carnation olivâtre, qui ne parlait pas l'italien. Elle venait des Îles Canaries et dieu seul sait où et dans quelles circonstances, il l'avait connue. Mais il doit y avoir au monde de ces amours qui vraiment ne connaissent pas de barrières; et ainsi, des Canaries, elle était atterrie à Elbe avec son Soldatino. Elle s'appelait Conchita.
Elle n'était pas noire. Elle était, probablement, une Guanche, une descendante de l'ancienne population des Canaries, fameuse pour son « langage sifflé » qui pouvait se comprendre à des kilomètres de distance, et avec lequel, à force de modulations particulières, les îliens étaient capables de communiquer des nouvelles importantes sur la chasse, le temps, sur tout ce qui pouvait servir. L'italien, elle l'avait appris ensuite, même si elle avait toujours conservé l'accent espagnol; elle servait dans les maisons, où elle était connue pour sa vitesse dans la réalisation de toutes les tâches. On lui demandait comment elle faisait; et elle, assise sur le seuil de chez elle, commençait à parler d'un petit pays au nom étrange, où quand elle avait sept ans, ses parents la laissaient seule à la maison pour s'occuper de faire à manger et de regarder à ses deux petits frères de deux et trois ans. Elle avait appris très tôt à faire les choses.
Lui avait travaillé un peu comme homme à tout faire. Un de ceux qui, quand la lumière sautait, le chargement se bloquait ou n'importe quoi d'autre, savait comment faire. Puis, on lui avait offert de s'occuper du phare du Poro et il avait dû prendre un âne. Je me souviens des trois derniers qu'il a eus. La petite ânesse est la dernière; entretemps Conchita faisait ses affaires et elle, de temps en temps, qu'il lui aurait plu de revoir les Canaries même une seule fois. Elle ne fut pas contentée.
Un après-midi qu'elle était sur son seuil, elle dit qu'elle avait mal à la tête et se leva pour aller prendre un verre d'eau à la cuisine. On entendit un bruit; une thrombose fulgurante. Et elle est restée ainsi pour toujours à Elbe, dans un cimetière où lui tiennent compagnie des femmes tombées là on ne sait trop pourquoi. Il y a une Irlandaise, qui a quarante ans ou un peu plus avait volé dans un ravin avec sa voiture. Une Norvégienne, ou Danoise, qui avait un kiosque de journaux près de la Foce. Et une Slave, qu'on appelait « Zorro » car son nom était Zgrno; la chose la plus prononçable qui avait un sens, en somme. Parfois, je me demande comment elle pouvait se sentir comme femme d'être appelée Zorro; mais elle ne devait pas s'en être fait un problème. Un jour ou l'autre, je me la ferai ma Spoon River personnelle; l'Anthologie de la Grotte, vu que le cimetière s'appelle ainsi : la Grotte.
Le Soldatino continua à aller allumer et éteindre le phare, même le jour des funérailles de sa femme. D'abord, car ils n'étaient pas mariés. Jamais mariés, comme je l'ai dit au début, ils s'étaient « accompagnés », comme on disait alors. Ils étaient bien ainsi. Pas d'enfant. Il y avait eu l'âne, et puis un autre, et puis, l'ânesse qui s'arrêtait aux passages piétons. Comment fera-t-on, comment fera-t-on quand je mourrai, disait-il toujours.; on ne l'a plus fait. Le Soldatino est mort et on l'a enterré pas loin de Conchita, mais pas à côté car la place était déjà prise et on ne peut certes pas dire à un mort de se pousser. L'ânesse est morte exactement douze jours après lui. Je me la rappelle qui restait à regarder, sur le bord de la mer, tandis qu'un ami et moi, on aidait le Soldatino à construire le môle de Galenzana. Ou mieux, il l'a fait lui, seul; nous on lui portait ses outils et lui s'en allait au village chercher ce qu'il lui fallait. Pourtant, il me plaît toujours de dire que ce môle, je l'ai fait un peu moi aussi, même si ce n'est pas vrai.
Immédiatement après fut mis en service, au phare, le dispositif automatique. On aurait pu le mettre même avant; mais on voit que, dans des lieux privilégiés, il y a encore quelqu'un qui y pense à deux fois avant d'enlever deux sous à un vieux. Ce doit être pour ça que, chaque fois que je le vois s'allumer et clignoter dans la nuit, j'entends un braiment et un sifflement.
