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I Looked Out From Drapchi Prison

The Nuns of Drapchi Prison / Le monache del carcere di Drapchi
Lingua: Inglese


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March 10, 1959
(Ivana Spagna)
རྒྱལ་གླུ། [༄༄། བོད་རྒྱལ་ཁབ་ཀྱི་རྒྱལ་གླུ།] [Gyallu; Rgyal·glu]
(Trijiang Rinpoche)
Tudor Arghezi: Serenadă
(GLI EXTRA DELLE CCG / AWS EXTRAS / LES EXTRAS DES CCG)


Quattro delle 5 monache morte nel 1998 nel carcere di Drapchi: Drugkyi Pema, Tsultrim Zangmo, Lobsang Wangmo e Tashi Lhamo.
Quattro delle 5 monache morte nel 1998 nel carcere di Drapchi: Drugkyi Pema, Tsultrim Zangmo, Lobsang Wangmo e Tashi Lhamo.


La liberazione della monaca 34enne tibetana Phuntsog Nyidron, poi partita in esilio negli Stati Uniti, segna in Tibet la fine della prigionia per un coraggioso e determinato gruppo di donne noto come le "Monache Cantanti" del carcere di Drapchi. Tutte le monache erano state imprigionate ad un'età tra i quindici ed i vent'anni per le loro proteste pacifiche contro la dominazione cinese in Tibet, e tutte sono state sottoposte a percosse, torture ed al totale isolamento carcerario. Sono divenute famose come "monache cantanti" dopo che sono riuscite a registrare segretamente delle canzoni sul Dalai Lama e sul futuro del Tibet su una musicassetta fatta uscire clandestinamente dalla prigione e giunta all'estero con mezzi di fortuna.

Una copia del verbale della sentenza pronunciata nei confronti di 14 monache per "crimini controrivoluzionari"è stata recentemente resa nota. Nel documento appare evidente che gli atti nonviolenti di sfida del gruppo di donne, uniti alla loro fedeltà al Dalai Lama, sono stati considerati dalle autorità cinesi come gravi minacce.

Ngawang Sangdrol e Phuntsog Nyidron negli USA, 15 marzo 2006.
Ngawang Sangdrol e Phuntsog Nyidron negli USA, 15 marzo 2006.
Nel verbale della sentenza si afferma che Phuntsog Nyidron, ex maestra di canto presso il monastero di Mechungri, che ha trascorso 15 anni in prigiona, era la "principale criminale" del gruppo di monache che hanno registrato le canzoni. Durante le udienze, presiedute da tre giudici tibetani, è stato appurato che le 14 monache hanno registrato la seguente "canzone reazionaria": "I cinesi hanno preso il Tibet, nostra patria / I tibetani sono rinchiusi in prigione / Oh, Tibetani tutti, venite qui / la sacra terra del Buddhismo sarà presto libera".

La difesa delle monache, secondo la quale la registrazione delle canzoni in carcere sarebbe "avvenuta per commemorare la loro vita [assieme] in carcere", fu respinta dalla Corte in data 22 settembre 1993. I giudici concludono che le 14 monache hanno "registrato 'canzoni reazionarie e indipendentiste tibetane' con atteggiamento di arroganza controrivoluzionaria" e "allo scopo di ostacolare la rivoluzione". Affermano inoltre che esse "hanno tenuto un comportamento criminale e abominevole", passando poi alle sentenze pronunciate nei confronti di ognuna di esse.

La pena più severa (8 anni) è stata comminata a Phuntsog Nyidron, già in carcere per una precedente condanna a 9 anni. Ngawang Sangdrol, sua ex compagna di cella, all'epoca sedicenne, è stata condannata a 6 anni ulteriori. Nel 2003, al momento della sua liberazione e della sua partenza per gli Stati Uniti, aveva passato circa 21 anni in carcere.

L'ex monaca garu Ngawang Sangdrol, che sta adesso studiando l'inglese a New York, ha detto: "Abbiamo registrato le canzoni perchè volevamo che le nostre famiglie sapessero che eravamo ancora vive, e che il popolo tibetano venisse a conoscenza della nostra situazione e dell'amore che portiamo al nostro paese. Speravamo che avrebbero raggiunto le nostre famiglie, ma ovviamente non ne potevamo essere certe. Finché non sono arrivata negli Stati Uniti, non avevo la minima idea che le nostre canzoni erano state ascoltate da tutto il mondo mentre eravamo ancora in prigione. Ascoltarle adesso mi rende molto triste, perché ricordo le nostre amiche che sono morte in carcere."

