Giuseppina Rettori

Antiwar songs by Giuseppina Rettori
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Giuseppina RettoriGiuseppina Rettori è nata la mattina alle 6 del 5 maggio del 1925 al Carbonile di Dicomano, a 3 chilometri dal paese risalendo la valle del Comano in direzione di San Godenzo, quella che poi è diventata la statale 67 “forlivese”, per il passo del Muraglione, via di collegamento tra il Mugello, la Toscana fiorentina e la Romagna di Forlì. Giuseppina è stata l’ultima figlia di Oliva Fossi nata anche lei al Carbonile nel 1882 e di Cesare Rettori nato 1877 in paese a Dicomano. Ha avuto due sorelle, Erminia e Angiolina, e tre fratelli, Romualdo, Gino e Valerio. Il nonno paterno si chiamava anche lui Romualdo, faceva il fornaio e “metteva il banco” alle fiere, ai mercati e alle feste del Mugello vendendo dolciumi, nocciole. Lui stesso faceva come specialità i brigidini, dolci fatti di pasta cotta all’interno di stampi fioriti. La casa dove abitava la sua famiglia si affacciava sulla strada, l’aia non c’era e dunque l’unico spazio a separare l’una dall’altra era l’”alzanella”. Non era un podere agricolo soggetto ai vincoli della mezzadria ma una casa in affitto per la quale veniva pagata mensilmente la “pigione”, il moderno canone. Chi viveva così veniva definito pigionale in distinzione di chi era mezzadro. La condizione di mezzadria per una famiglia della Val di Sieve era a quel tempo in genere ancora una cosa ambita, cui non tutti accedevano. Significava essere contadini presso un proprietario, che era padrone di quasi tutto ciò che si aveva attorno e che poteva controllare i comportamenti sul lavoro e fuori del lavoro di tutti i componenti della famiglia vivendo sotto il ricatto di venire cacciati dal podere. Ma significava anche avere da mangiare e una casa. La valle del Comano alle porte della montagna è stata proprio una zona di transizione tra l’economia mezzadrile delle aree più collinari e l’economia montana mista tra bosco e l’allevamento. Oliva e Cesare erano “pigionali”, non erano proprietari materiali di niente. Oliva seguiva la casa solo quando poteva perché “prima veniva il bosco, bisognava andare a ruscare” cioè guadagnare qualcosa. Quando non c’erano lavori richiesti da fuori, come braccianti, lavori da poco, per sopravvivere bisognava inventarsi qualcosa per conto proprio, arrangiarsi per “sbarcare il lunario”. L’obiettivo era, come dice Giuseppina: “non fare debito da i’ bottegaio perché sennò chi ce lo rilevava, poi? Sarebbe andato sempre crescendo e alle persone analfabete, gli rubaveno anche quel pochino che avevano. Gli usava a que’ tempi di andare a fare la spesa a peso sulla stadera, si pesava prima il sacchetto di stoffa e poi quello che si comprava a peso, per dire... la pasta, il riso, (brano n°31) intendo dal mugnaio o in bottega, ebbene se uno non sapeva leggere e scrivere il conto ‘un tornava mai. Perché se n’approfittavano di questa gente che non poteva controllare. Poi segnavano, e i sordi non bastavano mai per coprire il conto. Mio padre, volea vedere la spesa, lui avea fatto la terza, sapeva leggere e scrivere, sicché s’arrabbiava, perché i conto non si saldava mai. Così decise di sacrificarsi di lavorare notte e giorno e portare le balle di carbone dal bosco al Carbonile, faceva anche quattro viaggi dall’Ugnana fino a i’ Carbonile, ma l’Ugnana è lontana che sembra frega i’ cielo. Finito questo lavoro andò da i’ bottegaio, gli disse fammi i’ conto e lo saldò. Prese il libretto e lo strappò. E gli disse i bottegaio: