Un culto minoritario lo circonda in Italia dove, grazie ai Radiohead e ad al tri artisti che lo idolatrano, i più giovani lo stanno riscoprendo. In Inghilterra e nella natia America, invece, Scott Walker è quasi una figura mitologica. Si chiama, in realtà, Noel Scott Engel, classe 1944, dell'Ohio anche se i primi passi artistici li muove a New York dove incide, ancora minorenne, i suoi primi, dimenticati 45 giri. Il nome d'arte nasce dall'in contro con John Maus e Gary Leeds: sono tutti e tre biondi e belli e decidono di fingersi fratelli per sfondare. Nascono i Walker Brothers, più celebri al di qua dell'Atlantico, però, visto che è Londra a offrire il primo contratto discografico che porta a "The sun ain't gonna shine anymore", un numero uno in classifica che li lancia ma acuisce, nel contempo, le tensioni che portano alla divisione. Scott fa da sé quasi subito folgorato dall'ascolto di Jacques Brel. Inizia a tradurre in inglese i brani del grande artista belga (che è noto soprattutto in madrepatria e in Francia ma non nel Regno Unito) e a scrivere altri pezzi sulla falsariga. II risultato è un poker di album (numerati da 1 a 4) che fanno epo ca ma non vendono abbastanza. Gli anni Settanta trascorrono fra album realizzati controvoglia, quasi come l'inevitabíle reunion dei Walker Brothers. È solo nel decennio successivo che ritrova una sua dimensione pubblicando i suoi dischi con lassi di tempo omerici allontanandosi dalle telecamere e dai rotocalchi. Esattamente undici anni separano "Climate of the hunter" (1984) da "Tilt" (1995), acclamato come il suo capolavoro. Altrettanti hanno diviso quest'ultimo dal recente "The drift", nei negozi da poche settimane.