Nel febbraio 1994, un anno dopo le nuove sentenze per la registrazione delle canzoni, la monaca garu Gyaltsen Kelsang ha avuto un collasso cardiocircolatorio dopo una sessione di esercitazioni militari comminate dalle autorità carcerarie come punizione per le monache ed altre prigioniere di Drapchi. Gyaltsen Kelsang è stata trasportata in ospedale, paralizzata ad entrambi gli arti inferiori, e rilasciata sulla parola del medico nel dicembre 2004. E' morta a casa due mesi dopo, all'età di 26 anni.

Nel giugno 1998, cinque monache sono morte a Drapchi dopo cinque settimane di crudeli maltrattamenti in seguito a una serie di proteste pacifiche avvenute in carcere un mese prima. Tutte le monache erano amiche ed erano state incarcerate ad un'età compresa tra i 19 e i 25 anni per la loro resistenza pacifica alla dominazione cinese in Tibet. I loro nomi erano: Drugkyi Pema (al secolo Dekyi Yangzom), Tsultrim Zangmo (al secolo Choekyi Zangmo), Lobsang Wangmo (al secolo Tsamchoe Drolkar), Tashi Lhamo (al secolo Yudron Lhamo) e Khedron Yonten (al secolo Tsering Drolkar).

Le monache di Drapchi erano note per la loro amicizia e solidarietà, e talvolta hanno messo la loro stessa vita in pericolo per proteggere le loro amiche e compagne di cella. Ngawang Sangdrol ricorda quel che avvenne dopo le proteste del maggio 1998 a Drapchi, quando tutti i prigionieri furono duramente percossi e torturati dopo che, all'alzabandiera del vessillo cinese, avevano gridato slogan in favore del Dalai Lama. Disse: "A un certo punto, diverse guardie si sono messe a tirarmi calci in testa e a bastonarmi, mentre stavo svenendo. Più tardi, ho sentito che un'altra monaca, Phuntsog Peyang, mi si era gettata addosso per proteggermi, pensando che sarei stata uccisa. A quel punto anche lei fu percossa duramente. Probabilmente mi ha salvato la vita." La determinazione delle monache ed il loro rifiuto di sottomettersi alle autorità carcerarie è chiaramente espresso nella sentenza.

Nell'impossibilità di fornire il testo originale tibetano, diamo la traduzione inglese della canzone proveniente da questa pagina.
I looked out from Drapchi prison
There was nothing to see but sky
The clouds that gather in sky,
We thought, if only these were our parents.
We fellow prisoners
[Like] flowers in Norbulingka,
Even if we're beaten by frost and hail,
Our joined hands will not be separated.
The white cloud from the east
Is not a patch that is sewn
A time will come when the sun will emerge
From the cloud
And shine clearly
Our hearts are not sad;
Why should we be sad?
Even if the sun doesn't shine during the day
There will be the moon at night
Even if the sun doesn't shine during the day
There will be the moon at night.

inviata da Riccardo Venturi - 17/1/2007 - 23:15


Ho ricevuto oggi questa e mail :

LE ANIME MORTE

Un giorno, moltissimi anni fa, la reincarnazione del Buddha capitò nel Bhutan, tra le montagne della catena dell’Himalaya, là dove l’aria è così limpida che le vette altissime sembrano tanto vicine, da potersi toccare.

Il Buddismo Himalayano, variante del tradizionale Buddismo nato in India, viene predicato in quelle terre tra la popolazione che, fino ad allora, poggiava le sue credenze in una moltitudine di Dei e Demoni in lotta tra di loro per la prevalenza del bene e del male.

Da questa data remota e leggendaria, incomincia per il Tibet una nuova era.

La nuova religione fa talmente presa sui popoli di queste terre, che diventa parte essenziale della vita, permeandola a tal punto da diventare precetto, etica e Legge civile nello stesso tempo tanto che in breve, l’autorità religiosa e quella del Governo del Paese s’identificano nella persona del Dalai Lama che, secondo i Tibetani, è la reincarnazione in successive vite, del primo profeta del nuovo Buddismo.

Inizia così un lungo cammino spirituale per una cultura che si evolve raffinandosi in una spiritualità sempre più profonda.

Nascono diverse migliaia di monasteri e, su una popolazione di 2.500.000 persone, i monaci sono ben 400.000.

