Daniele Vitrone ha scelto di chiamarsi Diamante: nome ideale per un rapper tosto e brillante che sa incastonare al millimetro tra i versi di un flow. Brasiliano di nascita ma cresciuto a Roma, adolescente negli anni Novanta, è diventato rapper, tecnico audio ed educatore nelle scuole attraverso laboratori di musica, tutto insieme appassionatamente. Pur facendo parte della scena hip hop italiana, parla come una voce fuori dal coro: si sente più vicino al rap americano e francese, con cui è cresciuto. Ma il suo ultimo singolo, Bahia, è un omaggio al suo Paese di origine.
Il ritorno a Bahia
«Sono figlio adottivo, nato a Salvador di Bahia in Brasile e adottato in Italia da piccolino da una famiglia che viveva a Roma, in un quartiere borghese della zona nord. Mio padre è napoletano e mia madre siciliana. Da post adolescente mi sono messo in cerca di me e ho sentito la voglia di trovare i miei genitori biologici. Poi, quando sono andato in Brasile a 22 anni, ho capito che quello che cercavo veramente era la madre terra».
Durante il lockdown della scorsa primavera si è concentrato sulla sua musica e le sue rime, ed è così che ha preso forma un pezzo scritto a più riprese negli anni, Bahia appunto, uscito a ottobre per La Grande Onda, etichetta di Tommaso Zanello (meglio noto come Piotta). «Il testo di Bahia è dedicato a Salvador. È un testo semplice, descrittivo, frutto di ciò che ho vissuto in quel viaggio durato un mese. Emerge un amore particolare». Amore che ritroviamo anche nei racconti a proposito delle collaborazioni nel singolo: «La base l’ho registrata in una ripresa, con Davide Borri, mentre il basso è di Jino Touche, contrabbassista di Paolo Conte, che ho conosciuto nel mio viaggio in Brasile».
La scoperta del razzismo
L’incontro con la musica brasiliana è arrivato in un secondo momento: in origine furono il rap e il pop. «In casa ho ascoltato la musica classica portata da mio padre, mentre da parte di mia madre arrivavano le canzoni di protesta di sinistra. Nei primi anni Novanta, quando andavo alle medie, sono passato al pop più pop possibile: dagli Snap a Michael Jackson, al rock che trasmetteva la radio, ai cantautori italiani come Venditti». Ed è in quegli anni che il rap ha fatto un ingresso trionfante nella vita di Diamante: «Walk This Way dei Run DMC è un pezzo che ha rivoluzionato l’immaginario del nero ai miei occhi di ragazzino tormentato dai “fasci” della mia zona».
A 14 anni pochi ascoltavano rap, e senza sapere nulla sono andato da Ricordi e mi sono trovato di fronte al disco dei Beastie Boys e a quello di Ice T. Tra i due, ho scelto quello nero… Era Original Gangster, nulla a che vedere con il tipo di rap che cerco di proporre ai ragazzi oggi. Insomma, volevo essere come Tupac
La sua passione musicale è frutto di una ricerca di identità, ci spiega. «A 16 anni ho saputo di una discoteca rap, frequentata dalla ragazza che mi piaceva. Lì ho conosciuto i neri di Roma, tutti stilosi come nei video delle TLC. Ho scoperto anche quanta fierezza e bellezza c’era nei neri. E io potevo far parte di quel movimento».
Dalle banlieues parigine a piazzale Flaminio
Nel 2001 è arrivato il suo primo album, Negri de Roma, una compilation con Indelebile Inchiostro, crew di ragazzi afrodiscendenti che frequentavano piazzale Flaminio, storico punto di ritrovo nel centro di Roma.
C’erano anche i fratelloni maggiori esperti di hip hop, arrivati da Paesi francofoni come Francia e Belgio. Loro ci insegnavano la musica dei neri perché erano già megaesperti, la Francia sta sempre avanti di almeno quindici anni
Negri de Roma è anche il titolo di un documentario del 2002 di Sabrina Varani a testimonianza di quel periodo, quando il Flaminio era la più grande comitiva multiculturale degli anni Novanta, ricorda Diamante: «Rappavamo in discoteca, eravamo quelli neri e fieri. Avevamo stile, quello che in origine era lo swag, e che allora era molto personale. Cercavamo l’originalità e l’individualità. Anche se esisteranno sempre simboli come le scarpe Jordan o l’Adidas, per la vera “testa hip hop” (da hip hop head, come si dice in gergo, ndr) il concetto dello stile non è legato al brand. Quella è una deriva del gangsta rap».
Informazione, non (solo) intrattenimento
Innegabili le differenze tra lo scenario del mondo rap e hip hop in Italia e quello internazionale. Diamante ha idee precise in merito: «Nel rap italiano tutti si insultano in rete: in America e in Francia non si fa. È buffo che un rapper trentacinquenne se la prenda con un nemico immaginario che non è fico quanto lui» spiega. Secondo Diamante, la musica dovrebbe informare, non solo intrattenere: «Mi piacciono gli artisti che chiamano in causa gli antenati, le divinità, la storia della propria città, trascendendo e sperimentando, cercando di essere più avanti».
Sarebbe bello che i venticinquenni capissero l’importanza di fare qualcosa di comunitario: il rap mi ha dato fiducia quando tutto il mondo intorno mi diceva che non valevo niente
L’educazione rap nelle scuole
I suoi non sono bei propositi calati dall’alto. Diamante, oltre che rapper, ama definirsi operatore musicoterapeuta: «Ho iniziato a studiare da educatore di comunità anche se, a pochi esami dalla fine, ho cambiato rotta e mi sono diplomato come tecnico del suono». Ma l’occasione di intraprendere l’attività di educatore si è ripresentata a Milano, a Mare Culturale Urbano, dove tiene laboratori di scrittura rap per ragazzi che vanno dai 12 ai 20 anni: «Con le scuole di periferia faccio esempi concreti del contesto della nascita della cultura hip hop, come le guerre tra bande e l’odio tra persone per la convivenza difficile. Persino le professoresse sono contente, perché capita che il ragazzino dato per irrecuperabile crei l’inaspettato. E vale anche per le ragazze, che a quella età sono meno condizionate dagli stereotipi» precisa. Con i più grandi l’obiettivo è diverso:
Dico loro di andare fino in fondo nelle cose, perché anche se non gli piacerà tutto poi si trova una quadra, al momento giusto
Diamante: «Dal Brasile all'Italia, insegno ai ragazzi a trovare una quadra. Nella musica e nella vita» - Nuoveradici.world