Cantore popolare di Ostuni, in provincia di Brindisi.
"La prima volta che ho ascoltato Tonino è stato più di un quarto di secolo fa...sono trascorsi venticinque anni di alluvione della melma consumista, di degrado televisivo di ogni tessuto culturale, di riduzione dei valori tradizionali e popolari a strapaese da quiz e talk show dello scannatoio mediatico. Tonino non è entrato in nessuna moda, in nessun salotto, in nessuna maniera appetibile per il mercato neppure quello chic della sinistra, neppure in quella radicale. In questo lasso di tempo ho bestemmiato la mia rabbia perché un così grande e necessario talento non ha ricevuto l'ascolto e la dignità che gli spettava, invano. Bisogna rientrarci in qualche maniera, essere furbi, sapersi vendere, per "esistere" e questo vale anche per i migliori di noi. Tonino ha l'urgenza di una verità bassa e si sa questo tipo di verità non si vende. Ma Tonino viene dalle profondità del tempo e della terra, l'anima effimera dell'attualità non lo scalfisce, la sua arte proletaria e cafona non conosce il crepuscolo." (Moni Ovadia)
Tonino Zurlo è cantastorie e scultore di legno di ulivo, nato a Ostuni il 15 gennaio del 1946. E' uno dei massimi esponenti pugliesi della nuova musica popolare d'autore. Ha iniziato a 25 anni a suonare la chitarra e a interpretare i suoi brani in dialetto brindisino secondo la filosofia: ‘non è importante il ritmo del metronomo, ma quello del cuore’. Tonino canta («ma non so leggere la musica») e suona la chitarra («ma non la so accordare»), ha frequentato il Folk Studio di Roma, ma solo nel 2003 ha realizzato il suo primo CD "Jata viende", per lasciare una traccia nella memoria. Ha poi inciso "Nuzzole e pparolu" nel 2007, (da cui è tratto il brano qui proposto) e infine nel 2012 l'ultimo CD dal titolo "L'ulivo che canta", finalista della Targa Tenco per la sezione dialettale. E, come per Matteo Salvatore, le sue canzoni sono una continua preghiera, "il grido della gente del Sud dove si può solo mettere tutto in termini di vita o di morte, perché non c'è altro che conti" (Giovanna Marini) e continuamente riemerge nelle sue parole la tensione verso una presa di coscienza della condizione di sfruttamento dell’uomo, dal “padrone col bastone”, all’automatismo, fino alla “cultura dello sballo”.