Poi, nel 1950, per motivazioni unicamente imperialiste, la Cina comunista invade il Tibet e comincia un’era di persecuzioni sistematiche, una pulizia etnica culturale che vuole distruggere tanta spiritualità.

Epurazioni, deportazioni, restrizioni religiose e la distruzione fisica di circa 3.000 monasteri si susseguono senza riuscire a piegare la resistenza dei Tibetani che, fino al 1959 tentano per ben tre volte di ribellarsi.

Le insurrezioni sono stroncate nel sangue ed alla fine il Dalai Lama e una consistente parte della popolazione, fuggono in India.

Oggi la repressione del governo comunista Cinese è ancora dura ed accompagnata da massicce immigrazioni di cinesi nel territorio per impossessarsene, così come fece il comunista Tito con i territori dell’Istria.

E’ una delle molte tragedie dimenticate dal mondo occidentale.

L’Amerika, formalmente sempre così sensibile alle persecuzioni ed agli attentati alla libertà dei popoli, tace e non si sogna di intervenire.

Il Tibet non è l’Iraq.

Il Tibet non è il terzo produttore di petrolio di tutto il medio oriente e le 7 sorelle non sono interessate ai patrimoni di spiritualità e di cultura che non hanno circolazione nelle banche mondiali, né costituiscono un pericolo per l’alleato/padrone degli USA, lo stato di Israele..

Per combinazione, in Tibet non c’è petrolio, né questo territorio rappresenta un’area d’interessi commerciali o strategici, ma anzi, scontrarsi con la Cina vuol dire essere messi fuori da un mercato di un miliardo e mezzo di persone.

Un mercato in continuo sviluppo e dalle enormi potenzialità future.

Ed allora non si può assolutamente intervenire, non diciamo militarmente, ma nemmeno tenendo viva la questione sui mezzi d’informazione internazionali, tramite l’ONU o mediante opportune azioni diplomatiche, per non disturbare le trame finanziarie del turbocapitalismo mondialista che sta intessendo rapporti e sviluppando progetti immensamente redditizi, a breve ed a lungo termine.

Va bene i “diritti umani”, ma, prima di tutto, la bottega…!

Anche l’Europa, per la verità, tace e non solo come federazione di Stati che purtroppo, non casualmente, non ha un’univoca politica estera, ma anche nella specificità dei singoli componenti, il che sta a dimostrare la sudditanza al “boss” USA.

A tutto ciò si aggiunga la considerazione che una fondamentale parentela ideologica, per quanto paradossale possa sembrare, esiste tra la Cina Comunista e gli USA ed è la comune matrice profondamente materialista che nega qualsiasi peso ai valori spirituali della civiltà Tibetana.

Inoltre il Tibet non fa parte di quella porzione del mondo dell’Islam suggestionabile dal potere dei dollari come Kossovo, Albania, Turchia ed altri che gli Usa stanno coccolando in chiave di contrapposizione al successo del progetto Europeo che, se realizzato, rappresenterà , questo si, un temibile avversario politico, strategico e commerciale per l’Amerika!

Noi, al contrario, “non abbiamo orecchio” per cantare nel coro e, se pur piccoli, se pur inascoltati, denunciamo il sopruso della Cina, compiuto con la complicità del silenzio del mondo filo Amerikano e, come per i Palestinesi, rivendichiamo, per i Tibetani il diritto a vivere nella propria terra, nella propria cultura, nella propria civiltà!

Difronte ad un ONU impotente ed inefficiente soprattutto a causa dei condizionamenti del potere di veto dei componenti permanenti del Consiglio di sicurezza (USA, FRANCIA, GRAN BRETAGNA, CINA, RUSSIA) che essendo in grado di bloccare qualsiasi decisione sgradita, impongono, di fatto, una tirannica oligarchia, noi chiediamo la soluzione del problema attraverso una Rifondazione di quest’organismo internazionale sulla base di maggiore equità, parità di diritti dei membri e maggiore potere decisionale e d’intervento. Insomma un vero e proprio Governo Mondiale con competenza su tutti quei problemi di carattere generale che investono gli interessi ed i diritti del Pianeta nel suo complesso.

Intanto noi parliamo del TIBET, facciamo il tam – tam sostituendoci alla comunicazione istituzionale che tace, non lasciamo che il problema muoia e che quelle terre siano trasformate veramente nelle terre delle anime morte.

Alessandro Mezzano

Willy - 18/1/2007 - 19:54




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