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La crociata dei Siriani [Der Syrierkreuzzug]

Riccardo Venturi
Lingua: Italiano




In Siria, tra il '12 e il '15
una guerra grande ci fu
che fece rovina e deserto
di tanti paesi e città.

La sorella ci perse il fratello,
la moglie il marito o l'amante,
tra fuoco e macerie i figliuoli
i genitori non trovano più.

Di Siria non venne più nulla,
malgrado Twitter e Facebook.
Però nell'Est dell'Europa
una storia strana raccontano.

Era estate, quando in quei posti
si sentì che la gente parlava
d'una gran marcia di gente
che in Ungheria era cominciata.

Trottava sulle autostrade
gente affamata e attruppata,
e dai villaggi bombardati
altri portavano con sé.

Dalle battaglie volevano
fuggire, da tutti quegli incubi
e finalmente un giorno,
venire a una terra di pace.

Ci avevano dei passatori
che li avevan guidati fin là;
gran soldi gli avevano dati
per pigiarli nascosti sui camion.

Parecchi erano crepati,
stecchiti li avevan trovati;
e quella era stata la fine
del viaggio verso una pace.

Marciava nel gruppo un bambino
con la maglietta del Barcellona;
lui, avvezzo a battaglie di strada
da coraggioso s'era battuto.

E due fratelli venivano avanti,
che erano grandi strateghi
per assalire i vicoli stretti
nel loro villaggio sperduto.

E c'era uno grigio, sottile,
che andava da solo nei campi
con una colpa tremenda:
veniva, dice, da Kobanê.

E una ragazzina tra loro
che sposa non voleva andare
a qualche barbone di merda
cianciante di un dio schifoso.

E anche c’era un cane:
per ammazzarlo l’avevano preso
ma gli era mancato il coraggio
e ora mangiava con loro.

E c’era una scuola ed un piccolo
maestro che si sgolava.
Sulla corazza di un carro, uno scolaro
sillabava, di « pace », « p » e « a ».

Marciando per l'autostrada
vedevan polizie e soldati;
e strani cartelli e targhe,
dicevano: Budapest.

E anche c’era un amore,
lei dodici, lui quindici anni.
In un cortile di macerie, lei
i capelli gli pettinava.

Aveva fatto anche un muro
il governo di Viktor Orbán;
e spine e reticolati
gridando: Magyarország!

Gridandolo come gridavano
quasi sessant'anni fa
i suoi connazionali
che scappavano a frotte da là,

Gridando: Szabadság!
Nessuno li aveva fermati.
Le fughe e i dolori son prima
o poi tutti dimenticati.

L'amore non poté resistere
in quella enorme città;
si trovarono ammassati
davanti a una grande stazione.

E anche una guerra ci fu,
comparvero altre bande,
ma la guerra fu presto finita,
ché non c’era ragione di farla.

Ma mentre ancora infuriava
sul piazzale della stazione,
si dice che a tutti impedivano
di salire sui treni in partenza.

E quando gli altri lo seppero
mandarono alcuni dei loro
decisi a protestare
ché non li facevan partire.

E intanto si discuteva
di quote invasioni e bla bla;
e di quella grande stazione
un accampamento si fa.

Un lager sembra diventata
la terra di Magyarország;
un lager di brutte coscienze,
ipocriti di qua e di là.

Frattanto sui social networks,
su tivvù, giornali e quaqquà,
c'era la foto di un bambino
spiaggiato che vita non ha.

E ci fu gran commozione
tra leader ministri e papà;
miracolo, ecco rispunta
dal nulla la solidarietà.

Così, tra muri di gomma,
stazioni e chilometri a piedi,
andavano sporchi e stremati
visibili ma non li vedi.

E c'erano fede e speranza
ma non c’era né carne né pane.
Chi non gli dette un tetto
non mi venga ora a dire che rubavano.

E nessuno dia colpa a quei poveri
che non li invitarono a tavola.
Per quei disgraziati, mangiare
ci voleva, non solo bontà.

Pareva che andassero a nord,
il nord è dove c'è denaro,
lavoro e lo stato sociale,
la pace e la santa famiglia.

Trovarono anche un soldato
con qualche foto di Assad;
non aveva il biglietto
però sapeva la via.

Lui disse: “In Almanya!
Cemania, Doitzland!”
Morì prima di salire,
la tomba è in Magyarország.

Sebbene partissero i treni
e ci fossero frecce e cartelli,
dovettero andare a piedi,
spuntarono anche i pennarelli.

Con numeri e sigle, si sa;
era per la sicurezza
e la razionalizzazione,
le cose si scordan di già.

Tuonavano i primi ministri,
panzoni lombardi e lacchè;
qualcuno vide la frontiera
e disse: “Dev'esser laggiù.”

La frontiera sembrava aperta,
le frontiere non sono mai aperte.
Passarono alla spicciolata
Dentro l' “Unione Europea”.

E giunsero ad altre campagne,
a monti, a villaggi, a città;
salirono sopra gli autobus
e andarono tutti in Doitzlànd.

Dove una volta c'era la Siria
ora c'è il niente, si sa.
Oppure c'è il tutto, ed il tutto
non porta mai alla verità.

E quando io chiudo gli occhi
li vedo come vagano
dalle rovine d'un villaggio
alle rovine d'una civiltà.

Su di loro, lassù nelle nuvole,
vedo altri cortei, nuovi, grandi!
Vanno a fatica contro muri e confini
i senza patria, i senza meta.

Cercando una terra di pace
senza il tuono, senza l’incendio,
non come quella che lasciano.
E immenso diventa il corteo.

Ma non c'è Alì, e beninteso
gli occhi azzurri non ce li ha.
Si cercano forse nuovi schiavi,
non c'entra la solidarietà.

Non sono accolti ma ingaggiati,
la fuga non finirà qua.
Per terra o per mare si sposta
nel niente ormai l'umanità.

Per terra e per mare si sposta
nel niente ormai l'umanità;
frontiere, barconi, spiagge,
soldati, salvini ed orbán.

Riunioni, trattati, dublini,
schengen, profitti, bergogli,
chiese e governi a far conti,
sultani e tanti portafogli.

In Ungheria quest'estate
un cane per caso fu preso.
C'era un cartello appeso
al suo collo smagrito,

E c'era scritto in arabo
e in un inglese stentato:
“Helb us were hungry
an go to Germany.”

Si commosse mezzo mondo
per quel povero cane;
fu preso e rifocillato
e ora benissimo sta.

Gli dettero un nome ungherese,
János, Miklós, chi lo sa;
si dice che è stato adottato
dal primo ministro Orbán.



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