Marco Valdo M.I. - 6/7/2009 - 21:25
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Canzone française – Canzone de Lucien l'âne – Lucien Lane – 2009
Bien sûr qu'on s'est souvent croisés sur les chemins de campagne, sur les sentiers de montagne, sur les routes pierreuses, aux détours des pèlerinages les plus divers... J'ai l'œil noir et vif et moi, je t'ai bien reconnu... Parfois, j'ai une croix sur le dos; parfois, je suis noir; parfois, je suis gris; parfois, je suis brun; parfois, je suis blanc... Je suis l'âne errant que tu croises sur le marché ou là-haut dans le pré. Mais passons. J'ai donc lu avec plaisir ( et Marco Valdo M.I. va la traduire) ta « Lettera ». Comme tu t'adressais à moi, je veux te répondre...
Ma come lo sai, il mio italiano è un po' scarso et poi, veramente, la mia lingua, da lontano, è il francese. Dunque, parlero francese.
D'abord, je vais lever le voile qui couvre pudiquement mes petits secrets. Je suis, dit ainsi mon ami Marco Valdo M.I., je suis un âne et je m'appelle Lucien. Cela tu le savais déjà. Et même, j'ai déjà laissé entendre que j'étais un âne très ancien, mais comme tu le verras, par une sorcellerie, je reste depuis toujours et sans doute pour toujours, jeune. Disons que je suis un jeune âne ancien.
Je sais, tu sais, nous savons que même sur l'île d'Elbe – au large de laquelle périt Lauro de Bosis – les ânes sont des ânes et la plupart sont, comme je l'ai déjà dit, des ânes anarchistes : durs à la tâche, francs du collier, têtes de pierre; bref, faut pas les pousser. Ni la carotte par devant, ni le bâton par derrière.
Enfin, je suis un âne à titre transitoire, même si la transition a des allures d'éternité. C'est là l'effet de la sorcellerie. En vérité, je suis Lucien, celui qui fut le héros du premier roman, je suis l'Âne d'Or et de ce fait, je suis comme tu le sais dès lors, un jeune homme (qu'une sorcière, una strega) a changé en âne. Oh, je le reconnais, ce fut plutôt une erreur de manipulation de la servante de cette mangeuse d'hommes; servante, soit dit en passant, que j'avais lutinée avec discrétion et un tempérament d'âne...
Je voulais être oiseau, mal m'en a pris, me voici âne – un drôle d'oiseau.
Je dis, un âne à titre transitoire... Car je compte bien retrouver ma forme première de jeune homme à succès; quoique avec les siècles, je sois devenu plus sage et que j'aie ainsi appris à lutiner à bon escient...
Est-il vrai qu'avec le temps et l'expérience, on réussit mieux ses amours ? Je n'en suis pas certain.
Cela dit, je retrouverai ma liberté lorsque j'aurai pu enfin manger les roses de la libération, les roses de l'anarchie.
Celles-là, je les cherche depuis quelques millénaires, mais comme tous les ânes – et spécialement, les ânes anarchistes – je suis patient et obstiné. Celles-là, je les trouverai, dussé-je aller au bout du monde. J'en ai déjà visité plusieurs de ces bouts du monde et j'y ai trouvé de belles roses et même, des roses trémières; elles étaient splendides, mais pas du tout, des roses d'anarchie.
Moi, Lucien l'âne d'Or, je les trouverai et je les mangerai pour tous les hommes que la sorcellerie du monde a fait ânes. Et notre Âge alors... sera l'Âge d'Or.
Comme bien tu le devines, mon nom de Lucien n'est pas innocent. Non seulement, c'est le mien, mais c'est aussi le nom du jeune homme que j'étais avant la sorcellerie.
Mais il y a plus encore : Lucien, c'est le porteur de lumière.
Quant à la référence des plus explicites à la chanson de Léo Ferré, L'Âge d'Or, (très exactement : Et notre Âge alors / Sera l'Âge d'Or) elle s'est imposée d'elle-même et moi, Lucien l'âne, je n'ai rien pu y faire. Elle est là et basta !
Bref, j'en ai dit assez pour cette fois, sauf ceci : que je te dédie ma complainte, ma ballade, c'est-à-dire la Canzone de Lucien ou la Cantilène de l'âne que je vais écrire pour la circonstance. Qu'on ne la prenne pas trop au sérieux, je suis un âne facétieux...
Cœur d'âne, cœur de lumière
Lucien Lane