perché strappi il libretto? Lui rispose, perché questo è il libretto del chiù! chi entra qui non sorte piu! E non ne volle più sapere. Quand’è morto, mio padre aveva ancora sulla testa, l’impronta della fune, la fune con cui per tutta la vita ha portato i pesi del carbone! Si cantava: Chi ha debiti non si impicchi, in galera non si va, chi avanza mostri gli scritti, quarche vorta si pagherà”. Giuseppina da piccola passava molto tempo con la sorella Angiolina, più grande di sei anni, perché la mamma era quasi sempre fuori a lavorare: “io fin da piccola volevo stare appiccicata alla mamma, ero riuscita a spodestare i’ mi babbo da i’ letto, pe’ stare con lei. Era sverta, dinamica! Pensa.. lei era rimasta orfana a cinqu’anni. Una volta quand’aveva cinqu’anni sotto il ponte di Carbonile c’era lei a sedere su un sasso e la badava ai tacchini, e la sorella di sette anni va giù a trovarla. E la mi’ mamma bambina la cantava. E la sorella gli disse: che tu canti ch’è morta la mamma?! Lei risponde sottovoce: canto piano! Capito?! Quando la stava a casa che pioveva mentre rassettava io facevo le bambole coi cenci, e lei aveva il bernoccolo del canto, la passione anche se le cose andavan male. E sicché su tutti i lavori: canto e stornelli e tutte le storie. Di strambellate tutte cose inventate sul momento, a seconda di quello che si stava facendo (brani n° 7 e 8).” La risorsa primaria era data dai beni del bosco, da raccogliere, preparare, rendere utili per gli altri. Una delle attività principale del padre Cesare era il granataio, cioè faceva le scope. Le preparava per la gente del paese e per i romagnoli che gliene ordinavano centinaia per volta. A livelli diversi tutta la famiglia era coinvolta. La risorsa veniva dal sottobosco perché le scope venivano preparate tagliando le piante di “scopa femmina” lasciate seccare sul terreno cosicché perdessero i semi per poi portarle a casa e legarle coll’anima bianca dei pruni, a due o tre mazzi. Un’altra attività per tutti era fare le fascine che venivano vendute per cuocere nella fornace o nei forni per fare il pane. Venivano portate in spalla sulla “groppa” fino a cinque fascine che si portavano vicino alla casa dove veniva preparata la “barca”, la catasta, in attesa di venderle. Durante l’autunno l’attività principale fuori da casa era la raccolta dei marroni, castagne coltivate. Si trattava di arrangiarsi recuperandoli dai castagneti più trascurati per poi venderli al mercato il sabato a Dicomano. Quando Giuseppina ha avuto sette anni andò alla scuola al Carbonile che venne costruita negli anni del regime fascista e frequentò fino alla quarta elementare in classe unica. In quegli anni il fratello Valerio ne aveva già una ventina e cominciò a prendere su commissione lavori di taglio del bosco più grossi, d’inverno in zona e d’estate più in alto nella montagna, nella zona dei boschi di faggio, verso il Muraglione dalla parte del Monte Falterona. Veniva coinvolta tutta la famiglia, nel bosco lavoravano donne e uomini. Buona parte dei lavori erano svolti insieme, per esempio quando si “impiazzava la carbonaia”, cioè si preparava la legna sugli spazi nel bosco predisposti per le carbonaie. Mentre gli uomini facevano l’atterrata con l’accetta, le donne l’”appezzavano” cioè il legname veniva preparato a pezzi di circa un metro di lunghezza poiché questa era la richiesta del padrone del taglio. Quando Giuseppina aveva dodici anni tutta la famiglia andò via dal Carbonile: “pe’ forza! perché queste case furono abbattute. Di lì dove stavamo passava sempre Benito Mussolini che andava a Predappio, e siccome c’era una curva molto brutta, e una volta rimasero fermi tutta la notte bloccati, perché Mussolini veniva da Roma e un camion con rimorchio veniva dalla Romagna. Sicché tutta la notte, e vai avanti e vai indietro a cercare di passare. Dopo di questo, sarà passata una settimana e vennero gli ingegneri a misurare, fare e dire, e queste case decisero....che non ci son più! Pe’ allargare la strada. E noi... si dovette venì via”. Andarono così a vivere nel Borghetto, quartiere di Dicomano. Dopo un anno Giuseppina cominciò a lavorare in filanda in paese e lì rimase fino all’inizio del’ 44 , quando cominciarono a farsi sentire i pesanti segni della guerra, e chiuse anche la filanda. Gino, il secondo fratello, era sotto le armi e non volle firmare dopo l’armistizio dell’otto settembre per il Fascio repubblicano. Fu deportato in Serbia e poi in Germania. S’ammalò di pleurite e per un anno e mezzo la famiglia non ebbe notizie. Giuseppina dice: “Furbi i tedeschi, quest’ammalati, pensavano, tanto moian da sé e così li rimpatriarono e Gino fu portato all’ospedale San Paolo di Modena. Ni’ qui’ tempo noi eravamo sfollati al grande podere di Monte dopo il bombardamento a Dicomano del 27 maggio e si ritornò giù ad ottobre. In quei mesi Valerio, il mi’ fratello andava co’ partigiani, quelli della Lanciotto (brani n° 27 e 28). Noi, tornati a Dicomano, dopo un anno ricevemmo una cartolina, che diceva che Gino era a Modena e d’andare a prenderlo. S’andò, ma dovemmo affittare un tassì, ci presero diecimila lire! Immaginatevi! Ma i’ mi babbo diceva sempre: Non vi preoccupate i sordi son come l’unghia, e rimettano, ricrescano! E così riportammo Gino a casa, ma poi dovette andare a Careggi, hai visto come il canto (brano n° 29), e poi di nuovo a casa morì.” Giuseppina era fidanzata con Quinto Paoli già da un po’ di tempo. “Quando morì Gino m’era successo quello che capita a tante fidanzate, a que’ tempi, poi...io ero già incinta, di due mesi. Sicché si doveva rimediare e ci siamo sposati soli, la mattina del due novembre 1945. Hai capito, mi son sposata pe’ i morti, era lutto!.” Hanno vissuto sempre al Borghetto con i genitori di Giuseppina, prima è nata Valeria e dopo quattro anni Paolo. Quinto che da ragazzo era stato garzone e poi bracciante a giornata iniziò a lavorare ai cantieri di muratura e poi come operaio. Giuseppina ha sempre continuato a fare “lavoretti” perché i soldi non bastavano mai. Quinto è sempre stato molto attivo nel Partito Comunista e alla Casa del popolo, mentre Giuseppina dice: “io le tessere non le ho mai volute, son d’un altro avviso. Per carità la son di sinistra, ma le tessere, no”. “Quand’ero ancora incinta di Paolo mi s’ammalò la mamma. Mi sembrava un peso insopportabile, ma si superò. Perché la natura l’é questa. Hai visto, un giorno ci sembra di non poter sopportare il presente e l’altro ci si trova diversi. E poi piano piano trovandomi co i’ babbo fra le tante storie che m’ha raccontato, le novelle, che io lo stavo ascoltare, e mi trastullava anche Paolo... gli cantava sempre quelle di Garibardi (brani n° 14, 15, 16). Trentatre anni fa è nato Gianluca, il primo nipote, figlio di Valeria. Poi è nato il piccolo Valerio, figlio di Paolo, che adesso ha ventun anni. “Il canto è una liberazione, io quando canto parecchio sto meglio, dentro. Se tu canti in casa specialmente, è una cosa che fa bene dentro”. Uno strumento per vivere. - Dal libretto dell'album

Giuseppina Rettori è morta l'8 aprile 2020 a Dicomano.